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Dal 1998: definire il teatro sociale

Nel documento IL TEATRO DELLA VITA. (pagine 115-133)

Come premesso introduttivamente, non è semplice definire il teatro sociale, un fenomeno teatrale che si dispiega secondo molteplici declinazioni operative e metodologiche sul territorio italiano e di cui gli studiosi hanno messo in evidenza di volta in volta aspetti simili e diversi, oltre che diversamente nominarlo. I contributi fondativi hanno fornito alcune premesse sostanziali, su cui si poggiano buona parte dei successivi studi.

Il teatro sociale si occupa dell’espressione, della formazione e della interazione di persone, gruppi e comunità, attraverso attività performative che includono i diversi generi teatrali, il gioco, la festa, il rito, lo sport, il ballo, gli eventi e le manifestazioni culturali566.

Si tratta della prima definizione in cui vi sia l’impiego consapevole del termine. Seppure i confini con altre pratiche teatrali siano per Bernardi deboli, a caratterizzare il teatro sociale è la promozione di relazioni evolutive tra gli individui, i gruppi e le comunità grazie alle pratiche performative praticate in prima persona in piccoli gruppi come “metodo interculturale per costruire pacificamente e in modo non violento rapporti tra popoli, religioni, comunità e persone diverse”567. Un risultato non scontato, data la complessità che caratterizza la società occidentale, dove proprio lo spettacolo è divenuto il rituale collettivo pervasivo. Lo spettacolo di sé, degli altri e del mondo, prodotto attraverso azioni di libera partecipazione. Uno spettacolo non solo da vedere, quanto semmai da fare, scrive Bernardi.

Qualche mese dopo, Giulio Nava definendo “l’irreversibile intersezione fra teatro artistico e teatro sociale”568 pone l’accento su elementi diversi, collegando piuttosto l’esperienza del teatro sociale alle evoluzioni apportate al teatro da Brecht, Piscator e Artaud, che lo spinsero a

confrontarsi non solo con tematiche e contenuti – sociali, politici, psicologici e pedagogici – ma con azioni e modelli d’intervento, nella consapevolezza di rappresentare un veicolo di promozione e sviluppo culturale, ma soprattutto di essere uno strumento attivo di lotta, modalità attraverso la quale vivere, condividere e affrontare la tensione sociale e politica tentando di gestire il conflitto tra processo e prodotto, tra arte e vita, tra ricerca e superamento continuo del limite personale569.

565 Claudio Meldolesi, “Un teatro del ‘costringimento’”, Catarsi. Teatri delle diversità, 1, (1996), 1-2.

566 Claudio Bernardi, “Il teatro sociale”, 157.

567 Ibi, 164.

568 Giulio Nava, Il teatro degli affetti, 13. Il teatro degli affetti è un metodo di intervento teatrale in contesti sociali con finalità di ordine pedagogico e psicoterapeutico fondato dallo stesso autore. Ricordiamo altri due contributi di Nava apparsi negli anni precedenti, poi sintetizzati nel volume qui considerato: Giulio Nava, “Presupposti fondamentali per una diversa concezione del teatro nel sociale”, in Eugenio Bruno, Ezio Alberione (a cura di), Percorsi teatrali e programmi scolastici. Note introduttive al convegno del 22-23 ottobre 1993, Milano, Centro Culturale San Fedele, 1993, 43-54; Giulio Nava, “Storia, pensiero e progetto del teatro degli affetti”, in Claudio Bernardi, Laura Cantarelli (a cura di), Emozioni. Riti teatrali nelle situazioni di margine, 43-59.

569 Giulio Nava, Il teatro degli affetti, 13.

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Il teatro sociale è ricondotto alle esperienze del Living Theatre e di Grotowski che hanno travalicato la scena per aprirsi all’azione, non in quanto prodotto spettacolare, ma come processo creativo di costruzione di rapporti, progetti, azioni dimostrative e veicolo di comunicazione su temi cruciali del cambiamento sociale e politico oppure come laboratorio dell’azione del corpo espressivamente amplificato dall’agire teatrale570. Una forma di teatralità che si colloca a cavallo tra teatro e socio-politica stimolando la libertà individuale e la creazione collettiva ponendosi all’intersezione tra teatro e sociale.

