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breve racconto di una lunga passeggiata o del viandante d’oltralpe

Nel documento l’eredità dell’ombra (pagine 58-99)

Certi amanti del mistero vogliono credere che rimanga qualcosa negli oggetti, degli sguardi che li hanno toccati1

S

i studiavano i classici, Virgilio, Plutarco. Si leggeva in latino, ed il mar Mediterraneo appariva tra le pagine di Tito Livio assieme ai mercati e il respiro del popolo. Era certo un sacrificio, esclusivo, ma pur sempre tale. La giovinezza trascorreva silenziosa nelle aule delle biblioteche, seduti soli ad un tavolo, circondati da pareti ricolme di libri, quasi arren-devoli al peso di tante pagine.Un insegnate personale, accuratamente scelto dopo infiniti colloqui e lettere di raccomandazioni ancor più lunghe, non si stancava mai di soffermarsi sugli errori commessi, sulla scarsa devozione.

La candela, necessaria anche ad un flebile riscaldamento per sopravvivere alle gelide notti, illuminava le pagine di quel rosso fuoco puntuale, così che solo le righe più vicine si pre-stavano ad una facile lettura.

Gli inverni del nord erano lunghi e freddi, anche per questo si studiava il calore delle arti italiche. Forme classiche di templi, colonne e timpani, la proporzione tra le parti, le mae-stose costruzioni dell’antichità, venivano descritte nei testi sacri che giungevano fino alle più solitarie città del nord.

Tra le minuziose descrizioni di Vitruvio, i precisi commenti di Palladio, si narrava, oltre alla bellezza dell’arte, il calore di quella terra, le immagini di una cultura sapiente.

1. Walter Benjamin, ed. ita. Trad. Renato Solmi, Angelus Novus, 2014, Einaudi, Torino

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2. Mario Praz, Gusto neoclassico, 1990, BUR Rizzoli, Milano.

Al termine del percorso di studi veniva proposto un viaggio formativo attraverso le princi-pali città europee, l’Italia era la meta prediletta.

Si potevano in tal modo verificare finalmente le realtà che per tanti anni avevano stancato l’immaginazione, poiché pochi disegni accompagnavano ancora gli infiniti tomi.Non era un evento per soli architetti o disegnatori anzi, fino alla scoperta delle rovine di Ercolano, i viandanti che intraprendevano il Gran Tour erano principalmente eruditi, letterati, anti-quari, illustri figli di nobili casate.

Come detto non si trattava di un viaggio da intraprendere a maturità ormai raggiunta, ben-sì ancora giovani, inesperti. Winckelmann si incamminò all’età di diciannove anni (fig.1).

Bisognava partire accompagnati da una consorte che non avrebbe tardato ad abbandonarli, la focosa immaginazione tipica della giovinezza, necessaria capacità per intendere il bello.

Siccome però l’immaginazio-ne è più focosa l’immaginazio-nella gioven-tù che nell’età adulta, così la capacità della quale noi par-liamo, dev’essere esercitata di buon’ora e diretta al bello, prima che giunga l’età in cui s’inorridisce di confessare che non sentiamo nulla2

Vi era altro però, oltre la formazione cultu-rale di questi giovani illustri studiosi, ad in-teressare le nobili famiglie di Francia, Ger-mania e Inghilterra. Scoperto nel 1506 il Laocoonte divenne immagine di un’antichità ritrovata. Nelle linee serene e poderose allo stesso tempo si intravidero gli ideali di quel-la cquel-lassicità tanto ricercata ma che si teme-va ormai perduta. Come risvegliatasi da un profondo sonno durato secoli, l’Europa inte-ra tornava ad ammiinte-rare le bellezze greche e latine, e a desiderarle. Agli albori del XVIII secolo si viaggiava scortati dalle menti più brillanti del regno.

