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Questo capitolo di natura compilativa non ha l’ambizione di essere esaustiva di tutti i fenomeni in atto nelle questioni lavoristiche, nemmeno volendo prendere il punto di vista sociologico come quello dominante. Piuttosto si è cercato di raccogliere e commentare tutti quei contributi di studiosi italiani e non che in qualche misura hanno dato un contributo alla causa della comprensione del fenomeno delle trasformazioni del lavoro in Italia (e per riflesso nell’Unione Europea) tenendo sempre in considerazione la peculiarità che il lavoro autonomo porterebbe con sé.

In particolare il capitolo ha l’ambizione di mettere in evidenza la trasformazione del lavoro da “concessione del proprio tempo e della propria fatica”, ad “azione potenzialmente costruttrice di senso e di apprendimento di una professione”

(agency). Questo fattore viene accompagnato da delle riflessioni circa l’apprendimento non formale presente nei lavori non-standard e standard, nonché da una disamina sui percorsi di carriera, soprattutto per coloro che entrano in questi anni per la (prima) volta (le donne spesso rientrano dopo una o più gravidanze e aver educato i figli) nel mercato del lavoro. Si cerca inoltre di dare le prime chiavi di lettura del dibattito sulla flexicurity, ovvero sulle nuove teorie circa le politiche passive e attive del lavoro. Si cerca di dare una chiave di lettura dei fenomeni più ampi prendendo in prestito il concetto di frattura generazionale, di cui la questione della rappresentanza più che un appendice potrebbe essere considerata una questione chiave nel comprendere il complesso gioco di dare-avere e di inclusione-esclusione che si è venuta a creare nel nostro Paese a livello intergenerazionale. Anche le relative implicazioni a livello più generale di welfare vengono sommariamente toccate. Quest’ultime superano la misura degli start-up incentives in sé, che si colloca come rimedio incerto rispetto ai problemi lavoristici. In particolare si tornerà nei capitoli successivi per comprendere in termini valutativi le politiche per l’auto-impiego alla luce dei dati empirici secondari e primari e della letteratura presente nelle riviste scientifiche.

Di tutti questi argomenti si deve tenere in considerazione il fatto che ciascun aspetto può contribuire in qualche misura a comprendere meglio l’oggetto d’analisi – la valutazione di una politica per il lavoro a livello locale –, ma che essi costituiscono d’altro canto indicazioni supplementari rispetto alla struttura, all’ossatura della ricerca applicata che riguarda una proposta di valutazione di una politica pubblica. In altre parole la parte compilativa – oltre a svolgere la sua funzione tradizionale di supporto – potrebbe essere vista anche come elemento marginale per la migliore comprensione dell’oggetto.

La lettura dei seguenti paragrafi dovrebbe essere compendiata dai capitoli successici che in prevalenza riguardano analisi di dati secondari (Mingo, 2007; Pintaldi, 2003) riferiti al contorno dell’oggetto di analisi, come ad esempio sono i dati riguardanti la spesa pubblica per le politiche del lavoro a livello comunitario o i percorsi di carriera dei contribuenti alla Gestione Separata Inps.

2.1 Uno sguardo comparato sul lavoro indipendente in Europa

L’analisi del lavoro indipendente non è di facile lettura, e deve essere comunque letto in funzione dei dati di struttura del mercato del lavoro e delle relative politiche pubbliche (Ocse, 2007). A tal fine per fornire un primo quadro comparato si crede utile dare delle quote di indipendenti sul totale degli occupati, argomento sul quale già si è evidenziato pochi anni fa (Arun, Müller, 2005) quanto stia cambiando il lavoro indipendente: nonostante una costante crescita di forme temporanee di lavoro indipendente (si avrà modo di tornare con molti dettagli sul caso italiano al riguardo, sia teoricamente, compilativamente che empiricamente), la figura tradizionale della petty bourgesois diminuisce trasversalmente in molti Peasi, per quanto ogni contesto abbia un modello diverso di lavoro indipendente. Del lavoro indipendente temporaneo vale la pena qui accennare che esso ricopre – allorquando lo si svolga – un ruolo cruciale nel determinare la carriera di una persona, e che può essere sinonimo del non riuscire a trovare occupazione di altro tipo (Arun, Müller, 2005).

