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L’ideale di predicazione e l’ars retorica. Il concetto di “metapredicazione”

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA IN Studi storici (pagine 103-113)

III. I L SERMONARIO DI SAN P IER D AMIANI TRE RETORICA , AGIOGRAFIA E PUBBLICO

III.2. L’ideale di predicazione e l’ars retorica. Il concetto di “metapredicazione”

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Riprendo in proposito due frasi di Lucchesi8: «Un tal rifacimento letterario delle sue prediche, […], è indubbiamente anche il frutto del piacere di scrivere che è una nota caratteristica del nostro santo». Invece, più avanti aggiunge: «Crediamo trattasi di un’utilizzazione pastorale […]; oppure che abbia inteso rifornire di una lezione propria un’officiatura troppo generica di Santi pressoché sconosciuti». Da un lato la certezza, dall’altra il dubbio. È a questo punto che lo studio di Lucchesi procede concentrandosi più sugli aspetti pratici della composizione dei sermoni e sulle fonti agiografiche utilizzate. Non è mia intenzione criticare una scelta certamente motivata o accusare mancanza d’ardire nel provare ad approfondire degli aspetti tanto incerti quanto rischiosi;

anzi trovo che lo scritto di Lucchesi sia un punto di partenza ineliminabile per procedere in questa trattazione, configurando a questo punto i due tipi di lettura dei sermoni non come qualcosa di complementare, bensì di consequenziale. Le fonti usate, la struttura degli scritti, la liturgia sono tutti elementi fondamentali per poi procedere verso quella fase che precede la produzione scrittoria e che porta direttamente al rapporto tra il predicatore e gli uditori.

Tuttavia, se i manoscritti possono fornire informazioni preziose, come detto, in merito alle fonti utilizzate dall’Avellanita, è anche vero che l’elaborazione e l’ufficio della predicazione trovano spazio all’interno della riflessione damianea non solo nell’epistolario, ma anche in alcuni testi del sermonario stesso. Si tratta di un ragionamento che, vista la collocazione, potremmo definire “metapredicatorio”, in quanto il discorso sulla comunicazione orale in forma di sermone viene utilizzato per conferire maggior efficacia retorica al sermone stesso.

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significava una maggiore libertà e capacità di movimento attraverso le rotte marittime, certamente preferibili a quelle terrestri. Basterebbe un primo sguardo ai luoghi di attività dei discepoli e alle conseguenti istituzioni di comunità ecclesiastiche per capire come questi si siano mossi prima nei territori immediatamente contigui alla Palestina, per poi spostarsi gradualmente verso il centro stesso dell’impero, dopo aver prodotto importanti basi di diffusione del nuovo culto in tutta la sua parte orientale. Il secondo punto da prendere in considerazione riguardo l’attività dei primi cristiani è la vivacità culturale di coloro che abitavano all’interno dei confini di quell’immenso territorio: il messaggio cristiano attecchì celermente a tutti i livelli della società, soprattutto tra gli strati più abbienti, indice di un messaggio teologico raffinato pur nella sua apparente semplicità.

All’interno di un contesto del genere e di un’attività di proselitismo fondata sulla parola più ancora che sul testo scritto, risulta automatico immaginare la grande capacità oratoria di questi primi cristiani e soprattutto la necessità di trasmettere queste conoscenze ai loro discepoli, affinché la diffusione del culto potesse continuare ininterrotta e soprattutto forte in quanto a capacità persuasiva.

Nel sermone VI Pier Damiani, parlando di Eleucadio, vescovo di Ravenna, sottolinea innanzitutto la formazione di quello che egli stesso definisce philosophus magnus. Il santo di cui parla il Damiani fu discepolo di sant’Apollinare e, in quanto tale, apprese una lezione fondamentale riguardo l’arte oratoria: la parola chiave utilizzata è simplicitas. La semplicità del messaggio cristiano vince le conoscenze di matrice platonica e pagana di Eleucadio ed è proprio questo ciò che insegna Apollinnare al suo discepolo, il quale, una volta incontrato il protovescovo ravennate cathedra se philosophicae doctrinae deposuit9; il messaggio cristiano ha colpito il protagonista del racconto damianeo, il fatto che egli fosse tra i maggiori sapientes del suo tempo non fa che avvalorare la grande forza persuasiva di quanto appreso da Apollinare. La Chiesa versava allora nell’indigenza e la religione cristiana non era ancora perfezionata, ma il malleus praedicationis colpisce e distrugge le convinzioni di Eleucadio come Mosè fece con il vitello d’oro. Il parallelo con l’episodio biblico in questione è continuo e invitabile, trattandosi di una vittoria del cristianesimo sul paganesimo, qui combattuta nell’animo del santo celebrato. Al paragrafo 910 si trova uno dei punti esegeticamente più alti del

