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Il Syllabus del 1904 considerava l’etica dal punto di vista psicologico. Negli anni successivi, Dewey affronta un duplice problema: da un lato si chiede se l’etica possa essere considerata una scienza, almeno nel senso in cui è considerata tale la psicologia;

dall’altro lato approfondisce le caratteristiche dell’etica per verificare se l’approccio psicologico può esaurirne la trattazione o, in caso di risposta negativa, in quali altre direzioni occorra sviluppare l’analisi.

Queste riflessioni trovano una prima sistemazione in un lungo articolo del 1903, Logical Conditions of a Scientific Treatment of Morality. In apertura, Dewey contesta la distinzione tra i giudizi scientifici, che sarebbero universali e oggettivi, e quelli etici, individuali e soggettivi. A suo parere, invece, entrambi i tipi di giudizio spiegano l’individuale appoggiandosi a concetti universali ricavati però dall’individuale stesso, cioè dall’esperienza. La scientificità non va intesa come oggettività o meno del campo di studio, ma come metodo di indagine, e in questo senso è applicabile anche ai giudizi

80 L’ottica è però diversa. Come scrive Mercante «L’analisi deweyana del 1891 […] identificava la virtù come “realized morality” (moralità realizzata): invece, nel 1894 esse diventano espressione

etici. Infatti anche questi giudizi richiedono il riferimento a proposizioni generali, proposizioni o princìpi che possono essere analizzati con un’indagine sperimentale, simile a quella scientifica. Ciò che distingue l’etica dalla scienza è l’autocoscienza: le proposizioni etiche riguardano il soggetto stesso, la riflessione sul proprio comportamento e soprattutto sulle disposizioni e sulle motivazioni della propria attività.

Questo carattere riflessivo è estraneo al mondo della scienza, le cui teorie rimandano direttamente ad attività o ad oggetti esterni al soggetto.

Il carattere riflessivo dei giudizi etici emerge più chiaramente se facciamo riferimento all’azione: l’analisi del comportamento rimanda ad atteggiamenti e disposizioni propri del soggetto, che spiegano l’attività a partire dalle caratteristiche del soggetto.

«Quindi, dal punto di vista strettamente logico (cioè senza riferimento a considerazioni esplicitamente morali), il giudizio etico ha un suo scopo specifico: esso è impegnato nel giudicare un oggetto della cui determinazione è un fattore lo stesso atteggiamento o disposizione che conduce all’atto di giudicare.

Ne segue immediatamente che lo scopo del giudizio etico può essere stabilito così: il suo fine è di costruire l’atto del giudizio come essente in sé un complesso contenuto obiettivo. Esso si pone dietro all’atto del giudizio quale è usato nei processi specificamente intellettuali, e ne rende la qualità e natura […] oggetto di esame. Proprio perché nell’oggetto esaminato e organizzato del giudizio è implicito il carattere o disposizione, il carattere viene determinato dal giudizio.

Colui che giudica si mette a giudicarsi, e con ciò a fissare le condizioni di tutti gli ulteriori giudizi di qualunque tipo». (Dewey 1903, it.: 287)

Il carattere riflessivo del giudizio etico da un lato esprime e porta alla coscienza disposizioni e atteggiamenti del soggetto giudicante, dall’altro lato (è il «significato etico straordinario» cui si accenna) proprio in quanto esplicita e rivela ciò che il giudicante è, lo modifica e produce un cambiamento dialettico continuo.

dell’”interezza del sé”». (Mercante 2006: 216)

Il coinvolgimento delle disposizioni e degli atteggiamenti del soggetto nei giudizi etici, rimanda alla psicologia, che – almeno in questo momento – costituisce il punto di rife-rimento principale di Dewey, come già testimoniava l’impostazione dell’opera del 1894, dedicata in gran parte alla cosiddetta “Psychological Ethics”. Ad essa però Dewey affianca una nuova prospettiva, che diventerà predominante nell’Ethics del 1908, quella sociologica. In quanto agente etico, il soggetto è parte di una complessa rete di relazioni che lo determina e ma che egli contribuisce a modificare, anche in questo caso secondo un rapporto dialettico per cui l’azione cambia sia l’oggetto che il soggetto, determinandoli entrambi.

