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L’analisi delle traiettorie di lavoro non-standard: la prospettiva dei contribuenti

L’inquadramento del fenomeno del lavoro non-standard ha sottoposto gli esperti di materie lavostistiche a rielaborazioni concettuali ed empiriche di non facile soluzione. In questa ricerca in apertura si è preferito dare spazio alla riflessione teorica accompagnata dai dati «reali» rilasciati dall’Istat e dalle pubblicazioni scientifiche più importanti. Come sorta di tappa di avvicinamento nei confronti degli utenti dei servizi per l’auto-impiego, si è cercato di portare avanti un’analisi originale che riuscisse a tratteggiare le traiettorie di lavoro di molti giovani (e non) che sono suddivisibili in due categorie note: i parasubordinati che rappresentano una specie giuridica tutta italiana; e le partite iva senza cassa e senza albo. Come si noterà dall’analisi dei dati empirici primari dei capitoli successivi, molte delle donne intervistate, sia con traccia di intervista che con il questionario somministrato per e-mail e per telefono, corrispondono al tipo di soggetto che viene nei prossimi due capitoli approfondito. Tuttavia, malgrado i limiti metodologici ed esplicativi che la seguente analisi dei dati secondari ha palesato (si rimanda ai paragrafi appositamente dedicati), bisogna anche sottolineare che non tutti i lavoratori che possono cadere in questo insieme amministrativo per uso previdenziale possono essere considerati quelli che poi effettivamente rappresentano il profilo dei beneficiari degli incentivi agli start-up. Soprattutto per quanto attiene le partite iva è quanto mai necessario fare attenzione a discriminare attori sociali profondamente diversi fra loro. A supporto di una presa di posizione cauta, corre in soccorso un’analisi come quella di Banca d’Italia già citata (Banca d’Italia, 2008, p. 12).

È evidente che già le sole differenze nel tempo per retribuzione – che è la variabile più interessante in questo tipo di fonte – non possono che produrre differenze ancora più profonde a livello sociologico.

Ad ogni modo, pur nella consapevolezza di questi limiti, si è cercato di proporre degli approfondimenti per questo secondo tipo di soggetto tale per cui i rischi di equivoci dovrebbero essere minimizzati.

4.1. Le traiettorie di carriera: i lavori flessibili come processo

In uno dei suoi recenti articoli, ripreso anche in occasione dell’apertura dell’a.a.

2006-07 della Facoltà di Sociologia del primo ateneo romano, Accornero ha avuto modo di approfondire nel dettaglio alcune implicazioni sul tema della flessibilità del lavoro. Dal punto di vista dei giovani e giovani adulti, uno dei presupposti fondamentali che la flessibilità dovrebbe permettere è quello di favorire un percorso di cittadinanza per quei lavoratori che si trovano ad avere traiettorie di carriera frammentati. Oggi abbiamo una conoscenza ancora insufficiente dei processi individuali che hanno cambiato radicalmente il lavoro e il mercato del lavoro, se non grazie ad alcuni lavori qualitativi di spessore che evidenzino anche il ruolo delle aspettative di transizione da quelle di stabilizzazione (Fullin, 2004, pp. 42 e ss.;

Magatti, Fullin, 2002). Oltretutto il passaggio dall’analisi del lavoro ai processi che governano la transizione da un lavoro all’altro è ancor meno studiato. Con questo lavoro si tenta di aprire una strada di ricerca volta a capire quali siano le tracce della cittadinanza della società dei lavori (Accornero, 2005). Per far questo è doveroso prima riprendere – per quanto sommariamente – le fila del dibattito scientifico sul tema della flessibilità del lavoro. Successivamente si cercherà di fare chiarezza sul mondo eterogeneo dei parasubordinati prediligendo prima una breve disamina aggregata, e poi un’analisi longitudinale che consenta di capire i percorsi individuali e quindi i meccanismi del nuovo mercato del lavoro.

Il tema delle traiettorie lavorative può essere preso da diversi punti di vista.

