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DM1 VERSUS DM2: differenze nell’entità e nell’origine del rischio

9   EPIDEMIOLOGIA DEI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARI NEL DM1 70

9.3   DM1 VERSUS DM2: differenze nell’entità e nell’origine del rischio

Nonostante DM1 e DM2 siano due patologie completamente diverse dal punto di vista ezio-patogenetico, esse condividono numerosi fattori di rischio per CVD, come per esempio l’obesità, l’insulino resistenza, lo stato infiammatorio, la nefropatia.

Diverse invece sono le relazioni coi vari fattori di rischio: ad esempio mentre nel DM2 l’obesità e l’insulino-resistenza precedono lo sviluppo della malattia e la nefropatia è spesso diagnosticata contestualmente al diabete , nel DM1, quando presenti, l’insulino resistenza e la malattia renale sembrano svilupparsi secondariamente al diabete, e l’obesità dalla terapia insulinica.

Quanto ai singoli fattori di rischio, la seguente tabella può fornirne una buona schematizzazione:

Dislipidemia

DM1

Qui ricordiamo che a differenza dei DM2, i soggetti DM1 non tendono ad avere un profilo lipidico più sfavorevole dei non diabetici, perlomeno da un punto di vista quantitativo,mentre l’ipotesi su eventuali alterazioni qualitative (composizione delle singole lipoproteine) è in corso di studio 20.

Tuttavia la dislipidemia, quando c’è, rimane un fattore di rischio cardiovascolare.

DM2

La dislipidemia è molto comune;prevalentemente si hanno bassi livelli di HDL ed alti livelli di trigliceridi.

Bassi livelli di HDL, alti valori di trigliceridi e di colesterolo LDL sono associati a CVD

192.

Ipertensione

Nel DM1 è frequente. Nello studio EURODIAB 176 il 24 % dei pazienti era iperteso, tra questi, solo la metà ne era consapevole, e meno del 12 % era trattato. Sembra quindi un aspetto sottovalutato. Nello stesso studio 171 si è osservato che una più alta Ps, una maggiore “pulse pressure” e la disfunzione diastolica erano associate a mortalità per CVD. Nel DM2 è frequente ed aumenta il rischio di CVD 192.

Nello studio UKPDS si è visto che il trattamento dell’ipertensione con ACE-I (venne usato il Captopril) o β–bloccante (Atenololo) riduce la mortalità per ECV.

Obesità

Nei DM1 l’obesità non è più frequente rispetto alla popolazione generale, ma quando presente aumenta il rischio CV.

L’obesità era associata con il progressivo aumento di calcio a livello coronarico nello studio Coronary Artery Calcification in Type 1 Diabetes (CACTI193), e con la presenza di CAC (coronary artery calcification) nello studio Pittsburgs EDC 194; tuttavia l’estensione di CAC era inversamente correlata al grado di adiposità nell’adulto DM1, suggerendo una relazione piuttosto complessa ed al momento poco chiara tra contenuto adiposo corporeo e

Quindi ricapitolando, le conseguenze della tendenza all’aumento di obesità nella popolazione dei DM1 sono al momento da chiarire, ma è verosimile che ne incrementerà il rischio CVD.

L’Obesità è un fattore di rischio per lo sviluppo di DM2.

Quando presente contestualmente al diabete di tipo 2, essa, specialmente quella viscerale, incrementa ulteriormente il rischio CV. Rimane un fattore di rischio indipendente per ECV.

Si cita lo studio INSPIRE ME IAA 195, studio osservazionale nel quale, tramite scansioni TC ,si valutò l’adiposità viscerale; si vide che questa era fortemente associata ad altri fattori di rischio CV (es.profilo lipidico sfavorevole, scarso controllo glicemico,ecc) e con la prevalenza di CVD.

Nello studio di Logue et al. veniva valutata in DM2 l’associazione tra BMI (misurato entro un anno dalla diagnosi) e la mortalità, e ne risultò una curva a J, con maggior rischio < 25 kg/m2 e > i 30/m2.

Differenze di genere

Premessa: nella popolazione generale gli uomini hanno maggiori probabilità di sviluppare CVD 196 e malattia renale 197 delle donne.

Nel diabete di tipo 1 questa condizione viene rovesciata:

la mortalità per cause CV tra uomini e donne è simile , e l’aumento del rischio relativo di ECV è molto maggiore nelle donne DM1 rispetto agli uomini DM1.