Da un punto di vista di dati empirici secondari, il lavoro autonomo, espresso come quota sul totale degli occupati, ha avuto un andamento di tendenziale lieve crescita nell’arco degli ultimi 10 anni in Europa, crescita da imputarsi soprattutto alle fasce di

età comprese dai 15 ai a 39 anni, piuttosto che fra i 40 e i 65, come si può leggere dall’andamento nell’area dell’Unione Europea a 27, a 25 e a 15 dove appunto la crescita del lavoro autonomo come quota dell’occupazione totale (dipendenti, autonomi e imprenditori) passa dal 6,6% del 1998 al 7,3% del 2007. Il lavoro autonomo, caratterizzato come noto da una significativa presenza di attività nel primario e di altre forme definibili come «artigianali», spesso comprende figure a bassa scolarizzazione. Infatti in linea di massima si può riscontrare una generale diminuzione di queste quote di lavoro autonomo all’aumentare del titolo di studio più alto conseguito.

Andando ad osservare alcuni singoli Paesi europei si nota che vi sono profonde differenze da Paese a Paese, imputabili ovviamente anche alle differenze giuridiche che in ogni contesto assume la particolare forma di lavoro definibile come self-employment (al netto quindi degli occupati definibili come employer, imprenditori). I valori più bassi si registrano in Germania, Francia e Svezia, dove il lavoro autonomo dei lavoratori under 40 si attesta sui 3-4 punti percentuali del totale dell’occupazione;

più o meno il doppio sono i valori relativi alle persone che hanno dai 40 ai 65 anni.

Invece in Germania, da un punto di vista dei trend, nell’arco di 10 anni si è avuta una leggera crescita; in Svezia e Francia una tendenza inversa, verso una leggera decrescita. Anche la Polonia, scelta fra i tanti Paesi dell’est di recente adesione all’Unione Europea, ha fatto registrare un calo del lavoro autonomo: però in questo caso le quote sono molto diverse perché passano dal 14,6% del 1998 al 10,7% per i

«giovani», e dal 20,8% del 1998 al 19,1% per la classe più matura di lavoratori.

Tav. 1 Percentuale di lavoratori indipendenti (tra parentesi i valori relativi dell’occupazione femminile) al netto degli imprenditori sul totale degli occupati per età e titolo di studio, serie storica, selezioni di Paesi Europei.

totale

2005 7,8 (5,7) 12,4 (9,0) 8,9 (5,9) 16,3 (12,1) 7,8 (5,5) 11,2 (7,6) 7,0 (5,9) 10,2 (8,2)

2002 9,2 (6,2) 12,8 (9,1) 10,3 (6,8) 14,5 (12,1) 7,7 (5,1) 9,8 (5,6) 11,7 (8,5) 14,2 (8,7) 2003 9,0 (6,1) 12,4 (8,7) 9,1 (5,8) 13,8 (11,3) 8,2 (5,4) 10,2 (5,8) 12,1 (9,0) 13,4 (8,6) 2004 16,1 (13,6) 19,2 (14,6) 14,4 (10,4) 22,1 (18,9) 14,2 (11,3) 15,7 (10,7) 27,8 (25,5) 18,9 (13,6) 2005 15,8 (13,2) 18,5 (14,0) 14,4 (10,0) 20,8 (17,3) 13,7 (10,9) 15,5 (10,9) 26,3 (24,3) 19,2 (14,3) 2006 16,0 (13,7) 17,8 (13,4) 14,8 (11,1) 19,8 (15,7) 13,8 (10,9) 15,2 (10,9) 26,0 (23,7) 18,7 (14,4) 2007 15,8 (13,6) 17,5 (12,9) 14,9 (11,5) 19,4 (15,1) 13,2 (10,3) 15,1 (10,8) 25,4 (23,4) 18,5 (13,5) 1998 14,6 (12,9) 20,8 (17,6) 24,6 (24,4) 40,9 (39,8) 14,8 (13,6) 16,9 (12,6) 3,7 (2,6) 7,7 (5,3) Fonte: Elaborazione propria su dati Eurostat, labour market survey

In Italia, Regno Unito e Spagna le quote di lavoro autonomo sono senza dubbio più alte rispetto a quelle degli altri Paesi più estesi, e comunque più bassi di molti altri Paesi dell’est in cui tale quota è tendenzialmente più alta. Nel Regno Unito le quote hanno teso a salire nell’ultimo decennio. Tuttavia qui il fatto peculiare è soprattutto che la quota di lavoro autonomo più alta non risiede fra i meno scolarizzati, quanto fra coloro che hanno fondamentalmente un titolo mediano, quello della scuola secondaria (quindi esclusi i titoli terziari). Anche in Spagna vi è una diminuzione dei tassi di lavoro autonomo, dovuti probabilmente anche alle quote di partenza piuttosto alte: il 10,5% del 1998 fino al 7,9% del 2007 e dal 19,7% al 14,5% rispettivamente

per i più giovani e i meno giovani. Sono tutte quote sempre nettamente più alte della media dell’Unione Europea a 15, ma comunque in fase di forte allineamento.

