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1 La Sharing Economy

1.6 L’importanza delle regolamentazioni nella Sharing Economy

Prima di introdurre il problema legato alle regolamentazioni è opportuno un focus su quali servizi queste piattaforme vendono, tentando di classificare una nuova tipologia di beni.

Erickson e Sørensen (2016) furono tra i primi studiosi a tentar di distinguere tra le tipologie di beni venduti nella Sharing Economy. Secondo i due, uno dei più grandi problemi per la regolamentazione è dato dal fatto che i cittadini e gli stessi regolatori confondano gli “Sharing Economy-goods” con beni pubblici classici. I beni pubblici sono per definizione beni con alta domanda e non escludibili, condivisi tra gli utilizzatori di default. Gli Sharing Economy-goods, invece, sono usati da molti ma sono escludibili, rendendoli simili a quelli definiti dalla letteratura come “club goods”.

Inoltre, questa nuova tipologia di beni risulta accessibile solo a coloro in grado di sostenere economicamente una spesa per il loro utilizzo, non all’intera comunità.

Gli stessi Erickson e Sørensen definirono, in base ai cambiamenti sociali e economici che la nascita di questa nuova categoria di beni comporta, quattro problemi di cui i regolatori devono tenere in conto:

1. Condizioni Lavorative: i platform-operators e la letteratura (Schor, 2015; Rogers, 2016) non definiscono i partecipanti alla piattaforma come dipendenti ma come “micro-imprenditori”

in quanto liberi di partecipare o di ritirare la propria offerta di collaborazione in qualsiasi momento, senza alcun vincolo contrattuale.

Cherry (2016) contestò questa definizione analizzando la precaria situazione del sistema economico attuale, definendo le attività di Sharing Economy come un possibile sostituto del lavoro per molti partecipanti, i quali, dalle stesse piattaforme possono trarre la maggior parte dei propri introiti.

Per Munkøe la posizione del provider di servizi nella Sharing Economy deve essere considerata come quella di un’impresa, non semplicemente come un singolo individuo.

Una regolamentazione per De Stefano (2016) è auspicabile per proteggere i diritti e il benessere di quelli che vengono definiti gig-workers.

Infatti, nella Sharing economy si assiste a uno spostamento pressochè unilaterale del rischio verso il “dipendente”, l’utente partecipante alla piattaforma, il quale è esposto a maggiori problemi, benefici ridotti e minor sicurezza di un posto lavorativo e reddito continuativo.

2. Fiducia: come ampiamente sottolineato nel presente lavoro, la fiducia tra i partecipanti è centrale per il corretto funzionamento della Sharing Economy.

I meccanismi di rating, sharing e descrizioni nascono per sopprimere alla mancanza di

20 informazioni che gli utenti nella Sharing Economy non hanno rispetto a quanto accade nei mercati tradizionali. Inoltre, risultano opportuni per colmare la mancata possibilità di osservare il bene o l’interlocutore, come spesso la clientela è abituata.

Tuttavia, questi meccanismi, il cui funzionamento è spesso sconosciuto all’utente finale, possono essere manipolati, corrotti dalle piattaforme o da utenti disonesti in cerca di vendite addizionali.

Anche assumendo che questi sistemi possano essere privi di manipolazione da parte di soggetti interessati, la rimozione di soggetti tradizionali dalle transazioni sposta il rischio interamente a carico dei partecipanti della piattaforma, liberando quest’ultima da problemi invece presenti ed a carico imprese capitalistiche.

3. Responsabilità: contrariamente a quanto capita per le imprese tradizionali, in quelle della Sharing Economy sono gli utenti a dover sopperire alle spese legate all’attrezzatura lavorativa e all’assicurazione.

Per alcune piattaforme, addirittura, non è richiesto un controllo della fedina penale o controlli successivi a quello sostenuto al momento dell’iscrizione per permessi, assicurazione e qualifiche.

In termini di responsabilità Leiren e Aarhaug (2016) si focalizzano inoltre nel loro articolo sulle implicazioni che questo sistema economico alternativo ha su persone affette da disturbi, mentali o motori.

4. Problemi di Agenzia: esistono importanti problemi di asimmetria informativa all’interno delle piattaforme.

Questi si verificano tra coloro presenti nella piattaforma nel ruolo di offerenti di un servizio, i quali possiedono informazioni limitate sulla loro possibile clientela, ma anche tra gli utilizzatori e i platform-operators stessi.

Le piattaforme inoltre, pongono tetti minimi e massimi ai prezzi offerti, li suggeriscono e talvolta alterano, con i partecipanti che spesso non hanno alcuna possibilità di scelta se vogliono continuare a offrire il servizio. Questa condizione è resa ancor più complessa dalla presenza di economie di rete e assenza di concorrenza tra servizi, obbligando gli utenti a suddette condizioni sfavorevoli.

Altro parametro sul quale la letteratura concorda come limite per la regolamentazione delle Sharing Economy è la disomogeneità tra norme e controlli applicati nei diversi Paesi (Codagnone e Biagi, 2016). Le policy locali differenti fanno in modo che le imprese operanti nella Sharing Economy si comportino in maniera diversa a seconda dello Stato in cui si trovano.

