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Capitolo III La Scuola popolare per adulti nel Subappennino Dauno (1947-1982)

1. Analfabetismo e miseria nelle località daune

La cultura popolare riveste un ruolo primario nella storia di un territorio, eppure spesso viene taciu-ta e col passare del tempo dimenticataciu-ta. Il suo maggiore depositaciu-tario è il popolo che il più delle volte, in passato, a causa dell‟incapacità di leggere e scrivere, non poté lasciarne traccia, se non in forma orale. Della storia della Capitanata1 e, in particolar modo, di quella del Subappennino Dauno2 e del-la città di Lucera3, località su cui è incentrato tale lavoro4, si ricordano le gesta di grandi uomini po-litici e letterati, la bellezza naturale e artistica dei luoghi e dell‟architettura, la storia antica di dina-stie e di re, mentre le vicende e le tradizioni contadine, la cultura dialettale, i racconti nei quali si ri-flette la vita del popolo e i riti folcloristici che ne scandivano le giornate restano al buio.

Da qui la difficoltà di trovarne le tracce e di tentarne la ricostruzione. La memoria del popolo, infat-ti, può essere tramandata di generazione in generazione, ma, se non viene custodita in forma scritta, col tempo tende a sbiadire o quanto meno a mutare, relegando nell‟oblio fatti e vicende di fonda-mentale importanza da cui le generazioni presenti e future possono trarre insegnamenti preziosi.

Fortunatamente alcuni storici locali ne hanno compreso il valore e lo hanno conservato in raccolte di frammenti di vita, racconti, leggende popolari e dialoghi dialettali5 che oggi diventano fonte di riflessione su quante difficoltà e su quanti sacrifici ha dovuto affrontare la povera gente meridionale

1 Territorio pugliese che comprende tutti i Comuni in provincia di Foggia.

2 Il Subappennino Dauno fa parte della Capitanata e corrisponde alla catena montuosa degli omonimi monti ed è delimi-tato a nord dalla valle del Fortore, a est dal Tavoliere delle Puglie, a ovest dallo spartiacque appenninico e a sud dalla valle dall‟Ofanto. Comprende i seguenti Comuni: Accadia, Alberona, Anzano di Puglia, Ascoli Satriano, Biccari, Bovi-no, Candela, CarlantiBovi-no, Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia, Castelluccio dei Sauri, Castelluccio Val-maggiore, Castelnuovo della Daunia, Celenza Valfortore, Celle San Vito, Deliceto, Faeto, Lucera, Monteleone di Pu-glia, Motta Montecorvino, Orsara di PuPu-glia, Panni, Pietra Montecorvino, Rocchetta Sant‟Antonio, Roseto Valfortore, San Marco la Catola, Sant‟Agata di Puglia, Troia, Volturara Appula, Volturino e ovviamente tutte le contrade e le fra-zioni rurali attorno a tali paesi.

3 Lucera è un‟antica città in provincia di Foggia ed è la più grande del Subappennino Dauno. Comprende numerose con-trade, masserie e borghi rurali dislocati su tutto il perimetro urbano. Viene ricordata in particolare come sede della for-tezza svevo-angioina edificata da Federico II nel XIII secolo.

4 La scelta di concentrarsi su tali località deriva in primo luogo dall‟elevato tasso di analfabetismo che caratterizzava questo territorio, in secondo luogo dalla notevole quantità di zone rurali dislocate su tutto l‟agro lucerino. Lo scopo del-la ricerca è quello di verificare l‟influenza che del-la Scuodel-la popodel-lare ha avuto sul livello culturale deldel-la popodel-lazione locale, nonché di constatare se effettivamente abbia raggiunto le zone rurali, e di recuperare e conservare una parte della storia locale ancora inedita e non detta. Inoltre, l‟assenza e la frammentarietà delle fonti presenti in altre città non hanno per-messo di estendere la ricerca a tutta la Capitanata e in particolar modo alla città di Foggia.

5 Cfr., tra gli altri, L. Chiarella, D. D‟Agruma, Racconti favole e leggende popolari di Lucera, Orion Editrice, Lucera 2002; G. Trincucci (a cura di), Il Frizzo 1909-1914 Donna Cuncettella e Donna Rusaria. Dialoghi in dialetto lucerino, Catapano Grafiche, Lucera 2014; R. Montanaro, Ati timbe (Altri tempi), Il Centro, Lucera 1997; D. Morlacco, Bazar Tripoli, Il Centro, Lucera 1994; E. Venditti, Ciacianella 2°. Vicende e personaggi della vecchia Lucera, Editrice Co-stantino Catapano, Lucera 1983; P. Soccio, Lucera minore, Editrice CoCo-stantino Catapano, Lucera 1989.

