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Nella Introduzione all’Ethics del 1908, Charles Stevenson sottolinea l’importanza del concetto di “rappresentazione drammatica” (che verrà approfondito da Dewey nell’ope-ra del 1922 Natunell’ope-ra e condotta dell’uomo: v. par. 5.3 ma che è già formulato qui). Appli-candolo alla definizione della scelta etica, sostiene che «“X è giusto” ha lo stesso significato che “una rappresentazione drammatica basata su proposizioni scientifica-mente vere, che, se le esplicitassi completascientifica-mente, mi orienterebbero favorevolscientifica-mente verso X”». Il concetto di rappresentazione drammatica (cioè la possibilità di imma-ginare, prima della scelta, le situazioni che deriverebbero dalle alternative possibili) consente di coniugare, secondo Stevenson, la reazione emotiva con la conoscenza, visualizzando i possibili scenari che farebbero seguito a un comportamento, nel definire i quali intervengono le credenze ma anche le conoscenze del soggetto. In questo modo il soggetto costruisce situazioni e sperimenta reazioni che orienteranno la sua scelta.

Secondo Stevenson, le “rappresentazioni drammatiche” intese come strumento di indagine implicano la possibilità di «divergenze di atteggiamenti» (disagreements in attitude, p. XXIII). Secondo Dewey, tuttavia, due persone con atteggiamenti opposti verso un determinato giudizio di valore, finirebbero per concordare se rappresentassero razionalmente la situazione. Il metodo di indagine etico condurrebbe a un’intersoggettività non lontana da quella delle scienze. Già nell’opera del 1908 emerge così uno dei grandi temi dell’etica deweyana, che cerca di conciliare costume e scelta responsabile, soggettività e attenzione alle situazioni particolari con valori intersoggettivi condivisi.

A differenza dei precedenti saggi sull’etica (quelli del 1891 e del 1894), l’ottica qui proposta da Dewey è ormai lo “sperimentalismo”: non si parte da princìpi etici, ma da problemi morali, e le teorie etiche sono prima di tutto strumenti per affrontare e risolvere tali problemi, rimovendo le situazioni di incertezza o migliorando in generale le condizioni dell’esistenza.

Leggiamo nell’Introduzione, scritta congiuntamente da Dewey e da Tufts:

«Il significato di questo testo di etica consiste nel suo sforzo di risvegliare una vitale convinzione della genuina realtà dei problemi morali e del valore del pensiero riflessivo

nell’affrontarli»83. (MW 5: 3) Subito dopo, gli autori enunciano un principio didattico (l’Ethics è scritta in primo luogo come testo di studio universitario) che è però anche un principio metodologico costantemente seguito da Dewey anche nelle opere successive:

«Nella seconda parte [scritta interamente da Dewey], dedicata in modo più specifico all’analisi e alla critica delle principali concezioni di teoria morale, lo scopo non è stato di instillare le nozioni di una scuola o di inculcare un sistema già fatto, ma di mostrare lo sviluppo delle teorie a partire dai problemi dell’esperienza quotidiana, e di suggerire come queste teorie possono essere proficuamente applicate alle questioni concrete»84. (MW 5: 4)

A differenza dell’approccio prevalentemente “psicologico” dell’opera del 1894, qui l’analisi è prevalentemente storica, almeno in prima istanza. Dewey sottolinea i vantaggi di un’analisi storica, sia perché consente di individuare l’origine di norme e valori, sia perché consente di vederli per così dire “a distanza”, cogliendone dunque la diversità rispetto a quelli attuali. Ma il motivo principale è che la formazione della morale è, nella prospettiva che indica, essa stessa storica. La morale si forma come processo di adattamento all’ambiente, come insieme di risposte date in certe situazioni e che vengono poi interiorizzate e trasformate in abitudini, in atteggiamenti.

«[La coscienza] seleziona tra le varie risposte quelle che conseguono lo scopo, e quando queste risposte sono diventate a loro volta automatiche, abituali, la coscienza “dirige se stessa altrove per mirare dove il movimento di adattamento è ancora da cercare e necessario”. Per applicare questa dinamica allo sviluppo morale, abbiamo solo bisogno di aggiungere che questo processo si ripete più e più volte. Il punto di partenza per ogni ripetizione non è un istinto ereditario, ma

83 «The significance of this text in Ethics lies in its effort to awaken a vital conviction of the genuine reality of moral problems and the value of reflective thought in dealing with them».