Nel diabete di tipo 2 le donne, pur mostrando un aumento del rischio relativo per CVD, mantengono un rischio assoluto più basso rispetto agli uomini con DM2 198.

La differenza tra DM1 e DM2 in questo senso potrebbe esser spiegata dalla precoce età d’esordio del DM1 e dal bassissimo rischio cardiovascolare delle donne prima della menopausa, protette da un assetto ormonale favorevole.

Tuttavia in futuro, il dilagare dell’ obesità, anche infantile potrebbe portare ad un abbassamento dell’età media di insorgenza del DM2 e quindi potrebbe annullare le differenze che in quest’ottica ci sono col DM1.

Iperglicemia

Nel DM1 è stato dimostrato che il miglioramento dei livelli di glucosio comportano una riduzione degli eventi CV.

Nel DM2 il trattamento intensivo della glicemia ha dato risultati contrastanti in quanto a riduzione di ECV.

Nefropatia

Nel DM1 essa insorge dopo la diagnosi e come complicanza microvascolare se non viene mantenuto uno attento controllo glicemico e pressorio.

Quando presente, vi è uno scatto prognostico in senso peggiorativo 199-201.

Nel DM2 è spesso diagnosticata contestualmente al diabete, forse per la modalità d’esordio clinico del DM2, che è molto più sfumato e graduale di quello del DM1.

L ’ eGFR (estimated glomerular filtration rate) e la proteinuria sono indipendentemente associate al rischio di morte complessivo (overall) e specifico per ECV, e pertanto questi parametri consentono una più definita stratificazione del rischio nel paziente DM2 202.

Ruolo di nuovi fattori di rischio

-Infiammazione: per il DM1 se ne è discusso precedentemente. Risultati simili di sono avuti per il DM2.

Molto studiata è stata la CRP (C reactive protein).

Si cita a titolo d’esempio uno studio su 3534 pazienti (di cui 882 erano diabetici) in cui veniva misurato il c-IMT (marker di aterosclerosi) e la CRP al tempo 0 e dopo 2 anni 203. Si è visto che nei soggetti con valori di CRP più alti, la progressione del c-IMT era più rapida; ancor più rapida era nei soggetti con sia HbA1c che CRP elevate.

Fig. 9.4. Una possibile schematizzazione del capitolo, tratta da “Is the Risk and Nature the Same in Type 1 and Type 2 Diabetes?”, Duca et al.

9.4 “The Double Diabetes”

Mentre in passato i pazienti DM1 avevano tradizionalmente un basso BMI e le complicanze microvascolari predominavano su quelle macrovascolari ai fini prognostici (specialmente la nefropatia), col tempo si è assistito ad un mutamento epidemiologico. E’ diventato sempre più frequente, trai DM1 l’ossservare sia un aumento del peso, che il riscontro di più componenti, finanche tutte, della sindrome metabolica, giungendo al cosìdetto “ Double diabetes “.

Fig. 9.5. Tratta da “Type 1 Diabetes, metabolic syndrome and cardiovascular risk”, Chillaròn et al., anno di pubblicazione 2013.

Si ritiene che questo sia in parte riconducibile da un lato al “weight gain “ da terapia insulinica intensiva, dall’altro al dilagare dell’epidemia di obesità, che non ha risparmiato la popolazione dei DM1 148, 204-207.

Questo aumento dell’incidenza del “Double Diabetes”, associato ad una riduzione dell’incidenza della microangiopatia, ha fatto si che la patologia macrovascolare sia diventata l’aspetto predominante nel diabetico, e che la CVD sia la principale causa di morte nel DM1 al di sopra dei 30 anni di età 208.

Molti studi hanno dimostrato che nella popolazione generale la sindrome metabolica è associata ad un aumento della mortalità, il cui rischio è decuplicato nei casi in cui siano presenti tutte le sue componenti 209.

Nella popolazione generale la sua presenza varia dal 20 al 50 % 204, 210, fino a raggiungere un’ altissima frequenza nei DM2, ovvero dell’80%.

Nei DM1, la sua prevalenza varia a seconda della popolazione studiata e dei criteri diagnostici dall’8 % al 40 % 148, 204-206, 211-218.

Fig. 9.6. Tratta da“Type 1 Diabetes, metabolic syndrome and cardiovascular risk”, Chillaròn et al., anno di pubblicazione 2013.