Leggendo le dinamiche del mercato del lavoro in modo longitudinale pluridecennale, Salama dimostra che effettivamente il lavoro non ha vissuto una precarizzazione, almeno fino all’introduzione del pacchetto Treu. Ma a seguito di questa novità nel diritto del lavoro vi è una secca inversione di tendenza in quanto a sicurezza del posto di lavoro (Salama, 2006). Contributi di matrice più psicologica, come quello di Burchell, evidenziano i costi sociali della precarietà dovuti anche a uno stress continuo nel cercare nuovi lavori (Burchell, 2006). Esiste quindi un costo umano non

contabilizzato che la flessibilità produce (Gallino, 2001), anche se rimane difficile capire quanta possa essere considerata un investimento per il proprio futuro, cioè per la propria crescita, e quanta di questa flessibilità invece rimanga fine a sé o addirittura controproducente, ovvero una via senza ritorno verso i bad jobs. Con queste premesse la flessibilità (intesa come somma di lavori? Come lavori a progetto e “a cottimo”? Come lotta alle trappole della precarietà e a favore di percorsi professionalizzanti?) soggiace in un piano non applicativo, rimanendo su accezioni positive, negative, rivendicazioniste, o attenti al panorama europeo della flexicurity e delle politiche attive del lavoro.

Quindi aprendo la scatola della flessibilità nel lavoro si devono fare innanzitutto delle distinzioni doverose per analizzare un fenomeno che appare sempre più multidimensionale. Ad esempio si può scindere fra flessibilità numerica e funzionale (Farrel, 2006), dove la prima riguarda più da vicino le norme e l’esercizio della regolazione del lavoro in quanto a divisioni delle mansioni, orari e formule contrattuali in genere; la seconda invece riguarda la qualità del lavoro espresso e i margini di adattabilità che i lavoratori riescono e sono disposti a imprimere in modo volontario. La prima accezione sembra ad oggi del tutto marginale se confrontata alla seconda, ma anche la seconda tende a potersi suddividere ulteriormente. Appare chiaro che è necessario andare oltre il concetto omnicomprensivo di flessibilità per optare per una via analitica partendo da un’attenta disamina del nuovo paradigma della flessibilità come ideologia, ovvero come costrutto cognitivo (Borghi, Rizza, 2006). In particolare è possibile superare la concezione del lavoro come mero effort al quale corrisponde un compenso pattuito, tipico della concezione economica del lavoro che decurta l’analisi delle implicazioni sociali, lasciate a latere.

Come che sia, i mutamenti in corso nel mondo del lavoro muovono da un progressivo allontanamento da forme standard del rapporto di lavoro (subordinato ed eteronomo) verso forme indipendenti e autonome che lascerebbero il passo a concezioni di fondo di stampo neoliberale. Il dibattito sulle rappresentazioni delle trasformazioni del lavoro contemporaneo viene visto infatti come una progressiva erosione del lavoro standard che però non diventa lavoro connotabile come il suo opposto, ovvero la libera professione (tipicamente il notaio, architetto, medico, avvocato, ecc.) come ad esempio consulenti aziendali o informatici che esercitino

liberamente e per più committenti la propria professione: la forma più cospicua di questi ibridi sono stati appunto i lavoratori parasubordinati.

In generale sono almeno due le direttrici principali di evoluzione delle forme di lavoro: la prima muove dalla subordinazione verso l’indipendenza, ma rimane in un contesto di relativa eteronomia; la seconda rimane subordinata ma cambia da eteronoma ad autonoma. Queste due differenze idealtipiche costruiscono scenari in cui chiaramente i lavoratori atipici sono molto diversi fra di loro (Borghi, Rizza, 2006). Questo può essere una buona intelaiatura teorica entro la quale muoversi per capire l’impatto (delle scelte) delle forme contrattuali dei giovani lavoratori sul loro percorso di carriera. Vi sono infatti molti modi di destreggiarsi fra tanti lavori anche rispetto a valori e atteggiamenti (Catania, Vaccaro, Zucca, 2004), ma rimane il fatto che un asse ipotetico può essere quello che scinde l’individuo fortemente orientato alla carriera in senso tradizionale (ambizioni, motivation achievement, o anche puro arrivismo) che può essere orientato anche a fare più esperienze, contrapposto alla persona che punterebbe all’ottenimento di un lavoro sicuro e stabile, che cercherebbe quindi di minimizzare lo spezzettamento e i lavori.

4.2 I paradossi della flessibilità

A oltre dieci anni dall’introduzione del Pacchetto Treu, e a più anni ancora di distanza dalla riforma del sistema previdenziale italiano, si può affermare che ormai vi sono molti studi inerenti la flessibilità del lavoro, o precarietà. Quest’ultimo termine pare essersi sviluppato soprattutto una volta scoperte le implicazioni perverse e i paradossi negativi che la flessibilità numerica ha comportato, soprattutto per i giovani. È anche vero che lo stesso termine «precarietà», come del resto

«flessibilità», rimanda a una concezione che – come sostiene la letteratura italiana (Accornero, 2006, p. 67) – tende a connotarsi come lamentevole (e quindi anche su un piano di percezione, vale a dire di aspettative), pur se a ragione perché esiste una sperequazione fra chi è tutelato e chi non lo è.