9 Migne, PL 144, coll. 534D-542D; CCCM 57, pp. 31-43; Facchini - Saraceno, pp. 172-193.

10 Ibidem.

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sermone VI in cui la metafora utilizzata per indicare il ruolo dei predicatori all’interno della struttura ecclesiastica è quella dei denti, qui conversos homines a pravorum societate praecidunt, eaosque in Christi corpus, sicut superius dictum est, quasi mandendo traiciunt11. Si evince un ruolo aggressivo dei predicatori, sono loro a costituire quel mordente che permette alla Chiesa di avocare a sé nuovi fedeli e quindi di espandersi, un’azione cruenta e senza pietà verso le dottrine pagane che vanno estirpate. Si tratta della violenza persuasiva della parola di cui Pier Damiani è pienamente consapevole e non soltanto in relazione all’attività di proselitismo dei primi secoli, ma anche, e soprattutto, per quello che fin dall’inizio del secolo XI accadeva tutta Europa: il fenomeno della predicazione itinerante.

Il tema della formazione ritorna ancora nei sermoni damianei: i primi discepoli, i primi vescovi, i primi santi hanno come obiettivo quello di formare persone capaci di diffondere il cristianesimo in maniera efficace, santo Stefano papa è uno di questi.

Nell’incipit del sermone XXXVII Pier Damiani adotta un lessico particolare per rivolgersi agli uditori e paragona la predicazione alla militia Christi. Il papa non è un quieto prelato dedito semplicemente alla carità o al racconto dell’esempio di Cristo, viene definito dall’Avellanita condottiero, alfiere dell’Eterno Re, primipilo della cristiana milizia. Bisogna capire in che consista qui l’utilizzo di termini bellici in riferimento all’attività di un pontefice vissuto nei primi secoli dopo la nascita di Cristo. Non si tratta di reagire sovversivamente alle persecuzioni o di costringere con la forza alla conversione i pagani, la sua è una missione didattica il cui scopo è esortare gli altri a militare entro i ranghi dell’esercito di Cristo, inteso come un esercito fatto di fedeli che praticano la vita cristiana. Il modo per farlo non è solo quello dell’esortazione verbale, ma soprattutto quello di una vita esemplare da proporre per incitare meglio al combattimento spirituale affinché utique vitam concordare cum lingua, ne, dum aliis proponit excelsa, ipse contentus imis prematur inertia12. Accordare le opere con la lingua, un tema presente anche nel sermone LXXIII, rivolto agli eremiti e incentrato proprio su questo tema. Se nel sermone VI abbiamo visto i sacerdoti allegorizzati come denti del corpo sacro della Chiesa, nel sermone XXXVII il riferimento è meno criptico e rimanda a una assoluta

11 Ibidem.

12 Migne, PL 144, coll. 699C-705C; CCCM 57, pp. 224-231; Facchini - Saraceno, vol. 2.

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necessità del loro ruolo di mediatori presso Dio delle anime peccatrici e dedite ai vizi.13 Il sacerdote prega a vantaggio dei fedeli, li istruisce alla perfetta vita cristiana tramite l’esempio e li rende così combattenti della battaglia spirituale contro il demonio; una battaglia che la Chiesa combatte con i propri denti, i sacerdoti per l’appunto, dispensatori della divina dottrina attraverso l’arte della parola, grazie a loro la Chiesa è cresciuta nei primi secoli e tramite loro tutti i cristiani possono ambire a una vita più vicina all’ideale propugnato anche da Pier Damiani.

Quello dei denti non è però l’unico paragone particolare presente negli scritti damianei, un altro esempio viene desunto dalle Sacre Scritture, nello specifico nel Deuteronomio, dove vi sono una lunga serie di prefigurazioni di episodi neotestamentari e si parla di una «pioggia salvifica della predicazione». Il sermone XLII14, scritto in occasione della festa di san Bartolomeo, spiega questa metafora in cui la pioggia è la sapienza divina che cade sulla terra irrorata dalle nubi, allegoria dei santi dottori della Chiesa15, le quali non nascondono la luce del vero sole, ma, al contrario, lo fanno vedere meglio ai fedeli. Attraverso gli apostoli prima e i santi dottori poi, il messaggio di Cristo si diffonde e illumina il mondo; la comunicazione orale è il mezzo più potente a

13 Sermo XXXVII: «Si enim Redemptor noster propter Chananaeae meritum, a filia ejus daemonium expulit (Matth. XV), si propter offerentium fidem paralytico lectum gestare praecepit (Marc.