Prevalenza delle componenti della sindrome metabolica nei DM1:

Sovrappeso/obesità 50%

Bassi livelli di HDL 20%

Ipertrigliceridemia 13-30%

Ipertensione 11-59%

La sindrome metabolica può essere considerata un marker surrogato di insulino resistenza. Quanto alla stima dell’insulino resistenza, il gold standard sarebbe rappresentato dalla tecnica dell’ “hyperinsulinemic euglycemic clamp “, che tuttavia non viene usata diffusamente nella pratica clinica, ma perlopiù a scopo di ricerca. Al suo posto, nella pratica clinica, sono usate varie formule, tra cui molto usata è la HOMA-IR (‘homeostasis model assessment insulin – resistance‘), che tuttavia non è applicabile nel DM1, perché richiede trai parametri di calcolo la misurazione dell’insulinemia, che nei DM1 è invece fornita per via esogena.

Nel 2000 è stato visto che l’eGDR (estimated glucose disposal rate) correla molto bene con i valori dell’Hyperinsulinemic euglycemic clamp, pertanto consente un’ottima stima della sensibilità all’insulina219.

Alti valori significano alta sensibilità(o in altri termini bassa insulino- resistenza), bassi valori l’opposto.

Nel DM1 l’eGDR è stato connesso allo sviluppo di complicanze, sia micro che macrovascolari, ed un aumento della mortalità 205, 206 199, 221-226, pertanto potrebbe essere utile un suo calcolo nei soggetti con sindrome metabolica, per meglio stratificare il rischio del paziente.

Adiponectina

E’ un ormone prodotto dal tessuto adiposo, che gioca un ruolo importante nella regolazione della sensibilità all’insulina e nel metabolismo lipidico.

I suoi valori plasmatici sono ridotti nell’obeso, e correlano negativamente con l’insulino resistenza 226.

L’ipoadiponectinemia è associata in maniera indipendente con la prevalenza ed incidenza di sindrome metabolica 227.

Nei DM1 ci sono dei dati non molto chiari: i suoi livelli sono paradossalmente elevati, ed è associata a microalbuminuria.

Componenti della Sindrome Metabolica

Obesità, Dislipidemia, Ipertensione.

Obesità

Da un lato si sta verificando negli ultimi decenni una vera e propria pandemia di Obesità, indipendentemente dal discorso della terapia insulinica intensiva.

Oltre alla ben nota associazione col DM2, in alcuni studi è stato riportato che l’obesità in età pediatrica aumenti il rischio di sviluppare successivamente DM1 228.

Dall’altro vi è il discorso della terapia insulinica intensiva, di cui è emersa l’efficacia nel DCCT/EDIC study nel ridurre insorgenza e progressione delle complicanze micro e macro vascolari; fanno da controaltare a tali vantaggi il maggior rischio ipoglicemico ed il “

L’aumento medio di peso nel braccio intensivo era di 14 Kg , il che comportò un aumento della prevalenza del sovrappeso del 33 % 8.

Notare che all’epoca del DCCT il BMI dei DM1 rispetto a quello della popolazione generale, era più basso, differenza che invece ad oggi si è annullata 221, 229, 230 anche in età pediatrica 231, 232.

L’obesità in questi pazienti è stata associata a maggiori richieste di insulina, peggior controllo metabolico 233, maggior progressione della malattia aterosclerotica 234 e più frequente necessità di ospedalizzazione per scompenso cardiaco.

Dislipidemia

Il profilo lipidico dei pazienti DM1, perlomeno da un punto di vista quantitativo, non differisce molto rispetto a quello della popolazione generale, a differenza dei DM2 dove un profilo dislipidemico in senso aterogeno è molto più frequente.

Tra le alterazioni più frequenti nei DM1 troviamo: -bassi livelli di HDL nel 20 % della popolazione DM1 ; -Ipertrigliceridemia nel 13-30 % .

In aggiunta, l’insulina potenzia l’espressione del gene codificante per la Apo-lipoproteina A-1, e quindi la sua produzione a livello epatico; questo pertanto potrebbe spiegare come mai nei soggetti DM2 e dei DM1 con insulino resistenza vi siano ridotti livelli di HDL, anche in presenza di normotrigliceridemia 235.

Per quanto riguarda invece l’ ipertrigliceridemia, nonostante sia la meno comune alterazione, la sua presenza nel soggetto diabetico si accompagna ad un alto rischio di complicanze microvascolari (rischio 2-3 superiore), anche in giovane età e senza storia di lunga data214, 236-238. Concetto chiave: mantenere un buon controllo del profilo lipidico.