84 «In the second part, devoted more specifically to the analysis and criticism of the leading conceptions of moral theory, the aim accordingly has not been to instill the notions of a school nor to inculcate a ready-made system, but to show the development of theories out of the problems and experience of every-day conduct, and to suggest how these theories may be fruitfully applied in practical exigencies».

l’abitudine che è stata formata»85. (MW 5: 14)

Questo processo è visto in modo evoluzionistico (in quest’opera è evidente l’influenza di Spencer): quando le vecchie abitudini non sono più adatte a nuove situazioni o a un mutato ambiente, vengono trasformate, e sostituite da altre a livello più elevato. L’intero processo si sviluppa nella direzione di una sempre maggiore socializzazione e razionalizzazione.

Richiamandosi esplicitamente ad Aristotele, Dewey insiste sull’abitudine come fondamento della morale. «Aristotele dice che l’atto deve anche essere l’espressione di una disposizione (un’abitudine o exis)86, una tendenza più o meno consolidata da parte di una persona. Deve avere una qualche relazione con il suo carattere». (MW 5: 188) Ma l’abitudine non esaurisce il campo dell’etica, anzi non ne costituisce l’aspetto principale. Nell’Introduzione si era data la seguente definizione “provvisoria” dell’etica:

«L’etica è la scienza che ha a che fare con la condotta, nella misura in cui questa è considerata come giusta o sbagliata, buona o cattiva. Un termine specifico per la condotta così considerata è “condotta morale” o “vita morale”. Un altro modo per affermare la stessa cosa è dire che lo scopo dell’etica è di rendere conto dei giudizi sulla condotta, nella misura in cui essa è considerata dal punto di vista del giusto e dell’ingiusto, del bene o del male»87. (MW 5: 7) Nella seconda parte, Dewey precisa e in parte modifica questa definizione, specificando che il problema morale sorge quando c’è contrasto tra comportamenti possibili e alternativi. In modo più articolato:

85 «It selects from the various responses those which suit the purpose, and when these responses have become themselves automatic, habitual, consciousness “betakes itself elsewhere to points where habitual accommodatory movements are as yet wanting and needed.” To apply this to the moral development we need only to add that this process repeats itself over and over. The starting-point for each later repetition is not the hereditary instinct, but the habits which have been formed».

86 La parola exis è un termine greco derivante dal verbo “echo” che significa avere, come in latino

“habitus” deriva da “habeo”. Perciò, si va costruendo nella propria persona un habitus, a forza di azioni e di abitudini, come una seconda natura, che agevola nello stesso modo in cui agevola il virtuoso nel suonare il pianoforte. Il pianista virtuoso infatti trasforma in abitudine l’arte pianistica, attraverso la ripetizione.

87 «Ethics is the science that deals with conduct, in so far as this is considered as right or wrong, good or bad. A single term for conduct so considered is “moral conduct,” or the “moral life.” Another way of stating the same thing is to say that Ethics aims to give a systematic account of our judgments about conduct, in so far as these estimate it from the standpoint of right or wrong, good or bad».

«L’esperienza morale è (1) una materia della condotta, del comportamento; cioè, delle attività che sono suscitate dall’idea88 del valore, della desiderabilità del risultato. […]

L’esperienza morale è (2) quel tipo di condotta in cui ci sono fini così discrepanti, così incompatibili, da richiedere la scelta di uno e il rifiuto dell’altro». […] «La condotta in quanto morale può quindi essere definita come l’attività suscitata e diretta dalle idee di valore o di desiderabilità, dove i valori coinvolti sono così incompatibili da richiedere una riflessione e una scelta prima che un’azione vera e propria venga intrapresa»89. (MW 5: 193-4)

Queste prime considerazioni e le due definizioni di morale meritano alcune considerazioni. Dewey descrive il comportamento morale, facendo ricorso anche agli strumenti offerti dalle scienze sociali, come abitudini, come atteggiamenti sedimentatisi all’interno di una società in seguito a risposte storicamente date a problemi ricorrenti, atteggiamenti che diventano parte della personalità dei membri della comunità. Questa morale descrittiva non sembra costituire, però, l’ambito morale in senso proprio, cioè nel suo significato filosofico. In questo senso, la morale emerge invece proprio quando sorgono problemi nuovi di fronte ai quali non esistono risposte codificate, e l’individuo o il gruppo devono scegliere. Possiamo definire questi due livelli rispettivamente come morale consuetudinaria e morale riflessiva. Nel secondo caso, si pone il problema dei criteri e dei valori che orientano la scelta90.