Il marchese Vandières, giovane fratello di madame De Pomapadour, intraprese il suo viaggio in Italia nel 1740 in compagnia di tre più anziani conoscitori, l’abate Le Blanc, l’architetto Soufflot, il disegnatore Cochin. Si disse al suo ritorno che fu grazie a quella spedizione se l’arte francese si riempì nuovamente gli occhi del gusto

clas-fig.1

Johann Joachim Winckelmann 1755 circa

59 sico. Il percorso, che prevedeva come meta finale il regno di Napoli con i suoi scavi di Ercolano da poco scoperti, si concluse al ritorno con il passaggio da Firenze e Bologna, e una sosta nella laguna di Venezia. Anche se, del grup-po, l’architettura e era di competenza di Soufflot, fu il consumato quader-netto degli appunti di Cochin (fig.2) a riportare in patria i ricordi della spe-dizione italiana. Il disegnatore, al cui ruolo competeva la pittura e la scultu-ra, ritrasse luoghi e paesaggi delle città che attraversava guarnendo i disegni di acute e minuziose osservazioni. Fu nel 1758 che apparve in tre volumetti il racconto di quel viaggio, sotto forma di guida, intitolato Voyage d’Italie3. Scritto e illustrato da Cochin stesso, il libretto divenne presto un accessorio indispen-sabile ad artisti e conoscitori che desi-deravano intraprendere la medesima avventura.

Varcate le Alpi il percorso proseguiva lungo gli antichi percorsi di pellegrinaggio verso la città eterna. Si incrociava il ducato di Ferrara, l’antica Emilia fino ad arrivare alle Marche.

Ad ogni tappa si veniva ospitati dai signori del posto, le cui famiglie erano in buoni rappor-ti con quelle dei viandanrappor-ti provenienrappor-ti dal nord. Venivano offerrappor-ti poi dei percorsi guidarappor-ti per mostrare le ultime antichità riemerse. Ogni nuovo ritrovamento era minuziosamente ridisegnato e studiato. Gli oggetti più apprezzati venivano poi richiesti per arricchire le collezioni private, le famose wunderkammer.

Si seguivano i percorsi tracciati dalle guide più famose. Piccole mappe tascabili condu-cevano i visitatori lungo le antiche strade di pellegrinaggio. Brevi scritti completavano l’immagine di ogni luogo; descrizioni ben fatte, metodiche. Storia, cultura, arti e curiosità venivano condensate in poche pagine dai primi viaggiatori che anni addietro avevano at-traversato la penisola.

Si prediligevano le guide di Mission e Lalande, assieme a quelle francesi.

Con il dorso di cuoio rosso rilegato all’antica e la dedica autografata, i diari di viaggio era-no, assieme ai testi classici, un elemento immancabile nelle mani dei giovani studiosi.

3. Charles-Nicolas Cochin , Voyage d’Italie,1758.

fig.2 Charles-Nicolas Cochin

1771

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fig.3

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein Goethe iseduto nella campagna romana alle sue spalle, il Mausoleo dei Plauzi

«Un indice del gusto del viaggiatore d’Italia d’allora»4. In essi venivano ritratti i punti dove l’interesse del secolo riteneva obbligatorio soffermarsi. Analogiche cartoline di un tempo sulle quali venivano riportate le immagini più ricercate, i luoghi comuni del paesaggio, le opere d’arte più ammirate. Accompagnate da disegni, non sempre le descrizioni erano altrettanto interessanti. Abbandonandosi all’estro narrativo, questo piccolo quaderno di viaggio diventava il più delle volte un opportunità per il suo scrittore di descrivere al me-glio le emozioni e gli umori che l’occupavano durante le giornate. Il diario di Jean-Baptiste Isabey aggiunge ulteriori dettagli

all’imma-ginario comune di questi viandanti. Ritra-endosi nei suoi disegni mostrava il costume dell’epoca di un gentiluomo vestito di rosso, col tricorno ed il bastone, spesso accompa-gnato da sua moglie, vestita di color turchino.

Si procedeva nel silenzio della contemplazio-ne. Non si intravedevano più le gelide vette dei monti ormai lontani. Non vi era più ne-anche la foresta ad accompagnare il cammino con la sua ombra. Arida terra di un mondo desolato. La natura sembrava fuggirne. Mai si era visto un paesaggio così alle pendici dei monti, lungo le rive di un corso.

Qualcosa preannunciava l’avvicinarsi alla Città Eterna. Le rovine degli antichi palaz-zi sovrastavano l’orizzonte. Come immobili traghettatori affiancavano la strada indican-done il giusto verso. Si incrociava l’Aniene e la grande cava di travertino. Si sostava alla taverna nei pressi di ponte Lucano e del Mau-soleo dei Plauzi, così caro a Goethe da farsi ritrarre seduto nella campagna romana con le loro vestigia alle spalle (fig.3).

La vita della città tardava ad arrivare. Com-presa all’interno delle mura Aureliane Roma era solo un’ombra del suo antico splendore.

