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All’impresa familiare, secondo quanto sancisce espressamente l’art. 230 bis c.c., si può partecipare non soltanto svolgendo un lavoro nei locali dell’impresa o un’attività propriamente diretta allo scambio e alla produzione di beni o servizi, ma anche collaborando, con un lavoro domestico, all’andamento della famiglia.

La duplice dizione della norma “attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa” ha dato luogo, in dottrina, ad una dicotomia piuttosto che ad una prospettiva unificante.

Si è parlato di “carattere anfibiologico” del termine “impresa”, ora inteso come attività economica organizzata -nel nostro caso, attività del gruppo familiare-, ora come organizzazione di uomini e beni oggettivantesi nella cosiddetta azienda domestica. Il legislatore, infatti, ha voluto introdurre, anche se con un certo grado di atecnicità, un concetto nuovo che riuscisse ad unificare in un’unica prospettiva di valutazione di redditività tanto gli operatori domestici quanto quelli economici veri e propri. Del resto, lo stesso R. Franceschelli33 osserva “come la distinzione concettuale fra lavoro casalingo e lavoro prestato fuori casa rappresenti una costante nel e del nuovo diritto di famiglia”: basta pensare agli artt. 143 e 148 c.c. nel loro testo novellato, dove, rispettivamente, il dovere di contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia e l’obbligo di mantenimento dei genitori verso la prole sono commisurati “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo ”.

Per l’identificazione del lavoro nell’impresa, come già sostenuto, l’art. 230 bis c.c.

ipotizza una collaborazione e non una cogestione: se i familiari gestiscono in comune l’impresa ci si trova di fronte ad una società e non alla nuova figura imprenditoriale in esame.

30 Tra gli altri C.A. GRAZIANI, P. MAGNO, A. e M. FINOCCHIARO e G. TAMBURRINO, opp. citt..

31 V. PANUCCIO, op. cit., pag. 15, 61, 67.

32 G.OPPO, op. cit., pag. 497-498.

33 R. FRANCESCHELLI, “Much ado about nothing” in tema di impresa familiare, in Diritto di Famiglia e delle Persone, Studi in onore di R. Nicolò, Mi, 1982, pag. 465.

Quanto all’altra possibile forma di partecipazione, già all’indomani dell’entrata in vigore della l. 151, la dottrina, restia a prendere atto del sorprendente salto in senso egualitario compiuto, ha cominciato ad interrogarsi sul significato da attribuire ad ogni termine utilizzato dalla norma per definire il lavoro che rileva ai fini della disciplina dell’impresa familiare.

Diverse sono state le strade percorse dagli interpreti per fornire un’interpretazione comunque restrittiva della previsione, sino alla denuncia di incostituzionalità per una presunta discriminazione fra il lavoro prestato nella casa dell’imprenditore e quello prestato nella casa del professionista o dell’impiegato.

Prima di procedere all’esame di questa questione che ha coinvolto un vasto panorama giurisprudenziale e dottrinale, ci si è chiesti di quale fenomeno si tratti, del suo contenuto. Soccorre, a questo riguardo, la definizione che M. Persiani34 ha elaborato di

“lavoro prestato nella famiglia”, da intendersi come lavoro domestico, ovvero come prestazione dei servizi inerenti al governo di una casa e ai bisogni personali di coloro che vi abitano. Della stessa opinione è G. Oppo35 che riconosce nel “lavoro nella famiglia” non solo quello domestico, bensì anche quello prestato nell’organizzazione patrimoniale e personale della famiglia; si critica36 comunque la tesi che intende lavoro domestico l’attività gestionale vera e propria sulla base che, assegnata natura individuale all’impresa familiare, questa non sarebbe mai configurabile in concreto.

La dottrina maggioritaria ha interpretato la previsione di cui al comma 1 dell’art. 230 bis c.c. come un ‘ulteriore conferma del processo di valorizzazione morale, patrimoniale e giuridica del lavoro domestico (generalmente della donna), in conformità ai principi di parità e uguaglianza tra i coniugi, cui è ispirata la riforma del diritto di famiglia.