88 Dewey specifica che l’essere evocati da un’idea distingue i comportamenti morali da quelli impulsivi e da quelli degli animali inferiori, che possono provare sentimenti e forse anche avere immaginazione, ma certamente non hanno “idee” in senso proprio.

89 «Moral experience is (1) a matter of conduct, behavior; that is, of activities which are called out by ideas of the worth, the desirability of results. […] Moral experience is (2) that kind of conduct in which there are ends so discrepant, so incompatible, as to require selection of one and rejection of the other. […] Conduct as moral may thus be defined as activity called forth and directed by ideas of value or worth, where the values concerned are so mutually incompatible as to require consideration and selection before an overt action is entered upon.»

90 Una differenza simile sussiste anche in ambito conoscitivo. Scrive Dewey: «Eppure vi è una salda distinzione fra conoscenza, che è obiettiva e impersonale, e pensiero, che è soggettivo e personale. In un senso la conoscenza è quel che accettiamo senz’altro. È quello che è stabilito, concluso, sotto controllo.

Su quello che sappiamo pienamente non abbiamo bisogno di pensarci su; in parole semplici, è sicuro, certo. E questo non significa una semplice sensazione di certezza. Denota, non un sentimento, ma un atteggiamento pratico, una prontezza ad agire senza riserve o discussioni. Naturalmente ci si può sbagliare. Quel che si prende per conoscenza (per fatto e verità) può in un certo momento non esser tale.

Ma tutto ciò che si accetta senza discutere, che si ammette senz’altro nei nostri rapporti fra noi e con la natura, è quel che a un certo momento si chiama conoscenza. Il pensiero al contrario comincia, come si è

Questi due ambiti non sono però nettamente separati, anzi, nella prospettiva di Dewey, sono dinamicamente correlati. La scelta, infatti, dipende91 da ciò che siamo, dal carattere dell’individuo e quindi dall’insieme di atteggiamenti che ha interiorizzato; al tempo stesso e dialetticamente, però, le scelte influenzano e modellano gli atteggiamen-ti, li modificano e trasformano la personalità stessa. In questa prospettiva, la scelta non esaurisce l’ambito della morale, che è molto più vasto e copre l’intera attività pratica di un individuo.

Ad esempio, la maggior parte della gente svolge la maggior parte delle attività quotidiane senza considerarle moralmente rilevanti, senza che sorga la questione del bene e del male. «Ma ad ogni momento la questione del suo carattere come influenzato da ciò che sta facendo, può sorgere per il giudizio. L’individuo può in seguito realizzare che il tipo o la specie di carattere che prevarrà nelle sue successive attività era implicato nei fatti che aveva compiuto senza minimamente pensarci. Egli allora li giudica moralmente, li approva o li disapprova. D’altra parte, lo sviluppo di un’azione che in un certo momento si presenta come una crisi morale, può più tardi rivelarsi come un momento di un processo. Non c’è quindi una linea fissa tra ciò che è moralmente indifferente e ciò che è moralmente significativo. Ogni atto è potenzialmente materia di giudizio morale, in quanto rafforza o indebolisce qualche atteggiamento [habit] che influenza un’intera classe di giudizi»92. (MW 5: 195)

La morale è quindi strettamente intrecciata con la vita e con l’esperienza di ognuno.