69 per acquisire un minimo di istruzione, ma soprattutto sull‟immenso significato che la cultura riveste nella vita dell‟uomo.

L‟analfabetismo, d‟altronde, è un fenomeno che non riguarda gli uomini di potere, ma quella parte della popolazione meno privilegiata, la cui storia va necessariamente recuperata e raccontata per comprendere fino in fondo le ragioni che hanno costretto per tanto tempo uomini e donne in uno stato di miseria e di ignoranza tale da poter perfino paragonare la loro vita a quelle delle bestie.

Il duro lavoro, le condizioni di sottomissione ai padroni, la mancanza di scuole, soprattutto nelle zone rurali, hanno generato nella popolazione dauna un‟ansia di cultura e di istruzione che si ritrova in molti racconti popolari:

Cumpà Tò, hai fatto la domanda?

Alla Banca Popolare?

No per lettore.

Ma io saccie fa appena la firma!

Nun fa niente, colla nuova legge elettorale tu pure, come a me, sei lettore, alfabeti e nalfabeti.

Davvero?! Embè cumpà Mi, mo è arrivate lu tuorno nouste, si tutte li cumpagne sime d‟accordo, putime fa nu partite forte assaie e quille quatte pechescie ca fino a mò hanno cumannate a lu Municipiglio sarebbero da nuie cummanate.

[…]

Cumpà Mi, se tutte e duie pe n‟esempio fosseme cunzigliere, che bella cosa! […] Siente a me io se fosse asses-sore de la grascia pubbliche, ce starria la grascia a la casa mia quanne me sarria accurdate cu li pesciaiuole, chianchiere, verdumare: io penzo ca niente mancarria a la casa! […] Dimodochè io me putarria magna lu filette, che manc lu sinneche se magne6.

Questo dialogo tra due popolani risale al 1912, quando con la legge del suffragio universale maschi-le tutti i cittadini (uomini), senza distinzioni, divennero emaschi-lettori. Nelmaschi-le loro paromaschi-le si percepisce, da una parte, il senso di inferiorità avvertito dagli analfabeti che, avendo ottenuto un diritto, quale quello della cittadinanza, fino ad allora negato, si sentivano inadeguati e incapaci di esercitarlo cor-rettamente e, dall‟altra parte, il desiderio di poter raggiungere posizioni di prestigio riservate sempre e solo ad una ristretta élite. Era un sogno a cui tuttavia non osavano credere realmente, ma solo im-maginare, quasi per gioco, “per ipotesi”, come se tale speranza rischiasse di allontanarli da una real-tà immutabile. Ed era un desiderio che, però, coltivavano non per potere e per fama, ma solo per

6 G. Trincucci (a cura di), Il Frizzo 1909-1914 Donna Cuncettella e Donna Rusaria. Dialoghi in dialetto lucerino, cit., pp. 36-37. La traduzione dal dialetto è:

“- Compare To‟, hai fatto la domanda?

- Alla Banca popolare?

- No per essere elettore.

- Ma io so scrivere appena la firma!

- Non fa niente, con la nuova legge elettorale, anche tu, come me, sei elettore, alfabetizzati e analfabeti.

- Davvero? Allora compare Mi‟, ora è arrivato il nostro turno, se tutti i compagni siamo d‟accordo, possiamo creare un partito molto forte e quei quattro damerini che fino ad ora hanno comandato al Municipio verrebbero comandati da noi.

[…]

- Compare Mi‟ se noi due, per ipotesi, fossimo consiglieri, che bella cosa sarebbe! […]. Dai retta a me se io gestissi l‟abbondanza pubblica, ci sarebbe abbondanza anche a casa mia una volta presi accordi con pescivendoli, macellai, fruttivendoli: io penso che non mancherebbe niente in casa! In questo modo io potrei mangiare perfino un filetto di carne, che nemmeno il sindaco può permettersi!”.

Poiché molti termini dialettali non sono in più in uso, per la traduzione mi sono avvalsa di tale supporto: D. Morlacco, Dizionario del dialetto di Lucera, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2015.

70 non soffrire più la fame, per comprare un “filetto” di carne in più, il che denota la loro condizione di miseria.