Se, infatti, un importante indice di tale evoluzione è rappresentato dal riconoscimento della collaborazione domestica nel quadro degli usi formatisi in tema di comunione tacita familiare agricola, un ancor più significativo referente normativo al riguardo è costituito dalla legge sul divorzio, che prevede quale criterio per la determinazione dell’assegno periodico, cui uno dei coniugi è obbligato nei confronti dell’altro, “il contributo personale…dato da ciascuno alla conduzione familiare”. Ma il superamento di una millenaria tradizione tesa a limitare drasticamente il valore del lavoro casalingo è avvenuto grazie al riformatore del ’75, sia sul piano dei rapporti personali, secondo quanto sancito dall’art. 143 c.c. (in relazione all’art. 147 c.c.), di cui si è già parlato, sia sotto il profilo più strettamente economico, con l’adozione della comunione quale regime patrimoniale legale che garantisce una sorta di remunerazione per il coniuge che si occupi del ménage familiare.

La prima forma di tutela che il legislatore ha ritenuto opportuno garantire, una volta caduta la presunzione di gratuità del lavoro familiare, è quella del lavoro domestico svolto da parte del familiare convivente per mero spirito di attaccamento alla famiglia e al di fuori di qualsiasi motivazione lucrativa individuale37.

L’equiparazione del lavoro svolto nell’ambito familiare a quello svolto nell’impresa deve essere posta in relazione all’art. 35, I comma Cost. secondo cui “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (…)”: alla luce dell’ampia formula costituzionale nessun dubbio può, infatti, sussistere circa la meritevolezza della sua protezione. L’impresa e la famiglia sono viste come un’unica comunità dove tutti cooperano al benessere comune, pur svolgendo mansioni diverse.

34 M. PERSIANI, Voce Lavoro domestico, in Enciclopedia del Diritto, XIII , Mi, 1964, pag. 827.

35 G. OPPO, op. cit., pag. 67.

36 P.M. PUTTI, Spunti sulla natura dell’impresa familiare, in Giurisprudenza Italiana, 1990, I , 2 , 697.

37 R . FRANCESCHELLI, v. nota 33.

Del resto la stessa C. Costituzionale38 ha puntualmente colto la valenza sistematica del nuovo istituto, affermando (per ritenere inaccettabile l’interpretazione che restringe i destinatari dell’impresa familiare, ai fini del ricongiungimento familiare, ai soli immigrati extracomunitari titolari di lavoro subordinato, escludendo chi svolga lavoro familiare) che l’art. 230 bis c.c., apportando una specifica garanzia al familiare che presta in modo continuativo la sua attività lavorativa nell’ambito della famiglia o dell’impresa familiare, “mostra di considerare in linea di principio il lavoro prestato nella famiglia alla stessa stregua di quello prestato nell’impresa”.

Nella previsione normativa due ipotesi sembrano poter rientrare nel “lavoro prestato nell’ambito della famiglia”: quella del familiare che lavora in parte nella famiglia e in parte nell’impresa, e quella di colui che collabora esclusivamente nella famiglia, mentre gli altri operano nell’impresa.

In ordine al carattere di quest’ultima collaborazione, prestata in modo totalitario in ambito domestico, e configurata, appunto, in alternativa a quella nell’impresa, si sono manifestati due indirizzi in dottrina e la giurisprudenza sia di merito che di legittimità è stata interessata da una evoluzione. Il quesito riguarda lo svolgimento in via esclusiva di mansioni domestiche da parte del familiare, e se esso possa ritenersi titolo sufficiente alla partecipazione all’impresa familiare.