II), si centurionis precibus puerum, qui male torquebatur, incolumem reddidit (Matth. VIII); quam necessario nos sacerdotum orationibus indigemus, qui nos Deo diversis vitiorum languoribus aegrotantes offerunt, et quotidianis precibus apud divinam clementiam pro nobis indesinenter insistunt? Quorum procul dubio meritis sublevamur, etiamsi adhuc ex nostrae negligentiae languore deprimimur». Migne, PL 144, col. 705 A.

14 Migne, PL 144, coll. 726C-732°, CCCM 57, pp. 257-263, Facchini – Saraceno, vol. 2.

15 Sermo XLII: « Terra itaque repromissionis, hoc est sancta Ecclesia, et de coelo pluvias praestolatur, quia sapientiae coelestis imbre perfunditur, et nubes ejus, sancti scilicet doctores, de coelesti uno fonte invisibiliter hauriunt, quod in nos postmodum suaviter eructando transfundunt. Unde Propheta:

«Memoriam, inquit, abundantiae suavitatis tuae eructabunt, et justitia tua exsultabunt (Psal. CXLIV).» An non ad illum fontem Paulus, magna scilicet nubes, rediit, cum, supra tertium coelum raptus, verba quae loqui non licebat, audivit? (I Cor. II.) An non ad eumdem fontem reversus est Petrus, cum in extasim subito rapitur, et non modo diversa animantium genera, sed et serpentia mactare et manducare jubetur? (Act. X.) Et haec quidem nubes non erat tunc aqua sapientiae pleniter gravida, quia communis omnium gentium vocationis erat ignara. Sed accessit ad fontem, et hausit limpidissimam atque perspicuam de salute gentium puritatem». Migne, PL, coll. 729 B - 729 C.

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disposizione di questi soldati della Verità. La metafora dell’acqua salvifica ritorna nel sermone XIV, nella festa di san Marco evangelista, dove questa irrora i cuori umani, non più attraverso la predicazione, bensì con i quattro grandi fiumi che sgorgano dalla sorgente del paradiso: i quattro Vangeli. La descrizione di Pier Damiani è dettagliatissima, l’analisi filologica sottile, il fulcro del discorso non è la biografia del santo, come in altre occasioni, ma la sua opera scrittoria. Sed si suptiliter ipsa evangelii eius origo perpenditur16, Pier Damiani inizia una lezione pubblica di esegesi biblica senza limitarsi a spiegare ai fedeli il messaggio di Marco, ma andando a fondo nelle pieghe della composizione stessa del Vangelo. Già la frase d’esordio è posta in relazione all’incipit del Vangelo secondo Matteo, il Damiani spiega i motivi delle apparenti discrepanze tra i due o, in occasione di una citazione veterotestamentaria apparentemente sbagliata riportata da san Marco, ne motiva la scelta. Prosegue analizzando tutto l’inizio del libro, ma con l’accortezza iniziale di spiegare agli uditori che:

[…] quisquis evangelium beati Marci suptili meditatione considerat, et alta, ut dignum est, indagatione pertractat rudibus quidem et non accuratis descriptum verbis, sed uberrimis inveniet caelestis redundare mysteriis: et plane styli brevitate succinctum, sed profunda mysterii spiritalis ubertate diffusum.17

Un terzo dell’intero sermone è incentrato sulla preoccupazione del Damiani di spiegare non le vicende contenute nel vangelo marciano, ma il suo stile, i suoi artifici retorici, l’utilizzo delle sue fonti, le comparazioni filologiche. Il sermone è pronunciato probabilmente a Venezia, in pubblico18 e non davanti a teologi o dottori di particolare levatura. Chiudendo il sermone, però, Pier Damiani rivolge un appello perché nimirum necesse est ut qui ad officium praedicationis excubant, a sacrae lectionis studio non recedant19. L’intero sermone è quindi una dimostrazione pubblica; analizzare in pubblico alcuni passi evangelici e spiegare il ragionamento fatto per giungere a determinate conclusioni ha una finalità didattica: non basta fermarsi alla comprensione e allo

16 Migne, PL 144, coll. 572A-580C; CCCM 57, pp. 62-73; Facchini - Saraceno, pp. 232-249.

17 Ibidem.

18 Cfr. infra.

19 Migne, PL 144, coll. 572A-580C.

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scioglimento delle allegorie, l’acqua salvifica rappresentata dai quattro vangeli deve essere bevuta con raziocinio dai dottori e trasmessa in maniera consapevole, dopo averne sciolto ogni ambiguità, al popolo dei fedeli.