È forse l’intersezione dove la sperimentazione si è spinta a livelli più elevati e ciò grazie anche all’impulso ideale e politico che spesso l’ha animata. È l’area che ha favorito la nascita del teatro nei quartieri, nelle strade, nelle fabbriche, che ha trascinato le istituzioni totali fuori da se stesse verso il territorio e la gente571.

Fin da queste prime battute si evidenziano due prospettive che pongono la loro attenzione su caratteristiche, obiettivi e soggetti diversi, seppur non necessariamente escludentesi l’uno con l’altro. Da un lato il teatro sociale viene descritto come un insieme di attività performative che hanno come obiettivi l’espressione, la formazione e l’interazione tra i soggetti, individuali e collettivi. Dall’altra si tratta sempre di attività performative, ma gli obiettivi riguardano il cambiamento sociale e la lotta politica, l’esperienza individuale scivola sullo sfondo di una dimensione di gruppo che viene decisamente in primo piano e diventa soggetto primario del processo. Anche il processo proposto appare differente: se da un lato viene inteso come costruzione, dall’altro l’accento è posto sulla trasformazione anche rivoluzionaria del sistema e delle istituzioni.

Un’ulteriore accezione si aggiunge con la pubblicazione nel 1999 di Di alcuni teatri delle diversità a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia572. Nelle pagine introduttive Pozzi esplicita l’intenzione del testo di raccogliere molteplici materiali per verificare

la possibilità di dare la titolarità di filone specifico a forme di teatro agito, considerate fino a poco fa marginali, ciascuna nella sua singolarità, e che hanno invece un solido denominatore comune:

l’impronta della diversità573.

Seppure il termine diversità venga poi definito come sinonimo di qualità che rendono differenti le cose l’una dall’altra, le esperienze che vengono prese in considerazione nel volume afferiscono agli ambiti del disagio nelle sue diverse declinazioni (handicap, follia, tossicodipendenza, carcere, etnia, povertà sociale, anzianità e omosessualità). Le esperienze descritte hanno alcuni tratti in comune: sono condotte da professionisti del teatro, svolgono attività laboratoriale a cui partecipano come attori le persone che vivono l’esperienza del disagio, si concludono con spettacoli e performance di tipo teatrale, hanno intenzionalità terapeutica.

Complessivamente il volume si articola intorno alla questione terapeutica del teatro, per chi, come, con quali metodologie.

Il nuovo teatro non si pone soltanto come specchio di una casistica e di una problematica, ma si mobilita per un’opera di effettivo intervento rieducativo, con il proposito di giovare sia al portatore di handicap, favorendo ogni forma di riadattamento, sia al volontario che voglia partecipare e collaborare al recupero. Sono così sorti vari centri o laboratori teatrali nei quali

570 Ibi, 15.

571 Ibi, 22-23.

572 Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità.

573 Emilio Pozzi, “Per un nuovo sentiero”, in Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità, 7.

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sarebbe giusto dire che l’allestimento di un evento è al tempo stesso creazione di uno spettacolo e anche concreta attività terapeutica574.

Nel volume, i saggi che introducono le esperienze575 propongono un’analisi dell’arte teatrale evidenziando le sue implicite valenze relazionali, di espressione, di immaginazione, di ritualità e festa. I racconti degli operatori manifestano la stessa intuizione: “Io sostengo sempre di non fare terapia, ma di fare teatro e basta. Dopodiché di per sé ci sono degli effetti terapeutici” afferma Enzo Toma576, oppure “Il Teatro si propone, fra le Arti, come il linguaggio più approfondito all’applicazione terapeutica: la pratica teatrale impone infatti un esercizio della solidarietà e dell’autodisciplina unici”577 riflette Horacio Czertok. Non si tratta dunque di una pratica della teatralità declinata con particolari metodiche di ordine terapeutico, educativo o formativo, bensì della messa in evidenza delle risorse terapeutiche implicite che il teatro in sé possiede, in particolare quello praticato nelle forme del teatro laboratorio e del teatro antropologico. Un altro elemento definitorio esplicitato dagli operatori riguarda il fatto che l’esercizio del teatro nei contesti sociali ne arricchisca i processi di ricerca artistica e di linguaggio.