Il corpo giaceva in frantumi, nei ruderi degli antichi palazzi dispersi fra i campi. Non sem-pre le rovine vennero contemplate per il loro ruolo di memoria del passato. Vi fu un perio-do in cui arte ed erudizione vissero separate.

4. Mario Praz, Gusto neoclassico, Ibid.

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Fino ad XVIII secolo i resti dei palazzi romani venivano usati da pretesto ad un banale capriccio pittorico. Forme pure libere da ogni ornamento, fragili prodotti di un paesaggio greve. Si meditava sulla fragilità delle opere umane ma, per quanto profondo, si trattava di un sentimento troppo distante, che i viaggiatori di inizio Settecento non avevano ancora provato. L’immagine delle rovine completava, nella sua caducità, la potenza della campagna romana. Elementi lontani ormai sovrastati dalla natura, il loro scopo era quello di appagare l’immaginazione dei paesaggisti inglesi e francesi.

Un’altra popolazione viveva tra i resti barcol-lanti delle costruzioni e delle macerie. Non si può dire che le colline romane fossero altret-tanto sicure quanto silenziose. Nascosti tra i templi, ridotti ormai a poveri avanzi, i bri-ganti aspettavano la notte per tentare nuovi saccheggi all’interno delle mura.

Una terra interdetta si estendeva tra la città e il mondo.

Avvicinarsi a Roma era in un certo qual modo allontanarsi da tutto ciò che si conosceva, ol-trepassare i suoi confini, sbarcare sulla Luna.

Varcate le porte rimaneva solo stupore negli occhi ed eccitazione. Nulla era il ricordo di quelle colline appena percorse a confronto con il vigore dei vicoli, con la vivacità delle piazze.

La città era un continuo susseguirsi di eventi.

Le strade del centro, a quei tempi comprese nella zona del Campo Marzio, conducevano il viandante lungo il clamore del traffico e dei mercati. Non una semplice città d’arte, ma un mondo dove il passato era divenuto parte integrante del tessuto urbano, dove la natura si mescolava alle opere dell’uomo. Un luogo dove «i clamori del secolo sembravano non toccare gli interessi di un governo clericale»5, dove l’attività caotica dei mercati si alternava con la malinconia dei quartieri più poveri. La rigidità dei paesi del nord, l’attività siste-matica delle officine, rammentavano al viandante una austera provenienza, una rigidità perfetta. Nella sua mutevole forma Roma era invece fresca come l’aria.

Si percorrevano i viali rinascimentali, mirabili brecce nel tessuto medioevale progettate

5. Henri Focillon, Giovan Battista Piranesi, Ibid.

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dai grandi papi costruttori. Profondi coni prospettici eludevano con una semplice linea i groviglio di vicoli che fianco a fianco li accompagnava. Le aspirazioni di una città moderna si vedevano realizzate nei rapidi collegamenti tra le principali piazze di culto e i palazzi nobiliari, le vie del mercato.Così si potevano leggere, osservando i nuovi tracciati, le ambi-zioni, la brama di potere, che avevano guidato i passati signori.

La Cinquecentesca Strada Felice, progettata sotto Sisto V collegava la piazza di Santa Maria Maggiore a Trinità dei Monti, a Via del Babbuino, creando in tal modo un nuovo polo nel versante sud orientale della città.

La basilica di San Pietro svettava al di là della spina del borgo ancora esistente. La piazza antistante la grande facciata era l’immagine di una città mai ferma, eternamente in dialogo con la storia. Fonte di ispirazione, il passato con i suoi monumenti, forniva alle maestranze ben più di semplici ideali da perseguire. Le vestigia dell’antichità non ispiravano soltanto ricordi di una grandezza imperiale.

Nella sua forma di rudere ogni parte era possibilmente detraibile, riutilizzabile.

Pratica comune perpetuata fin dai secoli bui, i preziosi materiali delle colonne, dei capitelli, delle trabeazioni venivano scomposti e riutilizzati. Rovine del passato, scrigni di idee e di materia. Così i cantieri andavano avanti, così dalle sue ceneri la città risorgeva nei nuovi palazzi nobiliari.

Ogni parte viveva in armonia col resto, passato e presente condividevano lo stesso suolo. I campi che in alcuni punti arrivavano fino a lambire i quartieri più centrali, fornivano par-chi rigogliosi e vie di passaggio per gli antipar-chi acquedotti romani.