È opportuno evidenziare come le diverse posizioni assunte sul tema finiscano col riflettere la diversità di opinioni espresse riguardo una questione di fondo, quella della natura giuridica dell’impresa familiare, che sappiamo stringersi sostanzialmente, in via di prima approssimazione, intorno a due raggruppamenti: così, alla tesi secondo cui si tratterebbe di un modello organizzativo puramente interno corrisponde una concezione del lavoro nella famiglia come attività che incida effettivamente sulla produttività dell’impresa, costituendo un apporto ulteriore rispetto al mero adempimento dei doveri coniugali ex artt. 143 e 147 c.c.; per la tesi, invece, che vi riconosce una struttura plurisoggettiva a rilevanza esterna varrebbe l’interpretazione più ampia. A quest’ultimo orientamento, più liberale, ha aderito la grande maggioranza degli autori nel primo approccio con la norma, adottando la definizione di lavoro elaborata da M. Persiani (v.

nota 34): si è pensato che la legge abbia voluto porre sullo stesso piano il lavoro prestato nell’azienda e nella casa dell’imprenditore, e si è giustificata questa equiparazione sulla base di una presunta “impossibilità di distinguere nelle imprese familiari tra famiglia e impresa, data la profonda compenetrazione che nella realtà sussiste fra casa e bottega, fra azienda domestica e impresa produttiva”39.

Lavoro nella famiglia inteso, quindi, come lavoro domestico tout court40. “Lavoro nella famiglia (…) non può intendersi in senso restrittivo neanche funzionalizzandolo all’interesse dell’impresa, perché il primo libera sempre forze di lavoro a beneficio della seconda”41; “l’art. 230 bis c.c. equipara al lavoro prestato dal familiare nell’impresa l’attività nella famiglia, intendendo con ciò riferirsi a quello comunemente chiamato

“casalingo”(…)”; “é per l’influenza decisa che il lavoro in casa di uno dei genitori ha sull’unità e la vita della famiglia, soprattutto nella formazione dei giovani, che la legge

38 C. Costituzionale, 28/95.

39 Così, testualmente, R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di fami glia, in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, Mi, 1976, pag. 66.

40 A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. pag. 701ss.

41 G. OPPO, Famiglia e impresa, in La riforma del diritto di famiglia 10 anni dopo, op. cit., pag. 147.

ha dato notevole risalto al lavoro casalingo, anche con un adeguato riconoscimento economico”42.

Ma gli autori che hanno preso specifica posizione in argomento condividono, in prevalenza, la soluzione più restrittiva: “il lavoro casalingo può costituire titolo di partecipazione per il coniuge solo a condizione di arrecare beneficio all’impresa, cioè nel caso si traduca in servizi direttamente o indirettamente sfruttabili da quest’ultima”

(ad es. il coniuge si impegna nell’attività domestica oltre quanto ha il dovere di compiere nei riguardi della propria famiglia, al precipuo scopo che altri familiari dedichino le loro energie esclusivamente all’impresa)43. In questo senso V. Colussi44, il quale, in nota ad una sentenza, esclude si possa prendere in considerazione il semplice lavoro domestico, ma non condivide neppure l’opinione secondo cui esso acquisti rilevanza per il fatto che la sua prestazione permetta ad altro membro del nucleo (il titolare) di dedicarsi totalmente all’impresa, ritenendo assurdo che una prestazione di lavoro sia diversamente qualificabile (e soggetta a diversa disciplina) a seconda di ciò che faccia un terzo: conseguirebbe, secondo questa prospettazione, che soltanto un lavoro, sia pure domestico, comunque attinente allo svolgimento dell’impresa (si pensi, in agricoltura, all’allevamento degli animali da cortile), può rientrare nelle previsioni dell’articolo de quo.