L’ipertensione rappresenta il più comune fattore di rischio cardiovascolare nella popolazione generale.

Sempre nella popolazione generale, per un aumento di 20 mmHg a partire dai 115 mmHg di pressione sistolica o un aumento di 10 mmHg a partire dai 75 mmHg di pressione diastolica, raddoppia il rischio cardiovascolare.

Un attento controllo pressiorio riduce la mortalità e morbidità nella popolazione generale e nei DM2238, 239.

Nel DM1 l’insorgenza di ipertensione arteriosa è stata considerata una conseguenza della nefropatia, ma probabilmente anche altri fattori giocano un ruolo patogenetico importante, come ad esempio la disfunzione endoteliale, l’aumento di peso secondario a terapia insulinica e l’insulino resistenza.

La prevalenza dell’ipertensione arteriosa nella popolazione dei DM1 varia nei diversi studi a seconda dei criteri diagnostici impiegati; secondo la ADA e la EASD circa il 30 % dei pazienti DM1 presenta ipertensione.

Molti studi hanno riportano che i DM1 ipertesi, presentano frequentemente anche altri fattori di rischio associati, come il sovrappeso/obesità, una maggior durata di malattia e l’insulino resistenza, ed una maggior frequenza di complicanze croniche, per lo più microangiopatiche 176, 240-242.

Strategie terapeutiche

Devono mirare a spezzare il circolo vizioso weight gain - insulino resistenza – aumento dosaggio insulinico.

Fig. 9.7. “Type 1 Diabetes, metabolic syndrome and cardiovascular risk”, Chillaròn et al., anno di pubblicazione 2013

Tra le varie opzioni disponibili, interventi che mirano a modificare lo stile di vita, ed interventi farmacologici, opzioni non mutualmente esclusive.

Tra i primi, sicuramente dovrebbe essere consigliato l’esercizio fisico.

Mentre nel DM2 i suoi effetti sono ben provati da una serie di studi 243, 244, nel DM1 non ancora245, 246.

Tuttavia verosimilmente esso ha effetti favorevoli sulla sensibilità all’insulina, direttamente ed indirettamente mediante perdita di peso.

Da un punto di vista farmacologico, si dovrebbe considerare l’opzione di utilizzare farmaci insulino-sensibilizzanti.

Quanto alla Metformina, complessivamente questa sembra avere effetti metabolici favorevoli come la riduzione del dosaggio insulinico di 5-10 unità al giorno, ed un miglioramento della glicata (però non statisticamente significativo = 0,28 % ); osservata anche una riduzione del peso di 1,7-6 kg ed una modesta riduzione del colesterolo LDL, tuttavia i vari studi non sono durati abbastanza a lungo da poter essere informativi sull’effetto macrovascolare e quindi sull’outcome cardiovascolare168.

Sono stati studiati anche i Tiazolidinedioni, altra classe di farmaci insulino sensibilizzanti, tra cui il Pioglitazione.

Nemmeno in questo caso si hanno dati abbastanza forti da poterne suggerire l’utilizzo nella pratica clinica quotidiana, almeno per ora247, 248.

Conclusione

La presenza di aspetti della sindrome metabolica, finanche tutti, nel DM1 non è infrequente ed è associata ad una maggiore incidenza di complicanze croniche e mortalità. E’ bene identificare questi pazienti il prima possibile, in modo da poter trattare il prima possibile ciascuno dei suoi elementi: obesità, dislipidemia ed ipertensione.

All’oggi è possibile per ora soltanto trattarli separatamente; è tuttavia auspicabile che in futuro si arrivi a trattare nei DM1 anche il minimo comune denominatore dei diversi elementi della sindrome metabolica, ovvero l’insulino resistenza.

In quest’ottica sarebbe utile l’effettuarsi di trials di numerosità e durata idonea, per poter testare da un punto di vista dell’outcome cardiovascolare l’effetto di interventi, farmacologici e non, volti a trattare questo aspetto.

9.5 “Metabolic Memory”

Una serie di clinical trials hanno dimostrato come un controllo intensivo e precoce (cioè attuato all’esordio della malattia) della glicemia, riduca, senza però azzerare, il rischio di insorgenza e di progressione delle complicanze del diabete, specialmente le microvascolari, ma il discorso vale anche per le macrovascolari.