Il sermone XIV contiene al suo interno un’apostrofe allo stesso san Marco. Pier Damiani, infatti, nel descrivere il rapporto tra il santo evangelista e il di lui maestro, Pietro, chiede al primo il motivo di alcune omissioni all’interno del testo sacro:

Cur, beate Marce, tam egregio, tam insigni praeceptori tuo, quem animo devotus unice diligis, stylo non parcis? Ut, et quae laudibus sint efferenda praetereas, et quae reprehensionis videantur apta, describas? Cur hoc potius libro tuo non inseris, quod Petrus ad jussionem Domini, primo scilicet hami jactu, piscem cepit, in cujus ore staterem reperit, quem pro se, simul et ipso tributum, quod Caesari debebatur, tanquam Domino comparatus appendit? (Matth. XVII.) Nunquid et hoc te fugit quia, postquam illi Salvator claudendi, sive pandendi regni coelestis privilegium contulit, postquam illi universa terrarum regna subjecit (Matth. XVI), postquam denique, ne fides ejus tanquam totius Ecclesiae fundamentum quandoque deficeret, se orasse perhibuit (Luc. XXII), super cunctum mox ovium suarum gregem ei vice sua passionis custodiam delegavit? «Petre, inquit, diligis me? Pasce oves meas (Joan. XXI.)» Cur igitur a tot magistri praeconiis calamum reprimis, et sola, quae infirmitatis sunt, ad posterorum memoriam stylo committis?20

Con una serie di interrogativi l’Avellanita pone l’accento sullo straordinario rapporto tra i due santi, il risultato è un Vangelo che è sì scritto da Marco, ma come se coautore dello stesso fosse il principe degli apostoli, come se unus utriusque corda possideat21. Il fatto di omettere molti meriti di Pietro all’interno del racconto viene letto come indice di umiltà, infatti Marco riporta solo che ciò che aveva udito dal suo maestro, che aveva quindi evitato di raccontare episodi che ne esaltassero il suo stesso operato al fianco di Cristo. Tuttavia, qui, oltre all’aspetto esegetico, è interessante notare la retorica damianea. Non è, infatti, l’unica occasione in cui il predicatore avvia un immaginario dialogo col santo celebrato.

20 Sermo XIV, Migne, PL 144, coll. 577A-577B

21 Ibidem.

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Un notevole esempio di questo artificio retorico si trova nel sermone V su san Severo; questo, collegato al sermone che lo precede e pronunciato probabilmente nello stesso giorno22, racconta l’elezione a vescovo di Ravenna del lanaiolo ma da una prospettiva particolare. Il brano è estremamente introspettivo, vengono poste in risalto le preoccupazioni, le inquietudini, ma soprattutto l’umiltà di Severo nel momento in cui quest’ultimo attende che, come da tradizione, la colomba si posi sul capo del prescelto che andrà ad occupare la cattedra ravennate:

Hinc multi sibimetipsis, illud sacrae dignitatis culmen exoptant, et garrulo silentio intra conscientiam clamant: O si columba veniat super me, o si Deus eligat me! Putas ego ero electus? Putas mihi dabitur episcopatus? Inde autem ille scrutatur renes et corda (I Par. XXVIII; Psal. VII), «qui finxit sigillatim corda eorum, qui intelligit omnia opera eorum (Psal. XXXII).» Et quidem aderant ibi multi, utpote in egregia civitate, alii quidem frementium equorum glomeratis gressibus incedere soliti, alii claris natalium titulis insigniti, alii pretiosarum vestium nitore conspicui, alii crebris obsequentium militum cuneis constipati, alii omnibus his mundi muneribus multipliciter praediti, alii quibusdam pro sua possibilitate dotati. Sed omnipotens Deus, qui corda omnium subtiliter intendebat, quod olim per prophetam dixerat, sine aliquo vocis strepitu iterum repetebat: «Super quem, inquit, requiescet Spiritus meus, nisi super humilem, et quietum, et trementem sermones meos?» (Isa. LXVI.) Videbat populus in aperto loco columbam coelitus exspectantem. Aspiciebat illa Severum pauperculum post januam latitantem. Qui enim se hominibus abscondebat, divinae majestatis intuitum declinare non poterat. 23

Tutta la città è radunata, ma, racconta l’Avellanita, non era una semplice riunione tra spettatori di un evento politicamente e teologicamente segnante per Ravenna. Al

22 Sermo V: «Audistis, fratres charissimi, ex B. Severi, dum legeretur, historia, qualiter illum Deus de lanificii ergodochio sustulit, quam mirabiliter illum non solum praeter opinionem omnium civium, sed etiam sui, ad arcem pontificatus elegit. Audistis pauperculum hominem a Deo mundi divitibus auferri.

