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1. La rappresentazione narrativa dell’esperienza

1.1 Il caso dell’identità narrativa

L’idea che la narrazione sia uno strumento volto a rappresentare e ricostruire l’esperienza si affianca all’ipotesi che riconosce alla narrazione una funzione primariamente cognitiva. La prospettiva cultu-ralista aderisce ad un’ipotesi di questo tipo per sostenere una concezione ben precisa dei rapporti tra pensiero, narrazione e linguaggio: il linguaggio, inteso come prodotto dei processi di internalizza-zione delle pratiche sociali, è la condiinternalizza-zione necessaria della narrainternalizza-zione (Bruner 1991; Dautenhahn 2002; Hutto 2009). Più nello specifico, è solo attraverso il linguaggio verbale che la narrazione può veicolare rappresentazioni di eventi che coinvolgono le azioni di individui; di conseguenza, il lin-guaggio ha priorità logica e temporale sulla narrazione. A questo riguardo, il caso dell’identità per-sonale costituisce un buon esempio da cui partire.

In effetti, tra le funzioni cognitive attribuite alla narrazione, quella di contribuire alla costru-zione dell’identità è forse la più studiata (ad es., Dennett 1991; Nelson 1993; Schechtmann 1996.

Sostenere che il processo di costruzione dell’identità personale prende avvio dall’utilizzo di strutture narrative è, nella tradizione costruttivista, un modo per sottolineare che l’autocoscienza deriva in larga parte dalla narrazione linguistica, ovvero dall’interiorizzazione delle storie pubbliche che of-frono una chiave di lettura dell’esperienza. Da questo punto di vista, le autobiografie possono essere

interpretate come storie di vita – la controparte del plot di un racconto – in cui si annidano gli eventi più salienti dell’esistenza (Beach & Bissell 2016).

L’argomento utilizzato per fortificare l’idea che la narrazione modelli l’esperienza personale è che la narrazione è precisamente quella pratica che permette la scansione degli eventi riguardanti il passato e il futuro immaginato della nostra esistenza secondo una struttura coerente (Linde 1993). In altre parole, la narrazione configura la confusione dell’esperienza secondo principi di coerenza e con-tinuità. In una simile operazione di configurazione ritroviamo la mediazione dinamica della tempo-ralità già individuata nella riflessione ricoeuriana. Ricoeur (1988) è il primo a parlare di identità nar-rativa in riferimento all’apporto congiunto di narrazione e temporalità. Il problema dell’identità per-sonale è infatti il problema di stabilire a partire da quali proprietà un individuo rimanga il medesimo da un momento temporale all’altro, ovvero secondo quali criteri un soggetto possa percepirsi come unitario posto che non vi è nulla sul piano fisico e psichico che permanga nel tempo. Il principio di unità del soggetto non può che essere garantito dalla dimensione narrativa che, a sua volta, viene organizzata dalla struttura temporale (Ricoeur 1985, trad. it. p. 375). L’intrigo proprio del piano nar-rativo agisce infatti come una forza di ordinamento (Brooks 1984): la narrazione unifica tramite l’or-chestrazione configurante e rifigurante della temporalità gli eventi dell’esperienza personale dando vita a una biografia – a un tessuto cucito di storie – che viene percepita come coerente. Da questo punto di vista,

«il soggetto appare allora costituito ad un tempo come lettore e come scrittore della propria vita [...] La storia di una vita non finisce mai d’essere rifigurata da tutte le storie veridiche o di finzione che un soggetto racconta a proposito di sé. Questa rifigurazione fa della vita stessa un tessuto di storie raccontate»

(Ricoeur 1985, trad. it. p. 386).

L’impronta della concezione ricoeuriana è ben visibile nella teoria dell’identità narrativa elaborata da Bruner (1990, 2002). Come Ricoeur, anche Bruner (1991, trad. it. p. 22) fa un primo passo argomen-tativo individuando nel fattore tempo l’elemento che permette di discriminare la rappresentazione narrativa da altre forme di rappresentazione:

«Il racconto è un’esposizione di eventi che ricorrono nel tempo e ha per sua natura una durata. […] Il tempo che il discorso chiama in causa [...] è un «tempo umano», non già il tempo astratto dell’orologio: è un tempo cui danno significato gli eventi che lo scandiscono. […] Ciò che sta sotto tutte le forme convenzionali di rappresentazione narrativa è uno “schema mentale”

che ha il suo unico modello nel tempo e che dal tempo trae la propria capacità di caratterizzazione».