In ricerche come quelle condotte dall’Ires (2005) si cerca di capire l’evoluzione nel tempo di una categoria sfuggente di professionisti – talvolta non a torto etichettati come “pseudo-liberi professionisti” o anche “proto-imprenditori” (Salmieri, 2006) –

che non ricadendo in una libera professione rischiano di svilupparsi in condizioni retributive e di potere contrattuale sfavorevoli. Ciò potrebbe trovare spiegazione nel desiderio di svolgere un determinato lavoro di elezione. Questo oggetto di analisi difatti è particolarmente ricco di ostacoli non solo interpretativi, ma prettamente definitori. Basti pensare ai problemi di lettura delle dinamiche (ascesa o declino?) del

“lavoro autonomo” e le interpretazioni a livello aggregato (Bologna, 2006; Reyneri, 2006b; Accornero, Anastasia, 2006, p. 749) che pongono la prospettiva dell’analisi dei dati amministrativi come fonte alternativa per stimare – pur se in linea di massima – quanto la Partita Iva possa essere una sorta di limbo provvisorio oppure una condizione costante negli anni. Questo interrogativo è chiaramente uno dei molti che si potrebbero portare avanti, forse quello che nel modo più ottimale può essere corroborato con questa tipologia di microdati. D’altronde non è raro trovare in ricerche di stampo qualitativo (Fullin, 2004) dei cenni al fatto che la Partita Iva (o altre condizioni molto simili in quanto a indipendenza formale, contrattuale e meramente giuridica) viene «proposta» dal datore di lavoro come unica soluzione per poter lavorare.

4.3 Professionisti, ma liberi?

Uno dei punti cardine che guida la presente riflessione riguarda un’insieme di contraddizioni che emergono allorquando si studia il fenomeno dei professionisti che cadono al di fuori delle casse previdenziali e degli albi tradizionali. È infatti un’evidenza empirica che esistano delle nuove tipologie di lavoratori outsider in quanto a tutele e diritti sociali spesso garantiti attraverso la forma occupazionale a tempo indeterminato o all’appartenenza a un albo. Il dibattito è comunque serrato anche in altre discipline, a partire da quella giuslavorista ha dibattuto sulle incoerenze nelle nuove forme contrattuali (Lagala, 2004; Foglia, 2003), e al difficile contorno di un possibile tertium genus fra lavoro subordinato e indipendente (Mariucci, 2006).

La questione non è certamente riconducibile soltanto a un livello giuridico. Lo spostamento da forme eterodirette, ma almeno subordinate (ovvero tutelate e

governate), a forme che però non sono il suo diametralmente opposto (autonomia e al contempo indipendenza) appare infatti non risolto [Borghi, Rizza 2006].

Fig. 2 Trasformazioni della natura e delle forme del lavoro

Fonte: Borghi, Rizza 2006

Sappiamo infatti che la situazione odierna ha prodotto, per giovani e meno giovani, situazioni ibride da un punto di vista contrattuale e socio-economico, arrivando sostanzialmente alla subordinazione autonoma (dipendenti responsabilizzati), che prefigura sostanzialmente nuove politiche del personale improntate alla motivazione;

oppure a forme – anche qui varie – di indipendenza formale abbinata a sostanziale eteronomia, ovvero incapacità di spendersi come dei veri consulenti e professionisti prima ancora che come attori economici (vi rientra il caso idealtipico della ditta individuale imposta dal datore di lavoro come condizione per lavorare).

Questo schema, per quanto utilissimo, sancisce più un punto di partenza che un punto di arrivo. Infatti se si cerca di adottare il punto di vista delle traiettorie di carriera dei lavoratori, si può supporre che chi effettivamente parte da una posizione subordinata-eteronoma può spostarsi da quel quadrante avendo probabilmente delle componenti di discrezionalità importanti: il neo-consulente con esperienza di lavoratore subordinato probabilmente avrà un capitale sociale da sfruttare e può essere un soggetto che rassegna le dimissioni per propria libera scelta (Sennett, 1999).