Osservando il caso italiano, tuttavia il dato più in controtendenza di tutti è il fatto che la generale tendenza a vedere nel lavoro autonomo persone a bassa scolarizzazione è totalmente invertita in Italia. Le persone con un titolo di studio primario con un’occupazione per conto proprio erano l’9,8% del totale nel 1998 fra coloro che avevano fra i 15 e i 39 anni e 16,2% fra coloro che avevano dai 40 ai 65 anni. Dopo dieci anni – con un trend che si noterà essere spezzato proprio fra il 2003 e il 2004 – tali quote raggiungono nel 2007 rispettivamente il 14,9% e il 19,4%. I valori per quanto riguarda le persone con un titolo di studio secondario invece è analogo come trend, ma con quote leggermente inferiori. Il fatto peculiare lo riscontriamo piuttosto fra lepersone con un titolo di studio terziaria, di tipo accademico. Per quanto riguarda l’Italia si nota una tendenza inversa. Per quanto già nel 1998 le quote fossero più alte di quelle dell’Unione Europea a 15, la tendenza non è stata quella di un generale allineamento, quanto di una crescita rispetto al resto degli altri Paesi. È evidente in questo caso che influisce molto il peso delle riforme del mercato del lavoro introdotte del Pacchetto Treu (e poi la cosiddetta Legge Biagi), che hanno avuto effetto proprio negli anni osservati. D’altronde se nel 2007 si nota una inversione di tendenza con un abbassamento delle quote del lavoro indipendente al netto degli imprenditori potrebbe essere proprio imputato agli effetti della cosiddetta legge Biagi che è andata a colpire la forma di lavoro parasubordinato come forma di impiego teoricamente indipendente «mascherata» da forma indipendente, cioè da auto-impiego. In ogni caso, tali quote di indipendenti con alto titolo di studio hanno fatto riflettere circa l’emergenza di nuove figure di indipendenti (Barbieri, 1999; Barbieri, Nadel, 2003;

Belassi, 2001). Cerchiamo di osservare meglio questo fatto particolare osservando adesso il solo caso italiano.

2.2 I numeri del lavoro indipendente in Italia

In questo breve paragrafo si intende fornire delle indicazioni di ordine soprattutto statistico circa il fenomeno del lavoro indipendente in Italia. A tal proposito si

prenderanno come anni da confrontare il 2000 e il 2007 al fine di analizzare anche l’evoluzione, per quanto in linea di massima. L’obiettivo principale del capitolo – ridotto al minimo per non appesantire una rassegna sulle dimensioni del lavoro indipendente su cui si tornerà più volte nel corso della ricerca – è fondamentalmente quello di far capire quanto è discriminante l’analisi delle singole modalità del lavoro indipendente, il quale può essere scarsamente compreso se ridotto semplicemente alla distinzione lavoro dipendente / lavoro indipendente. In particolare le condizioni di imprenditore e di libero professionista sono di fatto estremamente diverse da quelle di coadiuvante familiare, di prestatore d’opera occasionale o anche della stessa figura del parasubordinato (co.co.co. o co.co.pro. che sia). Questo ultimo oltretutto si configura come noto come un tertium genis (Ferraresi, Segre, 2004; Tosi, Lunardon, 2004) a cavallo fra dipendenza e indipendenza. Il lavoro autonomo rimane invece di per sé meno facilmente collocabile in un ideale continuum sociologico che polarizzi le occupazioni migliori da quelle peggiori7 all’interno degli occupati indipendenti.

In questa tipologia di analisi dei dati Istat non trova spazio l’analisi di altre fonti, come ad esempio quelle delle CCIAA relative al data base Movimprese per motivi di costruzione del dato già noti a coloro che si occupano dell’argomento (Reyneri, 2006b).

Pur essendo il paragrafo organizzato per tabelle standard si è cercato di evitare inutili sovrapposizioni con riferimenti più autorevoli e si è cercato di dare spazio a incroci di variabili che fossero utili per la comprensione dei fenomeni sociali che nel corso dei capitoli verranno affrontati da un punto di vista compilativo.