Solo in virtù di tale caratterizzazione temporale è possibile attribuire alla narrazione la capacità di configurare gli eventi in esperienze coerenti che chiamiamo autobiografie, le quali sono solo alcune delle possibili versioni che potremmo creare narrando i diversi sé delle varie fasi temporali dell’esi-stenza. Se la conoscenza di sé stessi passa per una rappresentazione narrativa che viene continua-mente creata e ricreata, allora l’identità personale non è altro che il prodotto di una storia di vita, un’immagine illusoria o un mito personale su chi siamo piuttosto che una qualche essenza da indivi-duare. Sin da piccoli utilizziamo i racconti per dare senso agli accadimenti e riconoscerci attori di quegli accadimenti; in tal modo, nell’intreccio di quei racconti costruiamo un sé che non è un vero sé, ma è l’efficace illusione generata dalla nostra tendenza ad assumere il ruolo di narratori, è una rappresentazione che unifica le informazioni salienti in un’astrazione utile alla sopravvivenza. Quel sé è solo uno dei molteplici modi in cui si possono attualizzare le nostre narrazioni, non è altro che un centro di gravità narrativa senza alcuna corrispondenza neurobiologica (Dennett 1992). Le narra-zioni personali uniscono i vari aspetti della nostra esperienza in una totalità coerente creando ordine dal caos e generando la sensazione di un sé integrato (Gazzaniga 2012).

L’idea che la narrazione svolga un simile ruolo costitutivo e che i racconti tessano la trama della nostra esistenza è al centro delle teorie più radicali di matrice costruttivista che aderiscono a una concezione antirealista dell’identità personale. La teoria di Dennett (1991, 1992) è il caso più rappre-sentativo in questa direzione. Secondo Dennett (1991), il sé è riducibile alla rete intricata di storie che raccontiamo e che ci raccontano grazie alle quali strutturiamo la realtà per darne un’interpreta-zione coerente e conforme alle nostre aspettative. La solidità con cui percepiamo la nostra unità è in realtà il frutto di una mente narrante che produce storie al più verosimili ma di cui non potremo mai asserirne con certezza la veridicità. Le storie narrate servono infatti a colmare i vuoti disseminati dai nostri sistemi di memoria che, come vedremo (Cap. 3), sono tutt’altro che affidabili: la memoria elabora ricordi che sono in realtà frammenti di dati provenienti da varie aree cerebrali; la mente nar-rante ricuce in un modello plausibile quei dati fornendo un resoconto che non sempre è obiettivo. Il riferimento al caso della confabulazione mostra fino a che punto la necessità di imporre ordine all’esperienza vincoli le nostre convinzioni: al di là di fenomeni di confabulazione patologica, in letteratura sono molteplici gli esperimenti in cui si mostra che le persone comuni nel quotidiano ade-riscono con tenacia alle storie che elaborano per dare significato a comportamenti di cui non sanno darsi spiegazione (ad es. Wheatley 2009). L’implicazione più generale di questi fatti è che «[…] senza la capacità di raccontare storie su noi stessi non esisterebbe una cosa come l’identità» (Bruner 2002, trad. it. p. 98). Una prova a sostegno della relazione inscindibile tra identità e narrazione sembra provenire dai casi di dysnarrativia, una patologia che comporta l’incapacità di raccontare storie, e che appare associata alla perdita di senso di sé (Eakin 1999).

La natura costruttiva dell’identità personale, la quale poggia sulla natura costruttiva della me-moria, è un dato acquisito delle teorie neuroscientifiche attuali. Detto questo, ciò che ci preme sotto-lineare è che nella prospettiva culturalista la funzione costruttiva assegnata alla narrazione serve per giustificare la tesi secondo la quale l’ordine di costituzione di processi come l’identità personale pro-cede dall’esterno verso l’interno: l’identità e, più in generale, la cognizione è il frutto dell’uso di impalcature esterne acquisite nella pratica sociale di cui il linguaggio costituisce il principale fattore.

«[…] The culturally shaped cognitive and linguistic processes that guide the self-telling of life narratives achieve the power to structure perceptual expe-rience, to organize memory, to segment and purpose-build the very “events”

of a life. In the end, we become the autobiographical narratives by which we

“tell about” our lives» (Bruner 2004, p. 696).

Il linguaggio è il mezzo attraverso cui si costituisce la narrazione che, a sua volta, fornisce un fonda-mento alla costruzione fittizia dell’identità personale. In buona sostanza, è il linguaggio a costituire la condizione di possibilità della soggettività. Nessuno discute il fatto che il linguaggio e l’apparte-nenza a un gruppo socio-culturale abbiano un ruolo importante nella creazione dell’identità. La que-stione è se sia possibile liquidare l’identità personale come un costrutto puramente narrativo, laddove la narrazione è tematizzata in riferimento al solo strumento linguistico. All’interno del dibattito emer-gono diverse teorie contro le concezioni antirealiste del sé: Damasio (1999) ha mostrato, ad esempio, come sia possibile identificare gradi del sé indipendenti dalla narrazione e dal linguaggio, che sareb-bero condivisi con animali non umani. Detto questo, ai fini del presente lavoro non ci interessa entrare ulteriormente nei dettagli del modello costruttivista dell’identità narrativa. Tale modello costituisce un caso esemplificativo di un’ipotesi più generale sui rapporti tra linguaggio, tempo e narrazione che, viceversa, costituiscono un argomento di grande rilevanza per una teoria della narrazione.