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G ENERE LETTERARIO E “ TERZA LINGUA ”

Nel documento N CANONE PER IL TEATRO ARABO U (pagine 43-47)

4. PERCHÉ UNA LETTURA DE QĀLABU-NĀ L-MASRAḤĪ

4.4. G ENERE LETTERARIO E “ TERZA LINGUA ”

E se Ibsen e Bernard Shaw venivano, sempre in quel periodo, rappresen-tati a Parigi in teatri d’avanguardia frequenrappresen-tati soltanto da dagli intendi-tori, per quel che concerne Čechov non vi era ancora nessuno che pen-sasse al suo teatro o che open-sasse tentarne la rappresentazioen a Parigi.

Questo era quel che veniva allora chiamato «teatro moderno».84

A Parigi trascorrevo le giornate curvo sullo scrittoio nella stanza n. 48 di rue Pelleport. Leggevo, leggevo… finché lessi di tutto in tutti i campi del-lo scibile. Mi gettai a capofitto neldel-lo studio della letteratura, della fidel-loso- filoso-fia, dell’arte dei vari popoli senza plecudermi alcun campo d’indagine, giacché ero convinto – e lo sono tuttora – che il letterato di oggi dev’essere enciclopedico.85

La novità del pensiero di T.Ḥ. è costiutita dal connubio che egli propone come l’unico possibile per il teatro arabo: l’unione tra creazione artistica “monadica”

(occidentale) e creazione artistica culturale di tutto un popolo (orientale)86. È questa la Nahḍa («rinascimento», «rinnovamento») che egli predica.

Ora, la proposta di T.Ḥ., articolata nei suoi due momenti, mira ad elevare, in quanto avente dignità culturale, il dialetto e in un secondo momento a elevare la qua-lità della lingua parlata cercando, attraverso il teatro e la letteratura, di reinserire all’interno della lingua parlata regole, termini, qualità che nella sua divaricazione dall’Arabo classico aveva progressivamente perso.

Egli elabora la sua proposta in tre diverse opere: aṣ-Ṣafqa (1953), aṭ-Ṭa‘ām li-kulli fam (1963) e al-Warṭā (1966), nell’ultima in particolare affronterà approfondi-tamente la questione della «terza lingua» in un’ampia nota a margine.

Potrebbe sembrare che il problema della lingua non riguardi la questione del-la qualità del canone teatrale proposto da T.H. Ma in realtà può fare molta luce su di essa poiché la questione della lingua chiarisce quale sia l’orizzonte in cui si pone T.H. La sua proposta manifesta infatti finalità che sono rivolte alla promozione so-ciale e alla performance teatrale, e in cui l’aspetto letterario sembra giocare un ruolo secondario. La contemporaneità della formulazione di questo problema (al-Warṭa, 1966) e della pubblicazione di Qālabu-nā (1967) inserisce il tema della terza lingua dentro il cuore della questione del canone teatrale.

La questione della lingua è soprattutto un aspetto “materiale”, perché – pro-prio secondo quanto dice T.Ḥ. – riguarda in modo particolare la messa in scena:

E sebbene io adoperi una lingua di mia elaborazione quanto mai sempli-ficata, tuttavia, al momento di mandare in scena una commedia ho sem-pre il bisogno che qualcuno la modifichi ulteriormente «traducendola»

in dialetto.87

L’uso del dialetto a teatro è essenziale per dare immediatezza alla scena, tut-tavia il teatro non lo utilizza per indulgere verso il pubblico, così come altrove non evita di usarlo per smarcarsi da ciò che non è colto. Nell’uno e nell’altro verso assu-merebbe un atteggiamento fin troppo snob.