Pertanto a tal fine è opportuno iniziare a quantificare il numero di indipendenti in Italia. L’ocupazione indipendente nel corso di un lasso di tempo sufficientemente ampio come quello 2000-2007 è calato in termini percentuali rispetto al lavoro dipendente, ovvero quello standard. Tuttavia è necessario osservare bene quali figure compongono il complesso universo degli indipendenti per comprenderne la reale evoluzione in termini sociologici. Infatti osservando i valori percentuali di colonna rispetto alle forme occupazionali è facile accorgersi che il calo – in termini relativi, nella colonna dei valori assoluti si vede che il fenomeno del lavoro indipendente è

7 Lungi dal considerare migliori e peggiori dei giudizi di valore, qui si intende denotare le modalità dell’occupazione indipendente come in sé (o come proxy) portatrici di situazioni di forza o di debolezza nel mercato del lavoro, come si approfondirà in seguito.

tutto sommato cresciuto – degli indipendenti riguarda sostanzialmente i soci di cooperativa che sono crollati riducendosi in 7 anni a un sesto (-600%) di quanti erano del 2000. Meno forte ma pur sempre significativo è il calo dei coaudivanti familiari.

Chiaramente la lettura dell’insieme degli indipendenti sconta l’introduzione di nuove figure occupazionali come i co.co.co (e successivamente co.co.pro.) e i prestatori d’opera occasionali, su cui si avrà modo di tornare successivamente. In particolare per i parasubordinati, ai quali viene dedicato un capitolo in tema di flussi, è ragionevole supporre che nel lungo periodo vadano scomparendo a causa del relativo aumento del costo del lavoro di queste forme contrattuali: in questo modo infatti vengono meno i vantaggi per i datori di lavoro. Tale inversione di tendenza, su cui si tornerà oltre analizzando la Gestione Separata Inps, può essere considerato uno degli effetti netti nella L.30/2003 (Brunetta, 2007).

Tav. 2 Composizione delle posizioni indipendenti e totale dipendenti, anni 2000 e 2007, percentuali di colonna e variazioni in valori assoluti (migliaia)

2000 2007 Delta v.a. 2007-2000

Totale Donne Totale Donne Totale Donne

Indipendenti 28,2% 22,0% 26,1% 20,0% 106,192 121,499

Imprenditori 2,5% 1,4% 1,4% 0,7% -207,483 -44,951

Liberi professionisti 4,8% 3,2% 4,9% 3,4% 131,791 69,001

Lavoratori in proprio 15,7% 10,3% 15,7% 10,0% 334,087 116,13

Soci di cooperativa 1,3% 1,2% 0,2% 0,2% -225,582 -73,118

Coadiuvanti familiari 4,0% 5,9% 1,8% 2,6% -416,856 -219,052

Co.co.co 1,7% 2,4% 392,486 220,076

Prestatori d’opera

occasionali 0,4% 0,6% 97,75 53,413

Dipendenti 71,8% 78,0% 73,9% 80,0% 2035,87 1279,695

TOTALE 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 2142,062 1401,194

Fonte: Elaborazione propria su Forze di lavoro Istat, medie annue 2007 e 2000

Leggendo la tabella nell’ottica di genere ci si può accorgere che in generale le donne sono meno presenti, sia in termini relativi che assoluti, in quelle forme indipendenti che potrebbero essere definite “di maggior prestigio” come gli imprenditori e i liberi professionisti, mentre il discorso diviene più sfumato e meno facilmente definibile per quanto attiene i lavoratori in proprio, i quali rimangono stabili e crescono proporzionalmente alla crescita complessiva dell’occupazione femminile nel paese (più di 1,4 milione di lavoratrici in più dal 2000 al 2007, di cui poco più di 100mila nelle posizioni indipendenti). Le donne, rispetto al totale, sono anche più presenti

(sul totale per genere degli occupati) nella forma parasubordinata e nella prestazione d’opera occasionale. Come si vedrà più avanti questo fatto deve essere preso in considerazione per comprendere l’eventuale occupazione “formalmente indipendente” (dependent self-employment) di molte donne.

Di particolare interesse può essere la collocazione degli indipendenti per settore economico, variabile che può far comprendere meglio le reali attività svolte da queste occupate.