Subordinato

Eteronomia Autonomia

Indipendente

A

B C

D

Fig. 3 Lo schema delle trasformazioni del lavoro in un’ottica di flussi

Fonte: Elaborazione propria

Ma il punto di vista che si vuole qui privilegiare è quello delle generazioni più giovani, di coloro che possono anche essere definiti outsider del mercato del lavoro, e che potrebbero essere definiti più propriamente delle persone che devono scontare lunghi periodi di “prova” e più esperienze prima di approdare a eventuali assunzioni oppure a forme sostanziali di professione ben retribuita e, probabilmente, in pluricommittenza. Si sta parlando in altri termini di chi è giovane e ha partita iva parte, e che, dalla posizione subordinata ed eteronoma (posizione «B») potrebbero spostarsi verso altri quadranti. In questo caso può essere interessante interrogarsi sul tipo di spostamento, if any, e verso quale quadrante. Considerata la natura dei dati che si hanno a disposizione, attualmente è possibile soltanto sapere in un dato tempo quante persone rimangono nella stessa situazione formale-contributiva.

Il problema di una valutazione, anche ex-post, dei percorsi di carriera di molti lavoratori autonomi rimane quindi ancora non pienamente decifrata e decifrabile, non soltanto in un’ottica di diritti negati, quanto anche di chance e opportunità di crescita professionale in contesti in cui non bisogna soltanto evitare le «trappole del precariato», ma anche inserirsi in contesti che producano capitale sociale e permettano un apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Indipendente

Subordinato

Eteronomia Autonomia

A?

B C?

D?

In questi termini l’analisi sull’entrata nel mercato del lavoro, e quindi dei giovani86, è propedeutico per capire se le scelte sono fatte dai datori di lavoro (risparmio nel costo del lavoro), oppure se prevalgano meccanismi di parasubordinazione pura (rapporti duraturi), oppure altre forme di aleatorietà non direttamente imputabili al lato della domanda, come ad esempio tipologie di flussi non stabili ma che facciano supporre che sia il lavoratore a tenere in mano la propria rotta di crescita professionale e umana87. Capire se – e fino a che punto – tali tipologie di tragitti lavorativi possono portare a una reale ed effettiva crescita professionale appare un disegno di analisi utile a corroborare se e fino a che punto la flessibilità sia anche un’opportunità, piuttosto che un mero arretramento sul piano delle tutele sindacali e non.

In un certo senso, infatti, nella società della conoscenze non è importante soltanto la condizione igienica del lavoro e la soddisfazione nel compierlo, ma anche l’effettiva possibilità di trarre delle esternalità positive in termini di competenze, abilità e capitale sociale spendibili in un mercato del lavoro che non privilegerebbe rapporti di lavoro e assetti produttivi stabiliti e fissati per interi decenni.

4.4 La costruzione dei dati e la costruzione di indicatori

Il presente lavoro si basa unicamente sul trattamento di informazioni amministrative di provenienza Inps. Si è potuto disporre di una banca dati che rappresenta uno strumento per il monitoraggio delle politiche del lavoro e previdenziali, il Clap, che rappresenta poco più dell’1%88 dell’universo totale dei lavoratori regolari italiani. La banca dati – attraverso l’oscuramento dei codici fiscali – permette teoricamente di monitorare anche il percorso dei contributi versati dei singoli individui. In questo

86 In questo lavoro i flussi comprendono anche le uscite dal lavoro parasubordinato dei giovani, tuttavia si intende qui per entrata nel mercato del lavoro una sorta di costruzione del proprio destino lavorativo (predittività).

87 Tali obiettivi di ricerca esulano dal presente lavoro, ma si intende qui evidenziare semplicemente le potenzialità di analisi ancora più approfondite.

88 In particolare l’individuazione dei casi (la costruzione del campione) si basa sull’estrazione degli individui nati il giorno 10 di quattro mesi. In questo modo si hanno 4 giorni di nascita su 365, con un coefficiente di riporto di 91,5 che è servito, in questo caso specifico, a svolgere delle analisi di confronto per verificare la validità dei dati.

caso si è portato avanti un disegno di analisi di dati secondari relativa ai soli parasubordinati i cui contributi sono stati versati con modulo gla89.

A tal proposito è bene precisare che i microdati relativi alla gestione separata si sono dimostrati non allineati all’universo per quanto attiene il carattere dell’età anagrafica.