Il fine è, come abbiamo già ricordato, anche sociale, nel momento in cui riva-lutando il dialetto si vuol promuovere la società che lo parla, e il mezzo principale per realizzare questa promozione sociale è primariamente il teatro. Il teatro che non ha solo una funzione descrittrice, ma agisce sulla realtà:

Non basta infatti affermare di essere descrittori di realtà; il dovere è an-che quello di agire sulla realtà, di modificarla, creando la realtà di

87 T. al-Ḥakīm, al-Warṭa, Maktabat al-Ādāb, al-Qāhira 1966; in M.K., vol. III, p. 831, I; tr. it. in G.

Montaina, Op. cit., pp. 747.

ni.88

La tentazione di indulgere verso forme di pretenziosa superiorità culturale è molto forte in chi scrive e si occupa di teatro o anche di altre forme diffuse di espres-sione artistica, poiché è semplice fare della facile ironia su ciò che viene comunemen-te considerato non apprezzabile, incolto, come la fraseologia dialettale. Tuttavia occorre resistervi:

Noi, dunque, per suscitare l’ilarità scarifichiamo gli scopi più importanti dal punto di vista artistico e sociale, ossia l’innalzamento del livello ligui-stico della classi popolari.89

Invece, la prossimità alla cultura popolare fa maturare in T.Ḥ. la consapevo-lezza che anche la lingua popolare, appunto il dialetto, abbia una sua dignità intellet-tuale tale da giustificare una sua assunzione “colta”, e ad un tempo garantire la pos-sibilità che il dialetto non rimanga chiuso in sé stesso ma ritrovi le sue radici nella lingua cosiddetta colta. È questa la «terza lignua» di cui parla T.Ḥ.:

è quella del comune conversare della nostra vita quotidiana, ma con tutto ciò essa è vicina alla lignua araba corretta. Di conseguenza al momento della rappresentazione non avrà bisogno di essere tradtta nel cosiddetto dialetto; non ci saranno quindi, in questo caso, due testi per una sola commedia ma un unico testo.90

La tesi da cui parte il progetto della terza lingua per il teatro è quella dell’assurdità della diglossia. Le due lingue devono tornare ad essere un’unica lingua, tuttavia quest’operazione non può essere compiuta eliminando uno dei due poli ben-sì avvicinandoli, riunificandoli, tenendo fisso però nelo stesso tempo il valore della lingua coranica, in quanto fonte del dialetto.

La questione della «terza lingua» ci consegna dunque un ulteriore conferma di quanto qui cerchiamo di dimostrare, ossia che il valore del canone teatrale propo-sto da T.Ḥ. supera il confine di una classificazione sic et sempliciter letteraria. Il tea-tro per T.Ḥ. non si pone più soltanto sul piano letterario, esso gioca su molteplici li-velli, esso è meta-letterario, allo stesso modo in cui è meta-linguistico.

Certo la questione della «terza lingua» si pone ad un tempo come un indiriz-zo anche letterario, poiché richiede di scrivere dei testi a partire da un parametro linguistico certamente non indifferente. Tuttavia, questo effetto dell’uso della terza

88Ibi, p. 832, I; tr. it. G. Montaina, Op. cit., p. 749.

89Ibi, p. 832, I; tr. it. G. Montaina, Op. cit., p. 750.

90Ibidem.

lingua non ne costituisce né il fine né tanto meno la scaturigine.

L’ipotesi della conquista del genere letterario “dialettale” viene peraltro ridi-mensionata fortemente se si considerano le attestazioni, presenti già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, di forme letterarie in “lingua dialettale”91, senza consi-derare, inoltre, la presenza già nella letteratura classica di forme letterarie pseudodia-lettali, come – per citare un esempio rievocato anche da T.Ḥ. – i poemi cavallereschi dei Banū Ḥilāl92.

I confini del canone teatrale dunque, dentro il quale rientrerebbe la questione della «terza lingua», la lingua teatrale, per T.Ḥ. sono molto più ampi di ciò che può essere corcoscritto al problema del “genere letterario”.

91 Cfr. F. De Angelis, L’arabo parlato in Egitto, Jouvence, Roma 2007, pp. 60-71.

92 Cfr. Ibi, pp. 53-59.

Nel documento N CANONE PER IL TEATRO ARABO U (pagine 43-47)