L’analisi dei giudizi etici attraversa quindi tre momenti. In primo luogo abbiamo le caratteristiche specifiche, da un punto di vista logico, del giudizio etico, che è diverso, come abbiamo visto, da quello scientifico. Esso deriva dall’attività e dialetticamente la influenza, chiamando in causa il modo di essere del soggetto giudicante. In secondo luogo, e come conseguenza, rimanda allo studio delle disposizioni e degli atteggiamenti del soggetto, coinvolgendo quindi la psicologia. Infine, rimanda anche al contesto in cui l’azione si sviluppa e che da essa viene modificato, ma che a sua volta modifica il soggetto agente, rinviando quindi alla sociologia. Struttura logica del giudizio etico, psicologia e sociologia non esauriscono però l’ambito della morale, pur costituendone il presupposto. Si delinea la prospettiva generale di Dewey che andrà chiarendosi nelle opere successive: l’etica presuppone la comprensione e lo studio scientifico del comportamento, ma non si esaurisce in esso perché altrimenti verrebbero meno la libertà e l’iniziativa individuale. Questo aspetto verrà approfondito in seguito. Qui, però, Dewey sottolinea un’altra dimensione dell’etica non riducibile alla semplice spiegazione del comportamento. L’etica è implicita in ogni attività umana, anche nella ricerca scientifica e nell’applicazione tecnologica, perché indica il senso generale di questa attività, le intenzioni e i fini che la giustificano.

«L’intera trattazione implica che la determinazione degli oggetti in quanto oggetti, anche quando non involga alcun riferimento consapevole alla condotta, sia fatta, in fin dei conti, allo scopo di svolgere l’esperienza ulteriore. Questo svolgimento ulteriore è mutamento, trasformazione dell’esperienza attuale, e

quindi è attivo. Quando questo sviluppo è diretto intenzionalmente mediante la costruzione di oggetti in quanto oggetti, non c’è soltanto esperienza attiva, ma attività regolata, cioè condotta, comportamento, prassi. Perciò ogni de-terminazione di oggetti in quanto oggetti (ivi comprese le scienze che costruiscono gli oggetti fisici) ha rapporto con il cambiamento dell’esperienza, dell’esperienza come attività; e, quando tale rapporto passa dall’astrazione all’applicazione (dal negativo al positivo), ha rapporto con il controllo cosciente della natura del cambiamento (cioè col cambiamento deliberato) e con ciò acquista un significato etico. Questo principio si può chiamare il postulato della continuità dell’esperienza. Da un lato esso protegge l’integrità del giudizio morale, rivelandone la supremazia e di conseguenza il carattere strumentale o ausiliario del giudizio intellettuale (sia esso fisico, psicologico o sociologico); e, dall’altro, protegge il giudizio morale dall’isolamento (cioè dalla trascendenza) mettendolo in relazioni attive di aiuto reciproco con tutti i giudizi intorno all’oggetto dell’esperienza, anche con quelli di tipo più spiccatamente meccanicistico o fisiologico». (Dewey 1903, it.: 306-7)

Il postulato della continuità dell’esperienza ci dice che ogni volta che siamo consapevoli dei cambiamenti che l’esperienza produce in noi, siamo su un terreno etico, in quanto riguarda la formazione morale del soggetto (o dell’uomo in generale); Dewey afferma quindi, a modo proprio e per una via diversa da quella kantiana, un “primato della ragion pratica”, anzi, qualcosa di più: la potenziale rilevanza etica di ogni esperienza, anche di tipo conoscitivo. Tale centralità dell’etica è determinata dal fatto che essa è immanente all’esperienza, fa parte della prassi ad ogni livello, è il tessuto connettivo, possiamo dire, del nostro agire.

In questo articolo, quindi, Dewey afferma alcuni princìpi che spiegano il passaggio dal-la concezione etica del 1894 a queldal-la del 1908: l’importanza deldal-la dimensione sociale, l’immanenza dell’etica nella prassi, il significato tendenzialmente etico del nostro agire nel mondo, fisico e sociale, e il carattere disposizionale dell’etica, che non è il semplice agire, ma piuttosto va individuata negli atteggiamenti da cui le azioni stesse derivano.

5. L’etica di Dewey e il confronto con l’antropologia