Nel medesimo volume si affaccia anche la prospettiva di Piergiorgio Giacché in merito ai teatri della diversità, che comporta alcuni sviluppi divergenti. Lo studioso riflette a partire dal teatro antropologico, un titolo che ha nominato le esperienze teatrali che negli anni settanta e ottanta si aprirono all’incontro con le culture altre e diverse per poter trovare la propria alterità ed autonomia. Un processo che rifondò il senso del teatro al di fuori di una funzione, di un servizio, di un compito culturale o sociale, in una condizione di libertà. Ma quello che si affaccia alla fine degli anni novanta è uno scenario diverso.

Non sono pochi i teatri in cui l’alterità non è più soltanto indagata (nel senso della sua rappresentazione) ma immediatamente accettata e attuata (nel senso della sua diretta messa in scena); in cui l’Altro non è più in nessun modo alimentazione esotica o politica ma centro propulsore di una ricerca teatrale o spettatore di un teatro di animazione o di servizio, ma attore di un teatro che ospita ed esprime sulla scena ogni possibile proposizione ed esplosione del tema della sua e di ogni diversità578.

La relazionalità teatrale tesa all’incontro con l’altro si è trasformata progressivamente passando da quella condizione di prossimità a quella di essere dentro l’alterità: dallo scambio alla fusione. Questa nuova condizione ha dato vita ad esperienze avanzate di ricerca teatrale in cui attori con storie e vite segnate dalla marginalità e dal disagio divengono elemento portante della scena. Giacché nota che tra le molteplici esperienze che si stanno muovendo in questo senso, alcune (La compagnia della Fortezza presso il carcere di Volterra, Ravenna Teatro, i Raffaello Sanzio, e la Compagnia Pippo Delbono) siano espressione delle fasi più interessanti ed avanzate della ricerca teatrale contemporanea, ed auspica che questo secondo atto del teatro antropologico si liberi “dagli esercizi animatoriali o terapeutici”579 per spingersi verso la ricerca artistica fuori da ogni logica di servizio. Una linea che si accentua nelle riflessioni successive dello studioso, per cui la relazionalità e l’autenticità del fatto teatrale si danno nel suo essere anti-strutturale e extra-sociale.

Caratteristiche che si sono però esercitate non tanto nell’atto di vedere, ma semmai nell’atto di consumare

574 Vincenzo Cappellini, “Handicap”, in Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità, 69-70.

575 Ibi, Gianni Tibaldi, “Creatività e diversità” (13-21); Daniele Seragnoli, “Ascoltare l’altro” (23-36), Andrea Canevaro,

“La comprensione scenica e il ‘Sauvage de l’Averiron’” (37-43); Claudio Meldolesi, “La scena della mente e la scena dei reclusi” (45-55); Piergiorgio Gaicché, “Teatro antropologico: atto secondo” (57-65).

576 “L’antro alchemico. Intervista a Enzo Toma”, in Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità, 81.

577 Horacio Czertok, “Cultura della vita/cultura della morte”, in Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità, 113.

578 Piergiorgio Giacché, “Teatro antropologico: atto secondo”, in Emilio Pozzi, Vito Minoia (a cura di), Di alcuni teatri delle diversità, 62.

