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del Settecento, che consideravano tali reazioni come naturali e spontanee, come il fondamento della morale, che come tale non richiedeva – né consentiva – una spiegazione ulteriore.

Dewey riprende e sottolinea il contrasto tra i tre livelli, che restano largamente indipendenti anche se in vario modo connessi. Spesso la morale ufficiale fa riferimento al dovere, mentre quella tollerata o praticata concretamente è relativa al buono o al piacevole, oppure si seguono norme comportamentali che derivano dalla tradizione senza poterle giustificare razionalmente.

La conclusione cui perviene Dewey è in realtà problematica: questi diversi aspetti disegnano una complessità della morale che spesso le filosofie hanno cercato di semplificare, affermando la preminenza di uno soltanto dei fattori ricordati. Occorre rinunciare invece all’idea che esista una soluzione corretta per ogni circostanza e porre attenzione ai concreti elementi che compongono la situazione in cui ci troviamo ad agire (contestualismo). I princìpi generali possono aiutarci a comprendere meglio la situazione specifica, ma ogni caso particolare richiede un atteggiamento di ricerca e di indagine per individuare il comportamento migliore.

resta ci sono molti cambiamenti, anche se è stato conservato l’impianto generale. La seconda parte (quella scritta da Dewey) è del tutto nuova e la parte terza (scritta congiuntamente) con l’eccezione di poche pagine è stata riscritta, anche se Tufts ha conservato i titoli di capitolo e quindi gli argomenti trattati, mentre Dewey ha modificato anche questi.

Dopo la parte storica curata da Tufts, la seconda parte, intitolata Teoria della vita morale e scritta come abbiamo detto da Dewey, si apre con la distinzione, presente già nel lavoro del 1908, tra morale consuetudinaria (customary) e morale riflessiva (reflective). Dewey afferma che vi fu un cambiamento epocale con gli Ebrei e i Greci, quando si proclamò che la morale non doveva essere fondata sul costume, ma sul cuore e sulla mente, cioè sull’adesione intenzionale del singolo. Contemporaneamente si pose (v. il dialogo platonico Protagora) il problema della relatività della morale e quello dei suoi fondamenti. Una teoria morale non può sorgere finché c’è un accordo consuetudinario su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Nasce nelle situazioni di conflitto, quando possono essere sostenute modalità alternative di affrontare un problema e di rispondere a richieste sociali.

Consideriamo ad esempio, scrive Dewey, la situazione di un tale che è un cittadino fedele alla propria patria e che nutre riconoscenza verso lo Stato in cui è cresciuto. Ad un certo punto, questo Stato dichiara guerra a un altro. Il cittadino leale è tuttavia convinto che quella guerra sia ingiusta, o che ogni guerra sia una forma di omicidio.

Deve scegliere tra due valori entrambi positivi e entrambi giustificati. La teoria morale non è altro che la generalizzazione dei princìpi che guidano la scelta in situazioni di questo tipo. In ogni caso, una teoria etica può rendere la scelta personale più intelligente, ma non può dare risposte preordinate né sostituirsi alla decisione dell’individuo.

Qui troviamo una prima significativa differenza rispetto agli scritti precedenti e uno degli aspetti centrali della nuova impostazione: non si tratta più di considerare ciò che è buono-desiderabile in sé, e neppure ciò che è giusto. Si parla invece di “situazioni”

considerando l’etica come uno strumento per consentire al soggetto, a colui che deve prendere una decisione, di orientarsi in essa. La teoria etica non dice ciò che è buono o ciò che è giusto, ma offre strumenti per poter decidere in modo più consapevole.

Incomincia a delinearsi la tesi fondamentale di Dewey, cioè l’etica considerata come indagine su situazioni problematiche, alla luce di considerazioni teoretiche che orientano e facilitano l’indagine stessa.

Condizione (e in un certo senso postulato) dell’etica rimane, come nelle opere precedenti, la libertà, cui deve accompagnarsi la consapevolezza di ciò che stiamo facendo. Agire in stato non consapevole o sotto costrizione riduce o elimina la responsabilità morale. Queste considerazioni sono quasi ovvie, ma semplificano fino a distorcerla una realtà più complessa. Occorre infatti considerare, sottolinea Dewey facendo riferimento ad Aristotele, che un atto è l’espressione di un carattere, formato e stabile. Ma la stabilità del carattere è una questione di gradi, non va considerata in termini assoluti. «Nessun essere umano, per quanto maturo, ha un carattere completamente formato, mentre ogni bambino, nella misura in cui ha acquisito atteggiamenti e abitudini, ha un carattere stabile che va estendendosi. Il punto centrale è che c’è una specie di scala di atti, alcuni dei quali procedono dalle più grandi profondità del sé, mentre altri sono più casuali, maggiormente dovuti a circostanze accidentali e variabili»117. (LW 7: 167)

Questa “gerarchia degli atti” è molto importante per la nostra analisi perché sembra ipotizzare una parallela gerarchia dei motivi che spingono ad agire o meglio, come vedremo, delle disposizioni verso certi comportamenti.