Questo non ha inficiato la ricerca, ma ha portato ad avere dei dati statisticamente meno robusti fra i più giovani. Nella costruzione di una matrice casi (individui) per mutabili (con variabili speculari per ogni anno preso in esame) si sono creati degli indici sintetici ad hoc che però non hanno trovato spazio in questa analisi dei percorsi di carriera. Tuttavia si propone in questa sede un esempio di come si possano sviluppare degli indicatori e di quanto possa essere tanto facile dal punto di vista algebrico generare nuovi vettori colonna, e al contempo cadere in variabili che difficilmente possono poi essere esplicative e discriminanti.

Un indice che si poteva sviluppare era quella di mobilità orizzontale che fa leva sulla provincia di residenza del datore di lavoro (o dei datori di lavoro). L’indice di mobilità orizzontale è stato ottenuto attraverso il computo della provincia di versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro. Se questo trasferimento tramite modulo GLA è avvenuto in province diverse, allora il lavoratore è stato sicuramente soggetto a mobilità orizzontale. È chiaro che l’indice riesce a cogliere una parte di lavoratori “flessibili” rispetto agli spostamenti, ma non li coglie tutti. Infatti alcuni potrebbero essere pendolari, altri fare capo allo stesso datore ma svolgere un lavoro molto dinamico rispetto agli spostamenti (è il caso dei venditori porta a porta ad esempio), oppure in un’area metropolitana il semplice spostamento fra zone distanti potrebbe essere considerato mobilità. In questo caso è fondamentale però precisare che lo scopo di tale indice poteva essere quello di capire se l’attività svolta è eteronoma oppure no, e se il lavoro si caratterizza per essere una forma di lavoro “camuffata” da indipendenza tramite la flessibilità, oppure se coglie dei tratti di vera autonomia, indipendenza e self-reliance career.

L’indice più opportuno a questo ultimo riguardo infatti non sarebbe quello relativo alla mobilità, quanto quelli relativi al cambio eventuale di codice di attività svolto, oppure – ancora meglio – l’indice di mono/pluricommittenza, già dibattuto in sedi

89 In particolare l’analisi dei dati ha seguito logiche di massimo accorpamento (merging) possibile fra banche dati diverse, compresa la creazione di indici sintetici per la cui esposizione si è preferita un’analisi aggregata per meri problemi di spazio.

scientifiche (Ires, 2005) e tutto sommato ritenuto non del tutto affidabile ed efficace.

Il cambio di attività è stato computato osservando un eventuale cambio nel tempo del codice di attività: tale cambio tuttavia è e rimane una questione puramente amministrativa, e non dice molto sull’effettivo svolgimento del lavoro e sul suo relativo contenuto. Inoltre, data la presenza molto alta di persone non codificate (qualifica “altro”) che supera il 30% dell’intero universo dei parasubordinati, è chiaro che anche tale indice va a comporre una sorta di “prova indiziaria ulteriore” a favore di una possibile posizione autonoma. Il cambio di attività di per sé rimane un indice anch’esso non sufficientemente discriminatorio. L’altro indice, quello di mono/pluricommittenza va a dirimere fra le persone che hanno lavorato per lo stesso committente e coloro che invece hanno lavorato per più committenti e datori di lavoro. In questo caso l’indice è più soddisfacente per offrire delle stime circa il grado di indipendenza del lavoro svolto.

Volendo svolgere un piccolo riassunto, questi possono essere gli indici effettivamente costruiti e successivamente abbandonati a favore di un’analisi dei flussi, anch’essa comunque non semplice non priva di problemi:

- Indice di mobilità orizzontale. Misura se e quante volte un lavoratore in un anno ha cambiato provincia di versamento dei contributi (azione svolta dal datore di lavoro). Tale indice coglie alcune persone soggette a mobilità, ma non tutte.

- Indice di parasubordinazione pura. Computa il non avvenuto cambiamento del committente datore di lavoro. È chiaro che anche in questo caso si tratta di una condizione indispensabile per definirsi subordinato senza le tutele del lavoro standard.

- Indice di cambio professione. Coglie il cambiamento del codice di attività. Se si verifica l’evento nel corso di un anno o più, vuol dire che il lavoratore ha cambiato tipo di professione, ed ha quindi cambiato entro certi limiti mestiere.

- Dispersione dei contributi. Se lo scarto tipo dei versamenti è nullo o quasi, allora il lavoratore è a fortiori un parasubordinato puro perché guadagna sempre gli

- Dispersione dei contributi. Se lo scarto tipo dei versamenti è nullo o quasi, allora il lavoratore è a fortiori un parasubordinato puro perché guadagna sempre gli