Audistis dejectum [abjectum] et humilem supra potentatus nobilium cum gloria sublimari. Audistis Spiritum sanctum sapientes saeculi contemnentem, simplicem hominem eligentem, ornatos vestibus transvolantem, in pannosum et squalidum, quasi in amicum familiarem et olim sibi notissimum descendentem». Migne, PL 144, col. 527 D.

23 Migne, PL 144, coll. 522C-527C; CCCM 57, pp. 15-22, Facchini - Saraceno, pp. 152-171.

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contrario, la maggior parte dei presenti si trovava lì nella speranza di essere il prescelto.

L’autore rende bene il contrasto elencando la pomposità delle vesti, la superbia di coloro che declamavano il loro lignaggio anche attraverso elementi simbolici come l’arrivo in sella al proprio cavallo, sia scortati da obsequientes milites. Il disegno divino in tal modo è reso ancor più definito e la modestia di Severo ne esce rafforzata nel momento in cui egli sembra quasi voler evitare lo sguardo divino della colomba.

È a questo punto che Pier Damiani chiede spiegazioni allo stesso Severo con una serie di domande incalzanti. L’interlocutore sembra reale, lo stile è più vicino a quello delle lettere damianee che a quello dei sermoni:

Quid est hoc, S. Severe? tam pauper, tam dives? tam humilis, tam sublimis? tam pannosus, tam gloriosus? apud judicia humana dejectus, ex divina providentia invisibiliter sublimatus? Cur te abscondere niteris, qui ad hoc proveheris ut ad virtutis exemplum omnium oculis proponaris? Cur vultus hominum crubescis, qui divinae majestatis conspectui prae omnibus placuisti? Videlicet idcirco absconderis, ut videas, et non videaris; videas scilicet columbam pro admiratione; non videaris autem pro vestium foeditate. Age jam manifesta te in publicum, procede in medium, et Christianae familiae suscipe villicatum. Exeat margarita de sterquilinio, ut in summi regis fulgeat ornamento.

Non lateat ulterius lucerna sub modio, sed super candelabrum posita, omnes, qui in domo sunt, splendoris sui luce perfundat (Matth. V). Pasce igitur Dominicum gregem, et super ovile Christi curam exhibe pastoralem. Tibi Christus Ecclesiam suam committere jam decrevit, quam inaestimabili sui sanguinis pretio comparavit. Suscipe egregiae administrationis officium, ut de commissi talenti foenore auctum referas lucrum. Nec expavescas ignorantiam litterarum, non dubites de incompositorum enormitate sermonum, quia ille qui promovet te, sine legendi labore instruet te; qui tibi doctrinae committit officium, docendi etiam suggeret incrementum. Summum quippe est verbum, quod tibi seminandi verbi exhibet ministerium. 24

Sembra qui che voglia quasi convincere il santo ad accettare il ruolo scelto per lui da Dio; lo invita a non aver paura delle incombenze tipiche dell’ufficio pastorale; risalta

24 ibidem, col 529A.

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in particolare la difficoltà di comporre una molteplicità di sermoni. Severo è pur sempre un umile lanaiolo, non un chierico, è totalmente avulso da ogni tipo di attività che comporti uno sforzo intellettuale di questo tipo. Qui si nota la particolare attenzione del Damiani alla messa per iscritto dei sermoni, è naturale che si debbano preparare preliminarmente i discorsi pubblici, tuttavia interessa leggere in questo passo un cenno a quella che ho definito “metapredicazione”. Il sermone parla di come venga prodotta una predica: in questo caso il vescovo mette per iscritto dei discorsi, ma per far ciò deve avere una preparazione culturale notevole (che manca a Severo), è Dio a ispirare le parole da pronunciare. Il predicatore viene visto ancora una volta come colui che ha il compito di trasmettere la divina sapienza ai fedeli a prescindere dal proprio curriculum studiorum; il sacerdote è uno strumento attraverso cui Dio raggiunge le anime dei cristiani. Si potrebbe leggere oltre le righe un sottile riferimento alla teoria damianea sulla simonia, per cui il sacerdote simoniaco al momento di amministrare i sacramenti non intacca la sacralità degli stessi, essendo egli un semplice tramite. Lo stesso accade con la predicazione, Pier Damiani non dice qui, si badi bene, che Severo sia un vescovo indegno, anzi si tratta di colui che più di ogni altro avrebbe meritato la cattedra, in particolare per la sua umiltà. È, d’altro canto, evidente che la purezza d’animo e le virtù cristiane proprie del santo non siano sufficienti per svolgere egregiamente l’ufficio sacerdotale, è Dio che supplisce a tali mancanze preservando la sacralità propria del ruolo pastorale.