Nella sua forma singolare, il Colosseo ricordava il risultato di un fenomeno geologico più che l’opera di mani umane (fig.4). Come un monte affiorante nel mezzo del centro abitato, svolgeva allo stesso tempo il ruolo di santuario e di mercato.

Sigillati con muri di argilla, gli intercolumni del tempio di Vesta lasciavano respirare da piccole aperture i lavoratori di una fucina che si era stabilita al suo interno.

fig.4 G. B. Piranesi Veduta dell’Arco di Costrantino

e dell’anfiteatro Flavio, detto Colosseo,

Antichità Romane 1754

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Sotto l’arco di Settimio Severo un barbiere svolgeva il suo mestiere (fig.5).

Le fabbriche che nel Settecento costellavano la città non erano da meno rispetto ai passati interventi manieristi. Nonostante l’esigua quantità, gli interventi che sotto il pontificato di Benedetto XIV arricchivano la urbis di piccoli capolavori, come la Fontana di Trevi e il portale di Santa Maria Maggiore, lasciavano nell’aria quell’euforica sensazione di cambia-mento che il viaggiatore venuto dal nord non poteva ignorare.

La ricca borghesia del nord dà un senso di ordine, di agia-tezza, un’aria rassicurante al paesaggio della città. Do-vunque, in condizioni sociali analoghe, vediamo levarsi co-mode dimore solide costruite per generazioni conservatrici, amanti di un fasto misura-to e di un eleganza severa. A Roma, niente di tutto questo:

un continuo stare gomito a gomito fra ricchi e poveri, un incessante e pittoresco con-trasto architettonico6

Fra le vie del centro e le grandi piazze del commercio la vita popolare si mescolava alle passeggiate degli stranieri, alle fastose car-rozze della prelatura.

I nobili prospetti dei palazzi, i ricchi negozi in Via del Corso, erano soltanto una faccia della realtà romana. Luongo i vicoli più poveri, fra le casupole e le rovine, ai piedi di palazzi e templi, si svolgeva una vita gaia, frenetica, di un popolo povero, spesso in rivolta.

Più volte la moglie del poeta russo Fonvižim, racconta egli stesso nei suoi testi, la-sciava il marito in apprensione una volta uscita di casa per svolgere degli impegni lungo le strade romane. Non passava giorno in cui, al suo ritorno, nuove, sofferenti storie non uscissero con una voce rotta dal pianto per raggiungere le orecchie dello sconcertato poeta.

Di ladri, imbroglioni e furfanti ce n’è a bizzeffe; e gli assassini sono all’ordine del giorno...Non c’è giorno in cui mia moglie, andando in giro non pianga di pietà vedendo tanti così tormentosamente sofferenti..7

fig.5 G. B. Piranesi

Veduta dell’Arco di Settimio Severo, Antichità Romane

1754

6. Henri Focillon, Giovan Battista Piranesi, Ibid.

7. Ettore Lo Gatto, Russi in Italiaa: dal secolo XVII ad oggi, 1971, Editori riuniti, Roma.

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fig.6

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe in pantofole

affacciato su via del Corso

Una povertà in primo piano scandiva lo svolgersi di un teatro grottesco sullo sfondo della quinta scenica delle rovine.

Abitanti di un sottosuolo cittadino, a loro Piranesi assegnerà il ruolo di lavoratori assoldati fra i macchinari delle sue sotterranee Carceri d’invenzione8.

Non erano assenti gli atti di oppressione da parte delle autorità. I luoghi più attivi della città si prestavano come scenari di esecuzione. Combattuto di notte, il duello tra la popo-lazione cittadina e i briganti delle campagne si concludeva con atroci sentenze in pubblico.

Appesi a testa in giù, impiccati, decapitati, i ladroni che non riuscivano nel loro intento venivano giustiziati all’interno delle piazze principali. I corpi morti restavano nel luogo della sentenza per molti giorni ad ammonire ed insegnare. Accompagnati da un cartello al collo ad indicare le loro colpe, i furfanti catturati non venivano sempre uccisi.A seconda del crimine la giustizia poteva prevedere la recisione di uno o più arti.

La complessità della città era, in molti casi, nascosta alla vista dei viaggiatori. Accolti dai personaggi più illustri della città, venivano

fatti soggiornare lungo le vie più importanti, nelle stanze dei palazzi più belli. Alla prima possibilità Roma si riprendeva la sua centra-lità negli interessi di tutta Europa.