Non era solo la povertà ad avvicinare gli analfabeti alla cultura, ma anche il bisogno di autonomia:

I giovani analfabeti sono molti, ma hanno tanta voglia d‟imparare, per poter scrivere ai genitori e alle fidanzate durante il servizio militare, senza essere costretti a mendicare, a destra e a manca, per trovare chi gli scriveva una lettera, al quale essere costretti a raccontare i propri segreti7.

La mancanza di cultura inevitabilmente rende l‟uomo analfabeta dipendente dall‟uomo dotto anche nelle piccole cose della vita quotidiana. Inoltre, il bisogno di comunicazione dell‟essere umano è talmente forte che talvolta costringe a rendere pubblico perfino il privato.

Questa situazione era talmente consueta che i cittadini ne trassero addirittura una leggenda popola-re, intitolata La lettera e mastro Francesco:

Ére timbe de guèrre e, u saje cum‟è, maste Frangische ère u cchiù stròlenghe: tutte currèvene da isse, ére tutt‟isse.

Na pòvera crestiane avìje a lèttere d‟ò marite e nzapéve lègge: s‟a jij‟a ffà lègge da maste Frangische. Maste Frangische nzapéve lègge manghe isse. Allóre, pe nze fa ccòrge, se déve nu cundègne; po‟ se mettìj‟a gregnà e a stòrce u musse.

A pòvera crestiane guardave, se pruccupave e sse mbrussiunave; pèrò nen vuléve dà fastidie, tramènde ca maste Frangische leggéve.

Ma i sgrignaminde èrene sèmbe cchiù ggrusse, e qquèlle facìje unu curagge e ddecìje: «Cumbà‟ Frangì‟, p‟amóre de Ddije, chè éje? Vède ca faje na brutta facce!...». e qquille sgranave angóre de cchiù.

E qquèlle: «P‟amóre de Ddije, pe l‟àneme d‟i murte, dimme chè éje…». E mmaste Frangische se luàje i cchiale, e: «Bèllafè‟, me capissce ngurpe!».

Se truàje a ppassà n‟atu crestiane e a vedìje chiagne e scalemà, e ddummannàje: «Ch‟è ssuccisse?». «U ui‟, ag-ghie avute a lèttere e qquiste ne mme vóle dì chè éje, mò‟ me face murì, dice chè se capissce isse ngurpe…».

Qquille leggìje e èrene tutte nutizzie bune.

Allòre a pòvera fèmmene se vutàje: «Maste Frangì, puzz‟avè na còleca sècche!... Mo‟ me facìv‟avè nu tòc-che…». E mmaste Frangische decije: «Si quille l‟ha llètte a ddritte, ije l‟agghie lètte capesòtte, cum me l‟haje da-te!...»8.

Era tempo di guerra e, sai com‟è, mastro Francesco era il più sapiente; tutti correvano da lui, era tutto pieno di sé.

Una povera donna ebbe la lettera dal marito e non sapeva leggere; andò a farsela leggere da mastro Francesco.

Mastro Francesco non sapeva leggere nemmeno lui. Allora, per non dare nell‟occhio, si dava un contegno; poi si mise a fare le smorfie e a storcere le labbra.

La povera donna guardava, s‟impressionava e si preoccupava; però non voleva disturbare mentre mastro France-sco leggeva. Ma le smorfie erano sempre più grosse e quella si fece coraggio e disse: «Compare FranceFrance-sco, per l‟amore di Dio, che cos‟è? Vedo che fai una brutta faccia…». E lui faceva smorfie ancora più grosse.

E lei: «Per l‟amore di Dio, per le anime dei morti, dimmi che cos‟è…». E mastro Francesco si tolse gli occhiali, e : «Buona donna, – rispose – mi capisco in corpo…».

Si trovò a passare un uomo e la vide piangere e lamentarsi, e chiese: «Che cosa è successo?». «Ecco, ho ricevuto la lettera e questo non mi vuole dire che cos‟è; mi sta facendo morire, dice che si capisce in corpo…».

Questo lesse ed erano tutte buone notizie. Allora la donna si rivolse a mastro Francesco: «Mastro France‟, – dis-se – che ti possa prendere una colica dis-secca! Mi facevi venire una paralisi…».

E mastro Francesco: «Se lui l‟ha letta al diritto, io l‟ho letta al rovescio, come tu me l‟hai data!...»9.