Tornando all’aspetto filologico del passo, i timori e la grande umiltà del santo risultano esaltati da tale gioco retorico, la rielaborazione damianea della vicenda sembra valicare il genere agiografico per proporsi come un vero e proprio pezzo di bravura letteraria. Certamente il fatto che questo sermone fosse stato effettivamente pronunciato aiuta a capire come le scelte stilistiche siano una conseguenza della lingua parlata e dell’intenzione di creare quasi una sorta di suspense negli ascoltatori.

Se il sermone su san Severo risulta essere tra quelli effettivamente pronunciati in pubblico, un pubblico di fedeli durante una celebrazione, all’opposto si inserisce il XXI, dichiaratamente indirizzato ai fratelli dell’eremo:

Sed qui sanctorum Patrum homilias legitis, qui quotidie sacri eloquii meditationibus insistere non cessatis, quo pacto inter ipsa plena torrentis circumflui profunda tam aridi et pauperculi hominis aquam despicabilem sitire dignamini, nisi quia

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ad hoc non amor scientiae, quae inflat (I Cor. VIII), impellit, sed charitas potius, quae aedificat (Ibid.), attrahit? Si enim vobis, ut deposcitis, officio linguae currentis eloquerer, quid aliud, nisi eadem ipsa quae legitis, verbis vulgaribus iterarem? Tamen quia tantopere id deposcitis, amodo cum in sacris solemnitatibus convenitis, et vosmetipsos e cellulis venientes, tanquam de sepulcris erutos, in resurrectionis gaudium mutuo praesentatis, volo, si praecipitis, prout gratia divina dictaverit, aliquid vobis, juxta rusticitatis meae rudimenta conscribere, ut et ipse sancto conventui vestro deesse non videar, praeter illa quae legitis, saltem parum aliquid, velut agrestes herbas opulentis ferculis adhibere. Sic itaque vestris desideriis satisfiet, dum, quia mihi litterarum copia artificiosa non suppetit, ea quae tentavero scribere, a vivis modice videantur sermonibus discrepare. Sed unde ista congruentius incipere possumus, nisi a sancto Spiritu, cujus vos nuperrime et solemnia coluisse et sermonem ex officii nostri ministerio non audisse graviter suspirare videmus?

Et haec quidem non timide, sed fidenter aggredimur, quia, de quo loqui volumus, ab ipso concipimus ut loqui digne valeamus. 25

Si tratta di uomini il cui livello culturale e la conoscenza delle Scritture sono ai massimi livelli. Ritorna nuovamente il paragone tra la conoscenza divina e l’acqua, qui come torrente. Da questo passo risulta evidente anche il problema della dicotomia tra volgare e latino, se ne ricava una distinzione ormai netta tra le due lingue, sono gli stessi eremiti a chiedere a Pier Damiani di leggere l’omelia in lingua corrente. Egli, tuttavia, sceglie di mettere per iscritto il sermone per donarlo ai suoi eremiti e ci dà un’informazione fondamentale riguardo al principale problema della differenza tra la declamazione dei sermoni e la loro trascrizione, avvenuta con tutta probabilità negli ultimi anni di vita del santo. Una frase in particolare rientra nell’alveo della “metapredicazione”:

Sic itaque vestris desideriis satisfiet, dum, qui amichi litterarum copia artificiosa non supperit, ea quae temptavero scribere a vivis modice videantur sermonibus discrepare.26

25 Migne, PL 144, coll. 615B-619B; CCCM 57, pp. 129-133; Facchini - Saraceno, pp. 360-369.

La citazione è trata da coll.619D-620A.

26 Ibidem.

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA IN Studi storici (pagine 103-113)

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