579 Ibi, 64.

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pratica, azione teatrale, al punto che solo alcuni dei gruppi impegnati hanno come obiettivo la produzione spettacolare, mentre per molti altri è sufficiente il lavoro su sé stessi come processo di formazione permanente e di conferma della propria identità580. Si è così delineata una polarità tra teatro-spettacolo e teatro-servizio, con specifiche professionalità ma comunque entro l’ambito teatrale. Il teatro come servizio ha messo a frutto, in risposta al disagio sociale diffuso, le sue valenze pedagogiche e terapeutiche, perdendo però autonomia adattandosi alle esigenze delle situazioni fruitive: “si lega strettamente e diviene subalterno alla funzione sociale che si è candidato a soddisfare”581. Questa dilatazione del teatro alle sue dimensioni di servizio nei confronti del sociale è maturata all’interno del processo di sviluppo del teatro stesso, ma la direzione che sta prendendo negli ultimi anni si apre ad una netta divergenza, determinata dall’incremento e dalla valorizzazione precipua che le sue funzioni di servizio hanno progressivamente preso. In particolare il peso delle risorse pedagogico-terapeutiche rispetto a quelle del teatro in sé, la riconversione delle qualità relazionali, di organicità e gratuità del teatro in modo generico nel sociale e infine l’ampliarsi delle prospettive occupazionali offerte dal tetro sociale.

Ora, il ‘teatro sociale’ non è solo una direzione diversa ma in qualche modo è anche una concezione opposta a quanto fin qui si è chiamato teatro-servizio: una cosa è infatti individuare il polo di orientamento o la tendenza di alcune attività ed esperienze che sono sempre generate e restano sempre situate all’interno della ‘cultura teatrale’, e un’altra cosa è aggregarle senz’altro in un contenitore nuovo che ne sottolinea la specializzazione in termini di ‘appartenenza’ o di sottomissione alla realtà sociale e alle sue esigenze. […] Quello che comincia a definirsi ‘teatro sociale’ è il terminale di una deriva progressiva di elementi e ingredienti teatrali che vanno a proporsi e ricomporsi in attività e progettualità diverse e sempre più separate dall’arte scenica e spettacolare582.

Un’esperienza teatrale entro cui possono operare a pieno titolo professionalità completamente diverse da quelle teatrali, piegando l’attività teatrale a modalità e finalità completamente altre rispetto alla sua natura. O ancora di più, definendo la teatralità in base a quello che risulti più efficace per i soggetti o enti che hanno posto in essere l’esperienza. In questo senso nel teatro sociale il termine teatro si riconnette ad una definizione molto più ampia, ma al contempo si ‘disancora dall’arte scenica’583. L’autonomia del teatro sociale da un lato rischia di rompere con la più vasta cultura e le micro-società teatrali, dall’altro però “darà incremento alla rigenerazione (ontogenetica) di una teatralità intesa come ingrediente necessario o come strumento utile del sociale”584.

Già nel corso di questo primo periodo si evidenziano differenti prospettive a definizione del fenomeno: quella di una performatività a banda larga585 funzionale alla costruzione pacifica dell’individuo, del gruppo e della comunità; quella orientata al cambiamento sociale e alla lotta politica ad opera di gruppi sociali ma anche di gruppi professionali; quella che porta i laboratori teatrali di ricerca nei contesti del disagio e procedendo nella ricerca artistica, sviluppa inevitabili risorse di ordine terapeutico e relazionale tra i partecipanti ai laboratori;

quella della ricerca artistico-teatrale, che nasce dall’incontro fusionale con le differenti alterità, ma che deve risolvere la propria funzione di servizio e le proprie tensioni terapeutiche per potersi aprire come fronte avanzato della nuova ricerca. Ed infine quella un po’ allarmata di una teatralità con un più ampio significato, che esorbitando i confini della pratica e della cultura scenica, diviene strumento di sviluppo sociale.

580 Piergiorgio Giacché, “Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema”, in In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali, 49-50.

581 Ibi, 56.

582 Ibi, 59.

583 Ibi, 59-60.

584 Ibi, 60-61.

585 Richard Schechner, Magnitudini della performance. Roma, Bulzoni, 1999.

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Monica Dragone riprende la questione, forse tentando una sintesi, di certo arricchendo la definizione con una serie di caratteristiche precipue.

Per teatro sociale intendiamo quell’insieme di attività performative non strettamente professionistiche, che si svolgono in genere fuori dai convenzionali tempi e spazi dello spettacolo e che perseguono finalità socio-politiche, educative, terapeutiche. In questi casi il teatro non elabora solo le problematiche sociali tramite percorsi drammaturgici, ma diventa soprattutto creazione di gruppo586.