Tav. 3 Lavoratori indipendenti per settore di attività economica e totale dipendenti, totale e donne, valori percentuali di colonna, media FdL 2007

Indipendenti Imprenditori Liberi professionisti Lavoratori in proprio Soci di cooperativa Coadiuvanti familiari Co.co.co Prestatori occasionali Dipendenti Totale

Agricoltura 7,7 8,5 0,3 9,0 8,8 19,3 0,8 5,8 1,9 3,1 Fonte: Elaborazione propria su Forze di lavoro Istat, medie annue 2007 e 2000

Nel macrosettore dei servizi si nota che vi è una leggera prevalenza di indipendenti se si considerano le donne (81,4% contro l’80,2% dei dipendenti sul totale delle singole posizioni nelle professioni, vale a dire che su 100 indipendenti, 81,4 lavorano nei servizi; mentre su 100 dipendenti 80,2). Tale leggera prevalenza nell’occupazione terziaria per gli indipendenti si verifica anche nel totale della popolazione (donne e uomoni). Su 100 occupati dipendenti (maschi e femmine), solo 65,3 si collocano nei servizi, mentre su 100 occupati indipendenti (sempre sia maschi che femmine) 67,4 si collocano nei servizi. Infatti, come noto (Reyneri, 2005), l’occupazione femminile si concentra nei servizi.

In generale per donne e uomini si nota che la condizione di libero professionista denota l’afferenza al settore dei servizi alle imprese nel 58,7% dei casi; mentre il lavoro in proprio significa il più delle volte essere commercianti (30,8%):

considerazione analoga per i coaudiuvanti familiari (nel 34,7% si collocano nel commercio). La condizione di socio di cooperativa appare essere equilibrata rispetto ai settori economici; mentre la forma più recente della parasubordinazione in più della metà dei casi rientra o nei servizi alle imprese (una libera professione di serie B? Si cercherà di fornire più oltre delle evidenze empiriche) o nel settore dell’istruzione e della sanità (rispettivamente 27,4% e 24,0%). Infine anche per i prestatori d’opera occasionale la diffusione nei vari settori dell’economia italiana è tutto sommato analoga: costoro si collocano prevalentemente nell’istruzione e nella sanità (20,4%), nei servizi alla persona (20,2%) e nei servizi alle imprese (18,6%).

Volgendo lo sguardo nell’ottica di genere si nota che le donne libere professioniste sono nel 58,4% collocabili nei servizi alle imprese, quindi nello stesso ordine di grandezza del totale. L’unico valore discriminante è quello delle libere professioniste nell’istruzione e nella sanità, in cui la percentuale è del 22,2, a fronte del 14,9 del totale. Anche per quanto attiene il lavoro in proprio femminile il commercio è la moda, però è interessante notare che per quanto attiene i servizi alla persona le lavoratrici in proprio sono – fatte 100 – 18,3, mentre la stessa statistica riferita a donne e uomini fa scendere la quota a 7,6. Questa osservazione è interessante perché nel settore dei servizi alla persona, rispetto ad esempio ad altri settori, è più probabile riscontrare casi di redditi bassi dovuti alla malattia dei costi teorizzata da Baumol

(Paci, 2007). Per la parasubordinazione accade che le prime due modalità dei settori economici vengano confermati e siano superiori, a dimostrazione che la condizione femminile tende a incontrare forme occupazionali che con maggiori probabilità possono rientrare in condizioni di svantaggio. Analoghe le percentuali fra prestatori d’opera femminili e totali, anche se con una leggera condensazione per le donne verso le modalità più frequenti.

Come spesso si nota in molte analisi, il settore primario, l’agricoltura, viene scorporata dalle analisi. In questo caso infatti si nota che in linea di massima figure come i piccoli imprenditori, ma anche lavoratori in proprio, prestatori d’opera occasionale e soprattutto coaudiuvanti familiari sono sovrarappresentati proprio nell’agricoltura. Questi valori sono più accentuati fra le donne che fra il totale dei generi. Il primario, ma anche l’industria, sono di fatto settori molto particolari in cui peraltro i sussidi per il lavoro autonomo sono quasi del tutto assenti e dai quali non giunge quasi mai nessun lavoratore che intenda accedere a dei finanziamenti per mettersi in proprio o aprire un’attività (cfr. i capitoli che analizzano i dati primari).