Una delle novità più rilevanti dell’Ethics del 1908 rispetto ai lavori precedenti è appunto la convinzione che non si debba partire da una teoria morale per applicarla

visto, dal dubbio o dall’incertezza. Denota un atteggiamento di indagine, di ricerca, invece che uno di dominio e di possesso. È attraverso l’attività critica del pensiero che la conoscenza viene sottoposta a verifica ed estesa, e le nostre convinzioni sullo stato delle cose riorganizzate». (Dewey 1916: 353-4) 91 Ho preferito questo termine a espressioni più forti (come, ad esempio, “è determinata da”) perché, come vedremo, in Dewey non c’è nessun determinismo morale, anche se gli atteggiamenti e il modo di essere dell’individuo rendono certe scelte più probabili di altre.

92 «But at any time the question of his character as concerned with what he is doing may arise for judgment. The person may later on realize that the type or kind of character which is to prevail in his further activity was involved in deeds which were performed without any such thought. He then judges them morally, approving or disapproving. On the other hand, a course of action which at the time presented a moral crisis even, may afterwards come to be followed as a matter of course. There is then no fixed line between the morally indifferent and the morally significant. Every act is potential

subject-all’esperienza, ma dall’analisi dell’esperienza per individuarne i problemi morali che la riflessione teorica contribuirà a risolvere.

L’analisi di Dewey è costantemente orientata al superamento di ogni forma di dualismo:

quello tra abitudine, o costume, e morale riflessiva, quello tra sentimenti e razionalità, quello tra dimensione interiore (coscienza) e dimensione esteriore (comportamento).

Il rapporto tra abitudine e riflessione e tra sentimenti e razionalità in gran parte coincidono.

«Soltanto se l’individuo – scrive Dewey – è abituato, esercitato, ha fatto pratica nei buoni fini come piacevoli in sé, mentre era ancora tanto immaturo da essere incapace di conoscere veramente come e perché essi sono buoni, allora sarà capace di conoscere il bene quando sarà maturo. Il piacere associato ai fini buoni e la sofferenza associata ai cattivi deve operare come un motivo di forza per dare esperienza del bene, prima che la conoscenza possa intervenire e operare come una forza-motore»93. [MW 5: 201)

La morale (consuetudinaria) nasce quindi come “abitudine ai valori”, in modo che, come sosteneva Hume (che non conosceva però i meccanismi psicologici e antropologici che ne stavano alla base) il “bene” ci attragga e il “male” provochi in noi repulsione. Ma la formazione di abitudini verso i valori presuppone adulti che condividano tali valori e una struttura sociale in grado di trasmetterli. Bisogna allora chiedersi come possa la struttura sociale trasmettere valori morali. Il problema può essere diviso in due: da una parte, l’analisi degli appetiti irrazionali, dei desideri e degli impulsi che ostacolano l’apprendimento del bene; dall’altra, quella delle leggi e delle istituzioni che sono in grado di formare i membri dello Stato a un corretto modo di vivere. Si ripropone la dicotomia tra passioni e razionalità, ma calata in un tessuto

matter of moral judgment, for it strengthens or weakens some habit which influences whole classes of judgments.»

93 «Only if the individual is habituated, exercised, practiced in good ends so as to tape delight in them, while he is still so immature as to be incapable o f really knowing how and why they are good, will he be capable of knowing the good when he is mature. Pleasure in right ends and pain in

sociale che permette di superarla in una prospettiva che ricorda ancora la filosofia hegeliana: la legge consente il controllo delle passioni e dell’interesse privato.

Poste queste premesse, Dewey analizza le teorie morali focalizzate sull’individuo e quelle basate sulla collettività, per mostrare come ad un’analisi approfondita la loro contrapposizione divenga molto sfumata.

Ci sono teorie individualistiche e teorie istituzionali. Le prime vedono alla base della morale una qualche forma di sentimento, che lo si chiami gratificazione, soddisfazione o felicità. Le seconde danno molta importanza alla comunità, e Dewey cita a questo proposito due passi di Hegel:

«Quel che l’uomo deve fare, quali sono i doveri che egli deve compiere per essere virtuoso, è facile dire in una comunità etica: – null’altro deve fare da parte sua, se non ciò che a lui, nei suoi rapporti, è tracciato, espresso e noto» (Hegel 1821, it.: 167)

«…l’individuo ha oggettività, verità ed eticità, soltanto in quanto è componente dello Stato. (Ivi, p. 239) E ancora: «Essere morali è vivere in accordo con la tradizione morale di un Paese». (MW 5: 208)

Le teorie che affermano la centralità dell’individuo sono riferibili all’empirismo e all’utilitarismo, quelle che danno importanza ai valori comuni si richiamano invece al razionalismo, sia nella forma comunitaria e storica di Hegel, sia in quella universale di Kant. Le stesse teorie distinguono una morale delle conseguenze (utilitarismo), una morale delle intenzioni (Kant) e una morale della virtù o dei valori (Hegel). Ma tutte queste contrapposizioni sono soltanto aspetti diversi di una realtà unitaria che li comprende tutti.