Tre gli ambiti di intervento identificati: socio-formativo, che comprende scuola e ambiti della formazione permanente, quello socio-terapeutico e riabilitativo, con le varie situazioni legate alla salute della persona, e quello socio-culturale in riferimento a situazioni di marginalità culturale, sociale e politica. Le esperienze si svolgono in diversi contesti, non solo del disagio (per esempio un paragrafo è dedicato ai giovani, un altro ai gruppi sociali e politici di appartenenza territoriale). Le pratiche presentate, le professionalità coinvolte in ordine alla conduzione dei gruppi di laboratorio, gli esiti e i linguaggi sono molteplici. La pluralità appare come l’elemento costante, insieme alla partecipazione diretta alle attività performative proposte, agli obiettivi che spaziano ben oltre quelli dell’innovazione formale e del prodotto artistico, per volgere l’esperienza verso il benessere e la terapia, lo sviluppo comunitario, la comunicazione politica e il cambiamento istituzionale.

Complessivamente il volume I Fuoriscena, presenta uno spettro ancora più ampio, includendo nella sua esposizione delle drammaturgie nel sociale la drammaterapia, lo psicodramma e il teatro nella scuola, che parevano in prima battuta escluse587.

È Sisto Dalla Palma che pone in maniera chiara la questione della nuova drammaturgia come scaturigine del teatro sociale. Dalla cultura del gruppo che si è affermata negli anni ’70, che ha messo in discussione radicalmente gli assetti del teatro da tutti i punti di vista a cui si è combinata l’esplosione di una domanda di teatro fatto, piuttosto che guardato, prendono le mosse molteplici esperienze in cu i partecipanti si alimentano sia da un punto di vista affettivo che simbolico ed il teatro sviluppa la sua ricerca artistica su nuovi processi e forme. È in questo alveo che si sviluppa la drammaturgia performativa, con i suoi differenziali di coinvolgimento, con la sua autoreferenzialità gruppale, e con la possibilità di sviluppi non solo nel campo della teatralità diffusa ma anche in forme di teatro terapia e gruppo di incontro. In questo alveo prende forma sempre più chiaramente la prospettiva della drammaturgia comunitaria come drammaturgia festiva.

Una drammaturgia nuova, può radicarsi entro la cultura del laboratorio e configurarsi via via come nuova ritualità, come una complessa vicenda ludica e performativa. Questa drammaturgia può sorgere infatti attraverso discontinuità forti e rotture di codici all’interno di una teatralità diffusa e polimorfa, con progressive ricadute nelle varie realtà del disagio, spesso ai margini della rete sociale. […] Se in queste comunità si genera via via un sistema di relazioni alimentate dal teatro, come un centro di iniziative importante, si può mettere in moto una strategia della comunicazione, capace di rompere i circuiti dell’omologazione, di attivare forme di partecipazione sempre più vive e radicate, in connessione tra di loro ed orientate progettualmente a fare sistema. Questo significa una drammaturgia festiva: una cultura che abbia radici collettive e occasioni di incontro e di rappresentazione in momenti critici del tempo comune, nelle scansioni significative delle esperienze collettive. Una comunità umana infatti in tanto può riconoscersi attorno a dei valori, a delle rappresentazioni del proprio vissuto, in quanto è capace di farsi sistema, di tradurre il vissuto

586 Monica Dragone, “Esperienze di teatro sociale in Italia”, in Claudio Bernardi, Benvenuto Cuminetti, Sisto Dalla Palma (a cura di), I fuoriscena, 61.

587 Vedi la prima definizione formulata da Bernardi nel 1998.

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collettivo in rappresentazioni pienamente dotate di senso e di riplasmare questo vissuto comune in forme attraverso cui si ricostituisca una comune identità588.

Se fino a questo punto le definizioni incontrate si presentavano chiare, ma anche aperte alla molteplicità, forse un po’ generica, che ammetteva nel campo del teatro sociale differenziate prassi e metodologie, a partire dal 2001 i processi definitori divengono più complessi, chiamando in causa più precisamente statuti, regole attuative e la distanza da altre aree della pratica teatrale589.