Deve quindi sussistere una connessione, sia pure indiretta, ma precisa e sicura, fra la prestazione nella famiglia e l’attività d’impresa: la partecipazione della casalinga all’impresa familiare deve mirare non solo a soddisfare le esigenze domestiche e personali dei componenti il nucleo, ma anche essere, in qualche modo, essenziale ai fini dello svolgimento dell’attività imprenditoriale, sulla base dell’organizzazione e della divisione dei compiti che i coniugi si sono data. L’ulteriore requisito della funzionalità del lavoro domestico, in aggiunta a quello produttivo, servirebbe ad equiparare, fra l’altro, le due sedes materiae, la famiglia e l’impresa, di fronte ad un dettato letterale (“lavoro nell’impresa o nell’ambito della famiglia”) disgiuntivo.

Non può trattarsi, pertanto, del lavoro domestico prestato in ottemperanza ad un obbligo giuridico familiare, come quello che grava ex art. 143, comma 3 c.c., bensì di un lavoro eseguito in forza di un’autonoma scelta che comporti, da un lato, il sacrificio di altre possibilità di impiego e che, dall’altro, abbia capacità di arricchimento.

V. Colussi45 ha osservato che si tratta di situazioni che hanno maggior probabilità di verificarsi nelle imprese agricole, piuttosto che in quelle aventi altro oggetto: è chiara l’origine agraria della norma, avendo il legislatore operato in vista soprattutto della situazione delle campagne, in seguito alle pressioni esercitate dalle organizzazioni sindacali agricole.

I motivi che sostengono la soluzione più restrittiva sulla valenza del lavoro nella famiglia ai fini dell’art. 230 bis c.c. possono essere così sintetizzati: presupponendo che l’imprenditore può anche rifiutare la partecipazione del familiare alla fattispecie, che avviene in forza di comportamenti volontari e consapevoli, se il lavoro casalingo della moglie costituisse di per sé solo titolo sufficiente, non vi sarebbe possibilità per costui

42 F. SANTOSUOSSO, Dell’impresa familiare, in Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al codice civile, To, Utet, 1983, pag. 390.

43 M. TANZI, L’impresa familiare e le “meditazioni” di un pretore, in nota a Pret. Santhià, 14 luglio 1986, in Giurisprudenza Italiana, 1987, I , 518. Così anche A. BELLELLI, I soggetti dell’impresa familiare, in Nuovo Diritto Agrario, 1977, I , pag. 165; C. GIULIANO, Il lavoro domestico nell’impresa familiare, in Vita Notarile, 1992, 5-6, pag. 1066ss.

44 V. COLUSSI, in nota a Pret. Santhià, cit., pag.241.

45 V. COLUSSI, Voce Impresa familiare, in Digesto Disciplina Privatistiche, sez. comm., VII , To, Utet, 1992, pag. 178.

di impedire la collaborazione di quella, perché dovrebbe inibire l’adempimento dell’obbligo legale di solidarietà e contribuzione ex artt. 143 e 148 c.c.; inoltre, ammettendo il contrario, si incorrerebbe nella violazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2 Cost.) per la disparità di trattamento che si verrebbe a creare fra il coniuge di un imprenditore e quello di chi svolga altra attività lavorativa, per il quale, a parità di mansioni svolte nell’ambito familiare, non vi sarebbe riconoscimento legislativo; infine, il lavoro casalingo nell’impresa familiare si traduce in una quota di partecipazione agli utili e agli incrementi dell’azienda, e tale quota non può che essere determinata in relazione all’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dall’apporto dei partecipanti, che, se limitato all’adempimento dell’obbligo contributivo nascente dal matrimonio, sarebbe nullo46.

Di mediazione è quanto affermato dalle Sezioni Unite della C. Cassazione47 che lasciano spazio ad un accordo fra i coniugi, che presieda al comportamento fattuale di uno di essi, riconoscendo l’utilità del mero lavoro casalingo: l’imprenditore potrebbe difatti prevedere la partecipazione alla sua impresa da parte del coniuge che svolga esclusivamente attività per la famiglia, determinando convenzionalmente la misura della quota stessa.