Il legame tra carattere e atti è ben espresso dal termine “condotta” (conduct). «Il termine – scrive Dewey – indica continuità dell’azione, un’idea implicita nella nozione di

“carattere stabile e formato”. Quando c’è una condotta non c’è semplicemente una successione di atti scollegati, ma ogni cosa fatta porta verso una tendenza e un intento soggiacenti, conducendo, portando verso, ulteriori atti e una meta o obiettivo finale. Lo sviluppo morale, nella formazione data dagli altri e dall’educazione che ognuno si procura da sé, consiste nel diventare cosciente che i nostri atti sono connessi l’uno con

117 «No human being, however mature, has a completely formed character, while any child in the degree in which he has acquired attitudes and habits has a stable character to that extent. The point of including this qualification is that it suggests a kind of running scale of acts, some of which proceed from greater depths of the self, while others are more casual, more due to accidental and variable circumstances».

l’altro»118. (LW 7: 168-9)

L’idea della condotta come di un insieme di atti collegati risolve il problema dell’indifferenza morale della maggior parte dei nostri atti quotidiani. In realtà, essi sono collegati in un comportamento complessivo la cui finalità generale dà un significato morale a tutti quanti. Non ha rilevanza morale come ci vestiamo, come salutiamo gli altri, come parliamo, ecc., ma nell’insieme la nostra condotta ha un senso generale che esprime uno stile di vita, la concezione che abbiamo di noi e degli altri, i fini che riteniamo importanti, e così via, cioè cose che invece hanno un valore morale esplicito. Non tutti i nostri atti sono morali, potremmo dire, ma lo siamo (oppure no) noi stessi, lo è il nostro modo complessivo di essere.

Resta da giustificare l’affermazione che gli atti sono legati tra loro in un tutto, invece di ubbidire a una semplice sequenza causale. Per rispondere occorre richiamarci al carattere disposizionale delle azioni. In chi compie certe azioni occorre riconoscere una più o meno forte tendenza ad agire in quel modo. È ciò che chiamiamo abitudine.

«La risposta – scrive Dewey – consiste nel rendere esplicite le allusioni che sono state fatte sulla disposizione e sul carattere. Se un atto fosse connesso con altri atti semplicemente nello stesso modo in cui la fiamma di un fiammifero è connessa con l’esplosione di polvere da sparo, ci sarebbe azione, ma non condotta. Ma le nostre azioni non soltanto conducono ad altre azioni che seguono come loro effetti, esse lasciano anche un’impronta duratura su chi le compie, rafforzando e indebolendo tendenze permanenti all’azione. Questo fatto ci è familiare come esistenza di abitudini.»119 (LW 7: 170)

118 «The word expresses continuity of action, an idea which we have already met in the conception of a stable and formed character. Where there is conduct there is not simply a succession of disconnected acts but each thing done carries forward an underlying tendency and intent, conducting, leading up, to further acts and to a final fulfillment or consummation. Moral development, in the training given by others and in the education one secures for oneself, consists in becoming aware that our acts are connected with one another».

119 «The answer is contained in rendering explicit the allusions which have been made to disposition and character. If an act were connected with other acts merely in the way in which the flame of a match is connected with an explosion of gunpowder, there would be action, but not conduct. But our actions not only lead up to other actions which follow as their effects but they also leave an enduring impress on the one who performs them strengthening and weakening permanent tendencies to act. This fact is familiar to us in the existence of habit».

Dobbiamo tuttavia, prosegue Dewey, rendere più profonda e più ampia la nostra definizione di “abitudine”, di solito limitata alla ripetizione di azioni, come fumare o nuotare, vestire in modo accurato o negligente, fare esercizi fisici o giocare.

L’analisi di Dewey è molto vicina alla prospettiva antropologico-culturale, evitando però i rischi di una posizione passiva dell’individuo cui il riferimento al condizionamento dell’ambiente potrebbe condurre. In sintesi, possiamo non essere responsabili di un singolo atto, ma ogni atto è conseguenza di ciò che siamo e ciò che siamo dipende almeno in parte da noi. Ma il discorso di come diventiamo ciò che siamo va approfondito: c’è una forte componente culturale, che si esprime nelle abitudini; però in ogni momento siamo noi a orientare le diverse componenti culturali, a modellarle, modellando di conseguenza su di esse la nostra personalità. Non possiamo “andare oltre la nostra cultura” (per parafrasare Hegel), ma possiamo interpretarne in ogni momento le componenti, usandole almeno in parte come materiali da costruzione (una metafora cara a Dewey) o, più propriamente, come l’organismo utilizza gli elementi dell’ambiente per costruire se stesso. L’abitudine (o – in termini più tecnici – l’atteggiamento, la disposizione) non orienta semplicemente il comportamento, ma costruisce la personalità. Dewey sottolinea con forza questo aspetto:

«Ma l’abitudine si estende molto più significativamente all’interno della struttura stessa del sé; significa la costruzione e la solidificazione di certi desideri; una aumentata sensibilità e reattività a certi stimoli; una rafforzata o indebolita capacità di occuparsi di e di pensare a determinate cose. L’abitudine comprende in altri termini il vero carattere del desiderio, dell’intenzione, della scelta, della disposizione che conferisce a un atto la qualità di “volontario”. E questo aspetto dell’abitudine è molto più importante di quanto è suggerito dalla semplice tendenza a ripetere azioni esteriori, per il significato di considerare come sottese in permanenza come disposizioni personali ciò che è causa di atti esterni e della loro somiglianza l’uno con l’altro. Gli atti non sono collegati insieme a formare una condotta per se stessi, ma per la loro comune relazione con una durevole e individuale condizione – il sé o carattere come la durevole unità in cui differenti atti lasciano le loro durevoli tracce. Se qualcuno cede a un impulso momentaneo,

la cosa significativa non è il particolare atto che ne segue, ma il rafforzamento del potere di questo impulso – questo rafforzamento è la realtà di ciò che chiamiamo abitudine. In un certo senso, la persona sta affidando se stessa non a quel determinato isolato atto, ma a un corso di azione, a una linea di condotta»120. (LW 7: 171)

Questo passo è particolarmente interessante in ottica antropologico-culturale perché individua le relazioni tra cultura e individuo in termini di formazione della personalità, mediante l’interiorizzazione di una serie di abitudini che diventano modi di essere, disposizioni, aspetti della personalità. Vedremo come una prospettiva simile sia seguita dai maggiori allievi di Boas, e rappresentanti della cosiddetta “scuola di cultura e personalità”, a partire da Ruth Benedict con il concetto di “modelli culturali” (Patterns of Culture), ad Abram Kardiner e Ralph Linton con quello di “personalità di base”

(Basic Personality), a Clyde e Florence Kluckhohn con quelli di “atteggiamento”

(Attitude) e di “orientamento di valore” (Value Orientation). Analizzeremo in profondità questi concetti nei prossimi capitoli, mettendoli in relazione con le teorie di Dewey.

La conclusione di questa analisi delinea la nuova prospettiva seguita in quest’opera rispetto ai lavori del 1908 e del 1894 (anche se già accennata nelle opere degli anni

‘20): assumere come oggetto dell’etica non le norme, i valori, ecc., e neppure le azioni e il comportamento, ma il soggetto morale, il “sé”. «La conclusione – scrive Dewey – è che la condotta e il carattere sono strettamente legati. La continuità, la consistenza attraverso una serie di atti è l’espressione di una persistente unità di atteggiamenti e

120 «But habit reaches even more significantly down into the very structure of the self; it signifies a building up and solidifying of certain desires; an increased sensitiveness and responsiveness to certain stimuli, a confirmed or an impaired capacity to attend to and think about certain things. Habit covers in other words the very make-up of desire, intent, choice, disposition which gives an act its voluntary quality. And this aspect of habit is much more important than that which is suggested merely by the tendency to repeated outer action, for the significance of the latter lies in the permanence of the personal disposition which is the real cause of the outer acts and of their resemblance to one another. Acts are not linked up together to form conduct in and of themselves, but because of their common relation to an enduring and single condition – the self or character as the abiding unity in which different acts leave their lasting traces. If one surrenders to a momentary impulse, the significant thing is not the particular act which follows, but the strengthening of the power of that impulse – this strengthening is the reality of that

abitudini. I fatti stanno insieme poiché procedono da un singolo e stabile sé. La morale consuetudinaria tende a trascurare o a mettere in secondo piano l’unità tra il carattere e l’azione»121. (Dewey 1932: 172) E citando il filosofo inglese Leslie Stephen, Dewey aggiunge: la legge morale ci dice: “sii questo”, non “fai questo”.

La conclusione che la condotta e il carattere sono, dal punto di vista morale, la stessa cosa, costituisce secondo Dewey la soluzione di una delle più antiche controversie in ambito morale, quella tra motivazioni e conseguenze. È il contrasto tra Kant da un lato e l’utilitarismo di Bentham dall’altro.

«Una volta riconosciuto – scrive Dewey – che il “motivo” è un nome abbreviato per atteggiamento e predisposizione verso i fini che sono inglobati nell’azione, ogni ragione per stabilire una netta separazione tra motivazione e intenzione – come previsione delle conseguenze – viene a cadere»122. (Dewey 1932: 175) L’esistenza di disposizioni di carattere di un certo tipo consente di prevedere alcune specie di conseguenze e di trascurare altre azioni casuali. Otello e Iago, esemplifica Dewey, prefigurano diverse reazioni perché hanno caratteri differenti.