7 G. F. Novelli, Neanche se mi uccidi! Vita di Peppino Papa, Grafiche 2000, Foggia 2007, p. 30.

8 L. Chiarella, D. D‟Agruma, Racconti favole e leggende popolari di Lucera, cit., pp. 16-18.

9 Ivi, pp. 17-19.

71 Tale episodio, qui tramutato in racconto ironico, non era affatto raro e testimonia l‟alto tasso di analfabetismo presente nel territorio. Le persone analfabete, quando finalmente arrivava una lettera, già di per sé tanto attesa, non avevano la possibilità di leggerla subito e in solitudine e, nel caso di cattive notizie, esprimere il proprio dolore in privato, ma dovevano necessariamente rivolgersi ad un altro uomo e fidarsi di ciò che veniva loro comunicato. Il testo, inoltre, molto probabilmente, ve-niva scritto con l‟ausilio di un altro “letterato”10 e non per mano del mittente; pertanto non è errato presumere che quelle parole celassero emozioni e sentimenti autentici, troppo personali e profondi per essere “dettati” e quindi “condivisi” con un estraneo.

Scrivere una lettera è un atto intimo, un momento di dialogo e di vicinanza con il proprio caro lon-tano, che viene immaginato, evocato dalle parole che scorrono sul foglio e che dovrebbero essere dettate dal cuore non dalla voce. È un momento di conforto, soprattutto per un uomo in guerra che, scrivendo ed esprimendo il proprio dolore e le proprie sofferenze, se ne allontana momentaneamen-te e si trasporta più vicino a casa, tra le braccia dei propri affetti. È, ancora, uno spazio di riflessione e solitudine, fisica e interiore, e tutto ciò veniva annientato dalla presenza di colui che rappresentava il solo e unico tramite con la propria casa. L‟analfabetismo, dunque, privava l‟uomo del diritto di esprimere le proprie emozioni e negava al/alla lettore/lettrice la possibilità di riconoscere in quelle poche righe le passioni e gli affanni di un marito, di un fidanzato o di un figlio che forse non sareb-be più tornato.

Non sempre, però, chi non sapeva leggere e scrivere era privo di cultura:

«Gennaio, Gennaro, Genesio, Generazione. Attenzione! Attenzione! / Gennaio è come una creazione». Simeone, vecchio contadino di Lucera, scandisce sillaba per sillaba «la filastrocca degli avi». […] non può menomamente sospettare che Gennaio derivi dalla radice greca “gen” che significa generare. Egli ha frequentato appena mezza prima elementare. […] dice – «Frequentai soltanto due mesi di scuola. Dovetti andare in campagna ad aiutare mio padre. Io sono un uomo senza alfabeta. La mia maestra è stata ed è la madre terra» […]. Poi continua a par-lare di «Gennaio che genera» o Iunuario, che viene da ianua cioè porta: quest‟ultimo significato egli lo conosce perché nella Litania dei Santi la Madonna viene invocata «Ianua coeli», «porta del cielo»11.

Parlare del mondo analfabeta come un mondo senza cultura è inesatto. Si tratta di una cultura “di-versa”, popolare, non appresa dai libri, ma dalla terra, dalla strada e dalla preghiera. È in ogni caso un sapere non oggettivo, che relega l‟uomo ai margini della società, in una posizione subordinata rispetto a colui che invece possiede l‟“alfabeto” e che pertanto assoggetta e sottomette chi ne è pri-vo. Per questo motivo Simeone si rammaricava di aver frequentato “soltanto” due mesi di scuola e definendosi “uomo senza alfabeta” era come se accettasse e legittimasse da sé l‟inferiorità a cui gli altri lo avevano costretto.

A confermare ciò vi è un altro testo:

Nei vasi sotterranei del palazzo Dogana a Foggia si conservano gli archivi, migliaia di fascicoli, carte, atti, lette-re, suppliche, mappe […]. Su questo ancora non del tutto esplorato mare di carte si trova scritta tutta la storia po-litica, amministrativa, giudiziaria della Dogana, ma difficilmente si troverebbe traccia della vita quotidiana e mi-nuta degli uomini della transumanza, dei loro affanni e privazioni. Erano uomini che non potevano, anche a

10 Per “letterato” allora si intendeva semplicemente una persona in grado di riconosce le lettere e capace di leggere e scrivere.