A proposito di quest’ultimo aspetto, ovvero quello della quota di partecipazione del collaboratore nella sola famiglia, sono sorti contrasti dovuti, fra l’altro, all’ampia e imprecisa formulazione legislativa che si riferisce letteralmente ai soli “familiari che partecipano all’impresa”, non anche alla famiglia. In generale, unanime è il riconoscimento del diritto al mantenimento a favore del prestatore d’opera sia nell’impresa che nella famiglia, ma lo steso non vale per la quota degli utili e degli incrementi (proporzionati alla quantità e qualità del lavoro svolto) e per il diritto al voto.

Parte della dottrina48 ridimensiona drasticamente i diritti spettanti a coloro che collaborano nella famiglia, riducendoli, appunto, al solo mantenimento ed escludendo la partecipazione in senso stretto, sulla base di elementi testuali (la lettera della legge non lo prevederebbe) e logico-equitativi (assurdo sarebbe, ad es., che la vecchia nonna avesse potere di intervento gestionale nell’impresa).

Nell’ambito della dottrina maggioritaria49, secondo un’interpretazione più conforme al dettato della norma, e col conforto della giurisprudenza50, si ammette il riconoscimento anche dei diritti di partecipazione, ma sono ravvisabili almeno due orientamenti, corrispondenti a quelli sorti in tema di natura giuridica dell’impresa familiare. Un primo, che ricostruisce l’istituto in termini di impresa collettiva, sia esso un nuovo tipo o una società di fatto, atipica, sui generis, legale o affine alla società in accomandita semplice, giustifica l’attribuzione del diritto agli utili, ai beni e agli incrementi con l’assunto che il reddito prodotto è, in ogni caso, il reddito dell’impresa collettivamente esercitata; diversamente, da parte di altri, trattandosi di impresa individuale alla quale i familiari sono legati da un rapporto di lavoro, seppur associativo o affine

46 A. GIUSTI, op. cit., pag. 285.

47 C. Cassazione, S.U., 4 gennaio 1995, n. 89, in Famiglia e Diritto, 1995, 6, pag. 674ss.

48 A. NIGRO, Riflessioni sull’impresa familiare, in Giurisprudenza Commerciale, 1977, I , pag. 724. Così anche G. TAMBURRINO, op. cit., pag. 231ss; V. DE PAOLA - A. MACRì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Mi, 1978, pag. 302.

49 R. COSTI, op. cit., pag. 65. Così anche M. DAVANZO, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Pd, 1981, pag. 74; V. PANUCCIO, op. cit., pag.807; F. MATTIUZZO, A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, op. cit., pag. 44; S. PATTI, op. cit., pag. 21.

50 C. Cassazione, 19 febbraio 1997, n. 1525, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 2000, I , pag. 21 con nota di SPAGNOLI. Da ultimo, C. Cassazione, sez. lav., 3 novembre 1998, n. 11007, in Massimario Giurisprudenza , 1998.

all’associazione in partecipazione, il lavoro domestico, necessario e strumentalmente collegato a quello strictu sensu imprenditoriale, deve essere remunerato.

In questo stesso filone interpretativo si colloca un’interessante soluzione intermedia, proposta di recente51, secondo la quale l’art. 230 bis c.c. attribuisce al collaboratore familiare una serie di situazioni giuridiche attive, con conseguenti poteri, che è in facoltà del singolo, purché titolare dello status familiae e di una prestazione d’opera continuativa, di invocare. In altri termini, la norma prevederebbe una serie astratta di diritti che spetterebbe al singolo, a sua discrezione, far valere.

Di molto ausilio, in senso chiarificatore, è l’evoluzione, nell’ultimo decennio, della giurisprudenza di legittimità, e, a partire dagli anni Ottanta, di quella di merito.