L’aristocrazia, illuminata dal suo nuovo ruo-lo, rispondeva alle richieste di artisti e stu-diosi che cercavano alloggio nelle stanze dei palazzi del centro. Il romanticismo nordico riportava nuovo fervore nei i salotti signo-rili. Durante la sua esperienza romana, Go-ethe era solito affacciarsi in pantofole dalla finestra della stanza in Via del Corso (fig.6).

Ospitato nella villa del cardinale Albani, Winckelmann osservava, tra le ombre del giardino, la maestosità delle rovine.

Dalla finestra delle stanzette assegnategli nel palazzo del cardinale Albani, si godeva la vista di amenissimi prospetti:

lo sguardo spaziava ora sulle antiche rovine, ora sulla cit-tà. Il giardino di Villa Albani temprava l’anima a solenne calma9

8. G. B. Piranesi, Carceri d’invenzione, 1761, Roma.

9. Mario Praz, Gusto neoclassico, Ibid.

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La povertà e la delinquenza rimanevano rapide visioni che la memoria non si sforzava neanche di ricordare. Le giornate trascorrevano al riparo dal tumulto cittadino. Percorse in diligenza, le strade si susseguivano nella tenue luce della cabina. Spesso in compagnia di illustri personalità, colti discorsi venivano intrapresi a colmare il tempo del tragitto, il clamore dei mercati ne formava il sottofondo. Un leggero spostamento delle tendine che oscuravano l’abitacolo permetteva di osservare per pochi istanti la vita della città.

Guidati da precise mappe delle bellezze della città si visitavano le architetture classiche e le opere dei grandi maestri del Rinascimento. La loro capacità di riportare le forme antiche alla vita, di recuperare gli ideali di bellezza e potenza, gli aveva permesso di trasmettere alle opere moderne «norme e regole dell’antica arte edificatoria»10. Classico non era il culto dell’antico ma la custodia dello spirito. Le opere del passato rappresentavano semplici punti di partenza per una fervida immaginazione.

Si visitavano le opere di Bramante: il tempietto di San Pietro in Montorio, il chiostro in Santa Maria della Pace. Le volte affrescate da Michelangelo e Raffaello nei musei vaticani raccontavano di eroi e di dei, della vita nella Roma degli imperatori. I musei capitolini erano un deposito di tesori dell’antichità esposto al pubblico. Il 1733 portò la prima grande opera di riorganizzazione da parte di Clemente XIII. Otto anni dopo vedeva la luce il ca-talogo scientifico della collezione dove vi era rappresentata ogni opera esposta. A Piranesi spettò la stesura del commentario. Le opere classiche restaurate riportavano alla luce gli antichi splendori della Roma Imperiale.

Allora lo sguardo cambiava e lo spirito classico sembrava ancor più vero.

Le statue che si susseguivano lungo le sale dei musei capitolini confermavano le teorie di quel bibliotecario tedesco tanto giovane quando saggio, Winckelmann.

Mai una pietra era apparsa più silente nel suo aspetto che nel suo materiale. Uno sguardo sereno pervadeva quelle figure dai muscoli tesi, una bellezza pura come acqua. I busti degli imperatori riempivano le stanze del palazzo dei conservatori. Dalle grandi finestre si vede-va la piazza del Campidoglio con il suo disegno e, al centro, la monumentale statua equestre di Marco Aurelio.

Le collezioni private parlavano di una città violata. Ogni scavo portava al suo tesoro e in quegli anni non vi era maggior piacere che nel ritrovamento.

Se da un lato fin dal Quattrocento numerosi editti vennero emanati nel tentativo di atte-nuare la ricerca nelle rovine e la vendita dei loro reperti, dall’altro i papi continuavano la tradizione interrotta di accrescere il numero di capolavori nelle loro collezioni. La nomina di ispettori non riuscì a frenare la richiesta delle preziose antichità. Si cercava nei dintorni della città, lungo gli argini del Tevere alla Ripetta, sotto le volte instabili di Villa Adriana, sul fondo delle piscine, ormai ricolme di un rigoglioso verde, fra i resti delle Terme di Ca-racalla. Lo stesso finanziamento di alcune opere di restauro volte a ristabilire la bellezza originaria delle maestose rovine era dettato più da una necessità che da un desiderio. Si

10. Marcello Barbanera, Relitti riletti, Metamorfosi delle rovine e identità culturale, 2009, Bollati Boringhieri, Torino.

Nel documento l’eredità dell’ombra (pagine 58-99)

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