In linea di massima quindi si può dire che le diverse forme dell’occupazione indipendente non si distribuiscono in modo uniforme rispetto ai diversi settori economici e che la condizione femminile sembra essere, in relazione al totale delle singole forme occupazionali indipendenti, più presente in quei settori in cui tale condizione può essere associata più facilmente a condizioni svantaggiate, come ad esempio la condizione di parasubordinazione nei servzi alle imprese che può facilmente celare una condizione di dependent-self employment o di lavoro a cottimo a media-bassa retribuzione, anche se non sempre a bassa qualifica. In altre parole è leggermente più facile trovare donne piuttosto che uomini che si trovino in condizioni di indipendenza formale ma di eteronomia di fatto (non poter decidere, ad esempio, gli orari del proprio lavoro)8 (Borghi, Rizza, 2006), anche se dietro a tali condizioni di assenza di diritti e tutele possono esservi persone con alti titoli di studio e motivate a svolgere una carriera che si appagante da un punto di vista della valorizzazione delle proprie competenze.

8 Tali argomentazioni verranno approfondite nei prossimi capitoli.

2.3 Il concetto di lavoro come agency

Il lavoro e il relativo dibattito è dominato da anni dalla flessibilità, che ne è diventato ormai un luogo comune, o meglio una ideologia con sostenitori e detrattori. Però di fatto il nuovo paradigma della flessibilità come ideologia si dimostra un costrutto cognitivo che presuppone e rende necessitante attraverso i suoi assunti connotativi le sue stesse ipotesi che lo vorrebbe dimostrare come concetto o fatto «oggettivo». Più interessante sembra essere l’accento che da più parti viene posto sul lavoro come agency (Borghi, Rizza, 2006; Farrell, 2006), cioè sul superamento della concezione del lavoro come mero effort al quale corrisponde un compenso pattuito, tipico della concezione economica del lavoro che decurta l’analisi delle implicazioni sociali che si vorrebbero lasciare a latere come aspetti, al più, secondari. Il dibattito sulle rappresentazioni delle trasformazioni del lavoro contemporaneo viene visto infatti come una progressiva erosione del lavoro standard che però non diventa lavoro connotabile come il suo diametralmente opposto, ovvero caratterizzato da libertà operativa e da un certo potere contrattuale. Comunque, aprendo la scatola della flessibilità nel lavoro, si possono fare delle distinzioni utili che sono presenti ad esempio in Salama (Farrell, 2006). Essa può essere scissa fra numerica e funzionale, dove la prima riguarda più da vicino le norme e l’esercizio della regolazione del lavoro in quanto a divisione delle mansioni, orari e formule contrattuali in genere; la seconda invece riguarda la qualità del lavoro espresso e i margini di adattabilità che i lavoratori riescono e sono disposti a imprimere in modo volontario. Altre utili distinzioni, anche più dettagliate, si possono trovare sia a livello manualistico

Il lavoro e il relativo dibattito è dominato da anni dalla flessibilità, che ne è diventato ormai un luogo comune, o meglio una ideologia con sostenitori e detrattori. Però di fatto il nuovo paradigma della flessibilità come ideologia si dimostra un costrutto cognitivo che presuppone e rende necessitante attraverso i suoi assunti connotativi le sue stesse ipotesi che lo vorrebbe dimostrare come concetto o fatto «oggettivo». Più interessante sembra essere l’accento che da più parti viene posto sul lavoro come agency (Borghi, Rizza, 2006; Farrell, 2006), cioè sul superamento della concezione del lavoro come mero effort al quale corrisponde un compenso pattuito, tipico della concezione economica del lavoro che decurta l’analisi delle implicazioni sociali che si vorrebbero lasciare a latere come aspetti, al più, secondari. Il dibattito sulle rappresentazioni delle trasformazioni del lavoro contemporaneo viene visto infatti come una progressiva erosione del lavoro standard che però non diventa lavoro connotabile come il suo diametralmente opposto, ovvero caratterizzato da libertà operativa e da un certo potere contrattuale. Comunque, aprendo la scatola della flessibilità nel lavoro, si possono fare delle distinzioni utili che sono presenti ad esempio in Salama (Farrell, 2006). Essa può essere scissa fra numerica e funzionale, dove la prima riguarda più da vicino le norme e l’esercizio della regolazione del lavoro in quanto a divisione delle mansioni, orari e formule contrattuali in genere; la seconda invece riguarda la qualità del lavoro espresso e i margini di adattabilità che i lavoratori riescono e sono disposti a imprimere in modo volontario. Altre utili distinzioni, anche più dettagliate, si possono trovare sia a livello manualistico