La questione della rilevanza esclusiva dello svolgimento di mansioni in ambito domestico da parte del coniuge è stata oggetto di due successive ed opposte decisioni della Sezione lavoro della Suprema Corte: con una prima52, il collegio ha affermato che si può configurare un’impresa familiare quando, in presenza di attività imprenditoriale, uno dei coniugi presti in modo continuativo la sua collaborazione nella famiglia o nell’impresa; in tale contesto “le prestazioni erogate da uno dei partecipanti per soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia hanno specifico rilievo come adempimento di obbligazioni attinenti all’impresa, in una sorta di divisione del lavoro o distribuzione dei compiti.” È apparso perciò irrilevante il fatto che alcune di tali attività formino oggetto di uno degli obblighi/doveri imposti dagli articoli 143 e 147 c.c. ai coniugi.

Con una successiva pronuncia del medesimo anno53 la Corte si è espressa in senso opposto, affermando che per l’istituto in esame non è sufficiente l’adempimento dei doveri istituzionali connessi al matrimonio, in quanto esiste un rapporto di lavoro familiare se si avvantaggia concretamente il familiare imprenditore e la collaborazione non si limita a quella generica domestica.

Il contrasto è stato composto dalla Sezioni Unite54, con la statuizione che la collaborazione nella famiglia prevista dall’art. 230 bis c.c. si riscontra non nel caso di mero adempimento degli obblighi coniugali, ma quando “sebbene diretta in via immediata a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione d’impresa, in quanto funzionale ed essenziale all’attuazione dei fini propri di produzione o di scambio di beni o servizi”. Il criterio per la partecipazione del coniuge casalingo all’impresa familiare trova, perciò, fondamento in una prestazione aziendale che, pur non richiedendo un’attività continuativa nell’impresa, consiste in prestazioni saltuarie di carattere complementare, ma di un certo valore. In altre parole, un apporto di lavoro che determini un aumento della produttività aziendale come compromesso tra la tutela giuridica ed economica del lavoro domestico e la necessità di garantire l’efficienza di un’organizzazione di tipo imprenditoriale.

A sostegno di questa decisione il collegio ha ripreso le argomentazioni più significative adottate dalla giurisprudenza e dalla dottrina precedenti, ma si segnala per l’accurata ricostruzione storico-sistematica del nuovo istituto e dei suoi rapporti con la comunione tacita familiare, riconosciuta suo antecedente prossimo. È stato riproposto, infatti, a distanza di decine di anni, lo stesso criterio utilizzato dai giudici per quest’ultima:

51 M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 169.

52 C. Cassazione, sez. lav., 22 maggio 1991, n. 5741, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1992, pag. 170.

53 C. Cassazione, sez. lav., 22 agosto 1991, n. 9025, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1992, pag. 219. Così, di recente, C. Cassazione, sez. lav., 3 novembre 1998, n. 11007, cit..

54 C. Cassazione, S.U., 4 gennaio 1995, n. 89, cit.

mentre si considerava sufficiente ad integrare il requisito della partecipazione alla comunione tacita familiare in agricoltura il semplice lavoro domestico, l’opposto si sosteneva nell’ambito delle comunioni tacite aventi ad oggetto attività commerciali, ritenendo essenziale che la prestazione casalinga si riferisse all’impresa quale effetto di una ripartizione dei compiti.

Così, nell’impresa agricola e nella comunione tacita familiare lavoro domestico e lavoro propriamente d’impresa si intersecano: gli usi addirittura comprendono nel primo, oltre al vero e proprio governo della casa, la preparazione del vitto per i lavoratori dipendenti e la dedizione a piccole necessità e spese giornaliere, attività non abitualmente considerate “lavoro domestico” ma che, anzi, usando la terminologia del diritto

Così, nell’impresa agricola e nella comunione tacita familiare lavoro domestico e lavoro propriamente d’impresa si intersecano: gli usi addirittura comprendono nel primo, oltre al vero e proprio governo della casa, la preparazione del vitto per i lavoratori dipendenti e la dedizione a piccole necessità e spese giornaliere, attività non abitualmente considerate “lavoro domestico” ma che, anzi, usando la terminologia del diritto