La soluzione accennata da Dewey nelle Conclusioni, e proposta come problema da sviluppare nella parte successiva, riprende alcune posizioni caratteristiche dell’antropologia culturale. In base al senso comune – conclude infatti Dewey-, queste teorie (empirismo e utilitarismo, razionalismo e etica del dovere) sono tutte corrette, per alcuni aspetti e in diversi contesti. Ciò vuol dire che la contrapposizione tra esse non è effettiva, ma dipende da alcuni equivoci di fondo. Il loro difetto è di voler scindere

wrong must operate as a motive force in order to give experience of the good, before knowledge can be attained and operate as the motor force».

l’atto volitivo unitario in due parti, una riferita all’interiorità e ai motivi, l’altra all’esteriorità e ai fini. L’azione morale va intesa come riconducibile ad atteggiamenti che costituiscono la personalità dell’individuo, per cui l’esterno (il comportamento) manifesta l’interno. Ma seguiamo più in dettaglio l’analisi di Dewey.

«Un atto volontario è sempre una disposizione [disposition], o abito dell’agente che si manifesta in un atto concreto che, per quanto può, produce certe conseguenze. Una motivazione che non produce conseguenze non è una motivazione in senso proprio e neppure un atto volontario. D’altra parte, le conseguenze che non sono intenzionali, che non sono volute e scelte dalla personalità che si adopra per realizzarle, non sono parte di un atto volontario. Né l’interno separato dall’esterno, né l’esterno separato dall’interno, hanno una volontarietà o una qualità morale. Il primo è soltanto un passeggero sentimentalismo o una fantasticheria; il secondo è un mero accidente del caso»94. (MW 5: 218-9)

Considerando meglio le due teorie ci rendiamo conto che non c’è contrapposizione: il motivo è il motore del comportamento, che è “volontario” soltanto in quanto è riconducibile alla dimensione interiore, ai motivi e agli atteggiamenti. E Dewey conclude: «Possiamo cominciare l’analisi da uno qualsiasi dei due aspetti [comportamento o atteggiamento], ma dobbiamo poi chiamare in causa l’altro per completare l’analisi»95. (MW 5: 219-20)

Dopo aver affermato di aver superato la contrapposizione tra utilitarismo (etica delle

94 «A voluntary act is always a disposition, or habit of the agent passing into an overt act, which, so far as it can, produces certain consequences. A “mere” motive which does not do anything, which makes nothing different, is not a genuine motive at all, and hence is not a voluntary act. On the other hand, consequences which are not intended, which are not personally wanted and chosen and striven for, are no part of a voluntary act. Neither the inner apart from, the outer, nor the outer apart from the inner, has any voluntary or moral quality at all. The former is mere passing sentimentality or reverie; the latter is mere accident or luck».

95 «We may begin the analysis of a voluntary act whichever end we please, but we are always carried to the other end in order to complete the analysis».

conseguenze e quindi esteriorità) e razionalismo kantiano (etica delle intenzioni e quindi interiorità) mediante la sintesi rappresentata dal concetto di atteggiamento, o disposizione, Dewey riprende e approfondisce l’analisi di queste due prospettive etiche sottolineandone i limiti.

Nell’utilitarismo, al di là del criterio dell’analisi delle conseguenze per giudicare la moralità o meno di un atto, si sottolinea il carattere disposizionale degli atti, introducendo dunque, accanto al criterio esterno e oggettivo, una dimensione causale interiore.