11 A. Lupo, Giambattista Gifuni e Lucera del suo tempo, Edizioni del Rosone, Foggia 1998, p. 100.

72 lerlo, far conoscere ai funzionari della Dogana le loro suppliche. Non era nei loro diritti. E, poi, non sapevano scrivere. Le lettere, le lamentele, i ricorsi, le proteste erano dei baroni mai soddisfatti, e dei loro fiduciari12.

Gli analfabeti, privi della capacità di scrittura, venivano privati anche della voce e della parola che, inascoltata in passato, resta tale anche nel presente poiché assente negli archivi, nei testi di storia e in qualsiasi fonte scritta.

Un uomo senza memoria è un uomo senza passato, pertanto, senza identità. Lo storico è un custode della memoria e ha il compito di trasmetterla alle generazioni future affinché queste ultime possano trarne insegnamenti ed esempi. Se egli lascia che parte della memoria vada perduta per sempre allo-ra priverà l‟umanità della sua identità.

Il mestiere più comune in queste località daune era quello del contadino, descritto in molti racconti come il lavoro più devastante in assoluto tanto che il bisogno di cultura per il bracciante diveniva un futile privilegio di cui non avvertiva nemmeno la necessità. Uno di questi racconti narra una storia diffusa tra gli agricoltori del Tavoliere:

Dopo una vita d‟inferno sulla terra, un bracciante, arrivato alla fine dei suoi giorni, viene, una volta giunto nell‟oltretomba, destinato, tanto per non cambiare ambiente, all‟inferno. È l‟unico posto dove finisce perché, nel corso della sua vita, è stata costretto a lavorare tutti i santi i giorni dell‟anno, riuscendo a malapena a sfamare la famiglia, non ha mai frequentato i precetti della chiesa, non ha mai santificato la Pasqua e non è mai andato a messa la domenica.

I diavoli lo prendono in consegna e, naturalmente, cominciano a fargli i trattamenti riservati ai dannati. Ma il bracciante, trovatosi, per la prima volta in vita sua, a non doversi alzare alle tre e mezza di mattina per recarsi al lavoro, a non dover fare tanti chilometri a piedi per arrivare e tornare dal luogo di lavoro, a non dover lavorare da sole a sole, ormai sollevato da tutti questi impegni, esclama soddisfatto: “Ah! Finalmente vedo la luce del para-diso!”

Uno dei diavoli che lo stanno torturando, stupito per l‟accaduto, perché è la prima volta che un dannato non alza le sue imprecazioni al cielo, va a riferire il fatto a Belzebù, il capo dei diavoli, che, sorpreso dall‟accaduto, co-manda allo stesso diavolo di recarsi subito sulla terra per sperimentare, di persona cinquanta anni di lavoro da bracciante agricolo – tanti ne ha fatti il dannato che stanno torturando – e, di tornare, poi, a riferire.

Dopo una settimana, il diavolo è già di ritorno. “Non facevo in tempo a finire un lavoro, che già il padrone me n‟assegnava un altro, senza un attimo di respiro dall‟alba al tramonto di ogni giorno. Ma andassero a cagare il lavoro agricolo e tutti i padroni!”

Belzebù è irritato, perché il diavolo ha disobbedito, e gliene chiede subito conto.

Stanco morto, il diavolo fatica a rispondere, e non certo perché i colleghi lo stanno inforcando per aver disubbi-dito all‟ordine di Belzebù. Le sue membra sono così stanche, che non provano alcun dolore per quelle torture.

Belzebù, che per essere il capo dei diavoli è anche il più intelligente, capisce subito il messaggio: “È meglio l‟inferno che la vita del bracciante agricolo!”13.

Questi uomini conducevano – e conducono ancora – una vita paragonabile a quelle delle bestie ed erano talmente esausti da non prendere coscienza nemmeno della propria dignità di uomini. Il biso-gno del “pane” sovrastava quello dell‟istruzione. Come potevano pensare alla cultura come a una risorsa primaria della vita quando anche il diritto al riposo veniva loro negato? Come potevano solo immaginare di frequentare un‟ora di scuola dopo una giornata così spossante?

Conoscere le sofferenze dei contadini diveniva allora essenziale perché per poter eliminare l‟analfabetismo si doveva prima di tutto auspicare al superamento di tali condizioni di vita.

La guerra, poi, aggravò notevolmente la situazione.