Nel DM1 importante fu lo studio DCCT/EDIC, dove si tentò di spiegare il tutto col concetto di “ metabolic memory “4, 8, 249-252.

Risultati analoghi tuttavia si ottennero anche in condizioni simili (controllo glicemico intensivo versus standard in 4209 pazienti con DM2 di recente diagnosi) nell’ UKPDS (United Kindom Prospective Diabetes Study), dove si parlò di “Legacy effect “253.

Può essere di interesse storico citare l’esperimento di Engerman e Kern, del 1980 254. I ricercatori resero dei cani diabetici, trattandoli con allossana.

Questi vennero successivamente divisi in tre gruppi: il primo con scarso controllo glicemico per 5 anni; il secondo con buon controllo glicemico per 5 anni;

il terzo gruppo con uno scarso controllo per 2 anni e mezzo, e buon controllo per i successivi 2 anni e mezzo.

Si sviluppò retinopatia anche nel terzo gruppo, nonostante il ripristino di un buon profilo glicemico.

Sembra quindi che, intervenendo con un ottimo controllo nelle fasi precoci della malattia, i benefici rimangano anche nelle fasi successive, mentre lo stesso ottimo controllo raggiunto

dopo un periodo limite di scarso controllo (la cui lunghezza non è facilmente definibile, se non concettualmente) non è altrettanto efficace.

Per spiegare queste caratteristiche di malattia, è stato postulato che l’iperglicemia attivi una serie di “Stressors”, la cui azione non viene interrotta al ripristino della normoglicemia. Pertanto, anche quando l’imput iniziale viene meno, il danno non tende a regredire e talvolta la sua progressione non è arrestabile 250-252.

Nella ricerca di base, una serie di studi su modelli animali di diabetici sembrerebbero confermare questa teoria 255-261.

Quali sono gli stressors attivati ? Quali sono i meccanismi molecolari che sottendono la memoria metabolica, ammesso che tale teoria sia corretta ?

Nella review di Zhang et al 28 sono passati in rassegna i possibili meccanismi alla base per la retinopatia diabetica; non è da escludere che le stesse cose siano trasponibili anche per le altre complicanze del diabete.

Zhang et al. considerano principalmente tre meccanismi:a) lo stress ossidativo, b) la formazione di AGEs, c) alterazioni a livello epigenetico.

Fig. 9.8. Schema tratto da “Metabolic memory: Mechanism and implications for diabetic retinopathy”, di Zhang et al., anno di pubblicazione 2011.

Per il primo punto, è stato ipotizzato che l’iperglicemia in qualche modo favorisca la produzione di ROS a livello della ETC (Electron Transport Chain) mitocondriale, e che questi a loro volta provochino mutazioni del DNA mitocondriale, che a loro volta favorirebbero l’iperproduzione mitocondriale di ROS, instaurandosi così un circolo vizioso

262-269.

Per il secondo punto gli AGEs, oltre che causare la formazione di legami crociati, nella stessa proteina e tra proteine diverse, cambiandone struttura e funzione 270, legandosi ai RAGE (recettori degli AGEs), formerebbero complessi che andrebbero poi ad attivare fattori di trascrizione come NF-kB, e quindi in ultimo la trascrizione di geni codificanti per molecole coinvolte nel processo infiammatorio(es.IL-6,IL-18,sICAM-1, sVCAM-1).

In altre parole gli AGEs, indirettamente, favorirebbero un processo di flogosi locale e sistemico259, 262, 271-274.

Per il terzo punto, ricordiamo che l’espressione genica è anche in funzione della struttura della cromatina e del suo grado di avvolgimento e superavvolgimento; la metilazione e l’acetilazione degli istoni è uno degli strumenti di regolazione dell’espressione genica. In una serie di studi si è visto che l’iperglicemia causa modificazioni epigenetiche persistenti, se non permanenti275, 276.

Tutto ciò suggerisce che se questi meccanismi si dimostrassero essere veri, e si trovassero strategie efficaci per agire su ciascuno di essi (stress ossidativo, AGEs, e cambiamenti epigenetici), si potrebbero arrestare gli effetti della memoria metabolica, ammesso che questa teoria sia vera.

Molto interessante sarebbe verificare se, dopo trapianto di pancreas, ammesso che la teoria sia vera, tali “Stressors” smettano di agire o meno.