Il fine del teatro sociale è umanitario. Arrivare al buono attraverso il bello. Per questo motivo molti sostengono che questo teatro non è arte e parlano di teatro funzionale. Il teatro sociale, il teatro di comunità, il teatro educativo o politico, o come viene variamente definito, costituisce invece la nuova frontiera del teatro590.

Bernardi parte dall’osservazione che il teatro tende a differenziarsi diametralmente dal teatro sociale, volendo però assorbirne le risorse, in forza di un generico ‘tutto il teatro è sociale’. Lo studioso rivendica, in questo saggio, le specificità del teatro sociale, uno dei tanti teatri possibili, che sviluppa le valenze precipue del fatto teatrale (il gioco, e in particolare il gioco della vita, la dimensione relazionale e di comunicazione, il corpo in presenza) e le declina secondo proprie regole e tecniche e “non può essere confuso con altri generi di teatro”591. Per questo richiede professionalità con specifiche competenze di persone che sappiano assumersi la responsabilità sociale del loro intervento e tutelare il processo e i partecipanti anche a scapito del prodotto.

Inoltre per potersi dire teatro sociale deve prevedere un “rigoroso partenariato tra istituzione comunitaria e operatori teatrali, ossia una piena intesa progettuale, processuale e produttiva che rispetti il fine umanitario del servizio agli ‘utenti’”592. Per cui bisogna sorvegliare che le attività non abbiano solo un fine celebrativo dell’istituzione proponente, bensì traducano nel quotidiano tutto il bello che è nato in scena.

Inizia a delinearsi in questi primi anni un fronte specifico relativo al teatro comunità. A Torino, a ridosso del progetto Periferie in scena, prende l’avvio uno sviluppo del teatro sociale ad indirizzo comunitario. “Il modello festivo, che nelle culture altre è avvertito come forma del processo educativo e di reintegrazione del diverso, è il modello del teatro della comunità”593. Le sue caratteristiche sono la drammaturgia corale, l’esperienza di gruppo attraverso un coinvolgimento attivo, l’espressività corporea attraverso diversi linguaggi e la ripetizione ciclica. Si tratta di un dispositivo trasversale alle diverse culture che permette l’emersione dell’inconscio e delle emozioni nel tempo forte del rito, che organizza le tappe di costituzione personale e sociale dell’identità dell’individuo entro la sua comunità di riferimento. Certo non si tratta più di una partecipazione obbligata che annulli l’individuo tra le maglie del soggetto collettivo. Bensì di una partecipazione libera che garantisce alla

588 Sisto Dalla Palma, “Momenti e modelli della transizione teatrale”, in Claudio Bernardi, Benvenuto Cuminetti, Sisto Dalla Palma (a cura di), I fuoriscena, 22-23.

589 Pur non esprimendosi mai con il termine specifico di teatro sociale, Sisto Dalla Palma pubblica proprio nel 2001 La scena dei mutamenti, un testo che raccoglie molti suoi scritti che costituiscono elementi di riflessione fondativa per il teatro sociale stesso. Oltre a quelli già ricordati nel paragrafo dedicato all’autore, il volume dedica una sezione alla drammaturgia performativa, dove lo studioso articola precisamente le istanze della transizione teatrale in atto e la dimensione della teatralità diffusa, aprendosi all’ipotesi di un teatro senza spettatori dove prevalga l’esperienza del gruppo, del campo esperienziale, di leviniana memoria e dell’opera aperta. Sisto Dalla Palma, La scena dei mutamenti, 121-172.

590 Claudio Bernardi, “Far fuori il teatro”, in Claudio Bernardi, Daniela Perazzo (a cura di), Missioni impossibili.

Esperienze di teatro sociale in situazioni di emergenza, 229.

591 Ibi, 231.

592 Ibi, 232. Il volume presenta per la prima volta, tra le esperienze di teatro sociale, quelle svolte nei contesti dell’emergenza psico-sociale legata a guerre, conflitti, catastrofi, rivoluzioni politiche.

593 Alessandro Pontremoli, “Comunità e rappresentazione”, in Alessandro Pontremoli (a cura di), Teatro comunità.

Community theatre, 31.

Nel documento IL TEATRO DELLA VITA. (pagine 115-133)