12 I. Palasciano, Le lunghe vie erbose. Tratturi e pastori della Puglia di ieri, Capone Editore, Lecce 1981, p. 39.

13 F. Novelli, Neanche se mi uccidi! Vita di Peppino Papa, cit., pp. 73-74.

73 Durante la seconda guerra mondiale e nel periodo immediatamente successivo il problema dell‟analfabetismo rappresentava una preoccupazione di secondaria importanza per i cittadini dauni costretti a vivere nella miseria e a lottare giorno dopo giorno per un lavoro.

Dal 1943 la città di Lucera e vari paesi del Subappennino Dauno accolsero migliaia di rifugiati e di profughi provenienti soprattutto da Foggia14; le strade principali vennero minate e fatte scoppiare dai tedeschi per ritardare l‟arrivo degli alleati, pertanto frequentare la scuola era impossibile per i bambini, e tantomeno per gli adulti, e nessuno sapeva se e quando sarebbe stata riaperta15. I ragazzi dovevano aiutare i genitori e lo studio veniva completamente abbandonato. Significativo a tal pro-posito è il racconto di un ragazzino, pubblicato in una raccolta di storie e frammenti di cultura popo-lare lucerina: «Per il momento sono a disposizione di mia madre per il disbrigo di alcune faccende.

Ci sono molte cose arretrare da fare e non posso sottrarmi. Mamma ha bisogno di aiuto, soprattutto nell‟accudire la bambina e sono io a tenerla in braccio per delle ore»16.

Dal 28 settembre 1943 le truppe alleate «presero possesso di tutta la Capitanata»17 e allestirono nu-merosi campi di aviazione. Solo in provincia di Foggia si presume che ce ne fossero circa trenta e nei vari accampamenti dislocati presso le zone rurali, come quello di Posta del Colle, molti lucerini trovarono lavoro18. La presenza degli alleati, tuttavia, fece aumentare gli episodi di saccheggio cau-sando gravi danni alla cultura. A Lucera, ad esempio, la prestigiosa scuola del Convitto Ruggero Bonghi venne adibita a sede militare e i moltissimi libri conservati al suo interno furono bruciati.

Privati della possibilità di frequentare la scuola molti ragazzi si diedero al mercato nero e numerose ragazzine furono costrette alla prostituzione in cambio di cibo. I lucerini ricordano che molti soldati, storditi dall‟alcool, «si presentavano spesso davanti alle porte delle famiglie oneste, pretendendo di avere ragazze»19.

In questo periodo anche il tasso di disoccupazione era molto alto e «la gente si arrangiava facendo mille mestieri pur di riuscire a vivere»20, ma in tutto il territorio della Capitanata la maggiore fonte di lavoro restava la campagna. La condizione dei lavoratori era pessima; la giornata di lavoro dura-va dall‟alba al tramonto rendendo impossibile la vita e l‟ignoranza impedidura-va loro di prenderne con-sapevolezza. Gli anni del fascismo avevano inoltre acuito tale situazione manipolando la mente e la coscienza degli analfabeti, abituati soltanto ad obbedire ai padroni e a subire ingiustizie21. Solo do-po la caduta del regime «i lavoratori incominciarono a rendersi conto della propria condizione ini-ziando una serie di lotte»22 per l‟occupazione delle terre incolte23. Si parlava sempre più spesso di diritti e quello che faceva «più presa negli animi [era] il diritto alla terra da parte dei braccianti, sa-lariati e disoccupati. La fame di terra è una fame atavica nel Mezzogiorno e in tutti i comuni di Ca-pitanata»24. Nel 1945 vennero concessi ai contadini meridionali oltre 170.000 ettari di terreno25, ma non mancarono ostruzioni burocratiche.

14 Cfr. R. Montanaro, Ati timbe (Altri tempi), cit., p. 38.

15 Ibidem.

16 Ivi, p. 40

17 Ivi, p. 45.

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 46.

20 Ivi, p. 89.

21 Cfr. G. F. Novelli, Neanche se mi uccidi! Vita di Peppino Papa, cit., pp. 62-63.

22 R. Montanaro, Ati timbe (Altri tempi), cit., p. 61.

23 Cfr. A Facchini, R. Iacovino, Proletariato agricolo e movimento bracciantile in Capitanata (1861-1950) da Mucci a Cannelonga, Lacaita, San Marco in Lamis (FG) 1982; A Mangano, Le cause della questione meridionale, ISEDI, Mila-no 1975.

24 G. F. Novelli, Neanche se mi uccidi! Vita di Peppino Papa, cit., p. 118.