Sia Mill che Bentham insistono sull’importanza delle disposizioni come fonte del comportamento. Scrive Mill: «Fa una grande differenza nella nostra valutazione morale dell’agente, specialmente se ciò indica una buona o cattiva abituale disposizione […]

dalla quale l’azione deriva». E Bentham si chiede: «C’è nulla in un uomo che può essere definito “buono” o “cattivo” quando, in questa o quell’occasione, permette a se stesso di essere guidato da questo o quel motivo? Sì, certamente, la sua disposizione.

Ora, la disposizione è un’entità fittizia, inventata per la comodità del discorso, per esprimere ciò che si suppone sia permanente nella struttura mentale di un uomo quando, in questa o quell’occasione, è stato influenzato da questo o quel motivo, per intraprendere un’azione che, così come appare ai suoi occhi, derivava da questa o quella tendenza». (Cit. in MW 5: 233) La “struttura mentale” che sta a monte del comporta-mento può essere definita, scrive Dewey, come carattere e quindi il problema va posto nei termini del rapporto tra carattere e condotta. Si agisce in base a ciò che si è e, come abbiamo visto sopra, si diventa ciò che si è in base alle abitudini che si creano nel contesto in cui siamo inseriti fin da piccoli (anche se ciò è soltanto un lato dell’analisi della morale, come vedremo in seguito). Ora, sia gli utilitaristi che Kant sbagliano nel giudicare la moralità del comportamento o dell’intenzione, perché in ogni caso si riferiscono al singolo atto e non al carattere di chi lo compie, che invece è il vero soggetto morale. Sono gli individui a essere buoni o cattivi, non i singoli atti. È vero che una persona buona può compiere atti cattivi e viceversa, ma ciò in quanto il carattere non è mai monolitico e immutabile, presenta invece articolazioni e cambiamenti. Ma il problema teoretico consiste nel chiedersi in base a quali criteri possiamo definire buona o cattiva una persona, non il singolo atto.

Questa prima tesi riporta al problema cruciale della morale, e a uno dei motivi apparentemente inconciliabili tra utilitarismo e razionalismo kantiano, cioè l’universalità o meno della norma morale.

In realtà, sottolinea Dewey, gli utilitaristi non sostengono affatto una morale individualistica, perché parlano, con Bentham, della maggiore felicità possibile per il maggior numero di persone e, con Stuart Mill, distinguono i piaceri in base alla qualità, mettendo al primo posto quelli basati sulla conoscenza e sulla ragione rispetto a quelli basati sulla passione e sulle emozioni. I veri criteri per la moralità degli atti sono, per gli utilitaristi, l’interesse sociale e la simpatia, il che riporta la loro concezione su un piano generale.

Non si tratta, però dell’universalità così come è intesa da Kant, che ne fa il criterio principale della morale. Nonostante il tentativo di mediazione tra le due correnti, Dewey critica in modo radicale la concezione kantiana. Il presupposto fondamentale di Kant (ed è quello che Dewey critica maggiormente) è che la morale debba essere completamente separata dall’esperienza, per non cadere nel relativismo. Questa separazione porta infatti a una serie di problemi insolubili che inducono Dewey a respingere la teoria del trascendentale. La morale kantiana è formale e quindi vuota, senza riferimenti a circostanze specifiche, basata unicamente sulla ragione. Ma si cade subito in un circolo vizioso. Alla domanda: «Che cos’è la legge della ragione?», la risposta sarà: «Seguire la legge della ragione». Come possiamo rompere questo circolo per arrivare a una effettiva conoscenza di specifiche cose da fare?

In realtà, aggiunge Dewey, la teoria di Kant è più complessa e più interessante. Kant propone un metodo per applicare la morale formale all’esperienza. La soluzione è quella di applicare l’universalizzazione a ogni atto concreto, chiedendoci se il principio che seguiamo nel compierlo potrebbe diventare una legge universale senza determinare un’auto-inconsistenza. Fondamentalmente, quindi, il metodo di Kant è basato sull’indagine, implica che ognuno sviluppi un’indagine sulle conseguenze del proprio comportamento per deciderne la moralità o meno. Dewey ricorda vari esempi di universalizzazione proposti dallo stesso Kant: la tentazione del suicidio, il talento non coltivato, ecc., facendo notare come gli esempi di Kant facciano spesso riferimento alle conseguenze sociali degli atti e quindi come la sua morale, pur essendo centrata sulla