21 Gli Stati stessi, a loro volta, possono decidere di avere comportamenti ostruzionistici o abbracciare il fenomeno, talvolta grazie ad accordi con le stesse società. Non sono rari i casi nei quali queste si impegnano a condividere parte dei profitti, pagare tasse create ad-hoc o fornire l’accesso ai dati raccolti sul territorio, al fine di studiare i comportamenti dei residenti locali.

Alcune aziende operanti nella Sharing Economy di conseguenza si ritrovano ad avere business model multipli a seconda delle norme vigenti nei determinati Stati, al fine di evitare, o rimandare il più possibile nel tempo, problemi legali con il legislatore o con le rispettive categorie operanti nei settori tradizionali.

Altre società, invece, adottano una strategia aggressiva e omogenea su tutti i mercati, approfittando della mancanza di una legislazione per affermarsi sul territorio e creare una client-base.

Esempio chiaro di questo ultimo caso è Uber, applicazione che offre servizi di trasporto punto-punto su territorio cittadino. Il segmento di mercato occupato è similare a quello che nell’economia tradizionale è coperto dai taxi, con i guidatori che nel caso di Uber utilizzano mezzi propri, non sono professionisti, e soprattutto non posseggono alcuna licenza. L’accusa che viene mossa ad Uber è quella di concorrenza sleale, di muoversi in un settore come quello dei trasporti senza le autorizzazioni necessarie e i costi affondati che i taxisti devono sostenere, riuscendo quindi a garantire prezzi minori al consumatore finale.

Molti economisti ritengono che questo tipo di strategia abbia come fine ultimo la quotazione in borsa dell’azienda, con conseguente ricavo da parte dei propri investitori, prima dell’avvento delle legislazioni. Nel caso specifico di Uber l’impresa è stata quotata nonostante fortemente indebitata grazie al nome del brand oramai riconosciuto e al fatto che il mercato dell’automobile è ancora più di altri propenso, visti i costi ingenti, alla Sharing Economy. In seguito alla quotazione, però la compagnia ha perso miliardi di dollari quando i diversi tribunali hanno obbligato Uber a classificare i driver come propri dipendenti, con i vincoli contrattuali che ne derivano.

In base ai cinque parametri sopra riportati nel 2016 la Commissione Europea ha presentato una guida a sostegno di consumatori, imprese e autorità pubbliche riguardo la Sharing Economy.

Questo documento, definito “A European agenda for the collaborative economy” fornisce le linee guida su come su suolo Europeo dovrebbero operare le imprese, favorendone lo sviluppo ma al tempo stesso, regolandone l’andamento sul mercato. I punti chiave sono:

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• Rendere omogenee le regolamentazioni su territorio Europeo: l’obiettivo è quello di rendere per le imprese più semplice l’ingresso in 28 Paesi aderenti, evitando casi come UBER, accettato in Inghilterra ma bloccato in seguito alle proteste in altri Paesi Europei, come per esempio l’Italia;

• Minimizzare i divieti a servizi come Airbnb: Bruxelles con questa guida critica apertamente misure adottate in diverse città europee, che vietano ai cittadini di offrire su Airbnb l’intero appartamento senza previa autorizzazione comunale;

• Giorni limitati agli affitti delle case: vengono limitati il numero di giorni in cui una casa può essere affittata su servizi come Airbnb o simili. Queste restrizioni, necessarie per l’aumento esponenziale del successo della piattaforma, servono a tutelare i contratti di affitto a lungo termine;

• I driver di UBER sono dipendenti: riprendendo quanto di cui sopra, uno dei primi enti ad emanare a favore della classificazione come dipendenti dei driver di UBER fu la Commissione Europea. I guidatori della flotta UBER devono firmare un contratto, con conseguente aumento dei costi per l’azienda, scoraggiando la concorrenza sleale e allineando i prezzi a quelli dei taxi tradizionali;

È giusto però precisare come, seppur la guida esista, i Paesi sono ancora piuttosto diversificati tra loro riguardo l’approccio alle Sharing Economy per via dell’evoluzione delle aziende stesse e della diversa mentalità di Paesi verso un’impresa piuttosto che l’altra.

Per quanto concerne l’Italia, nel Marzo 2016 alla Camera dei Deputati è stata presentata una proposta di legge avente lo scopo di regolare le attività della Sharing Economy. L’idea di base della proposta è quella di “condividere beni e servizi, ma in alcuni casi, deve diventare un vero business, il quale ha bisogno di essere regolamentato al fine di tutelare gli altri settori presenti in quel mercato”.

Fondamentale per questa proposta è l’articolo nel quale viene spiegato come un introito inferiore a diecimila euro può essere classificato come “provento non professionale derivante dalla Sharing Economy” avente una tassazione del 10%, mentre, oltre a questa cifra sarà necessaria la partita IVA come tutti i liberi professionisti, con conseguente tassazione associata.

Concludendo, nonostante secondo Schor (2014) “La nuova Sharing Economy è in maggior parte basata su evadere le regolamentazioni, infrangere la legge e assoggettare i consumatori a sub-standard, con prodotti potenzialmente non sicuri”.

23 In realtà, posizionare il fenomeno della Sharing Economy in un contesto legale seppur sia difficoltoso per via della diversità, eterogeneità e propensione al cambiamento delle aziende operanti nel settore, può portare alla generazione di welfare collettivo.

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