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La disuguaglianza crescente

I PARADOSSI DELL’ECONOMIA NEOLIBERISTA

3. La disuguaglianza crescente

La disuguaglianza e l’iniquità sociale rappresentano il più grande tratto delle società neoliberiste. Una delle credenze più diffuse tra gli economisti e i politici è che un elevato livello di disparità nel reddito o nella ricchezza - tra individui o gruppi all’interno di una società o tra diverse regioni del pianeta -sia uno dei prezzi da pagare per la crescita economica. Tale elemento addirittura rappresenterebbe uno stimolo al miglioramento delle prestazioni e dell’impegno del singolo, in quanto capace di incoraggiare la competizione, ossia la concorrenza tra individui per ottenere maggiori risultati. Per il principio della capacità autoregolatoria del libero mercato, a porre un limite a disparità eccessive dovrebbe essere il sistema capitalistico stesso, grazie alla sua tendenza naturale alla preservazione di se stesso.

In economia, per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza viene utilizzato il coefficiente di Gini. Si tratta di un indice il cui valore è compreso tra zero ed uno, dove zero corrisponde alla pura equidistribuzione - ipotesi teorica in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito - mentre il valore uno coincide con la concentrazione massima, dove l’intera ricchezza di un Paese è accentrata nelle mani di un solo individuo.

La diversa distribuzione della ricchezza varia nel tempo in base alle contingenze storiche e al tipo di modello economico adottato ed è verificabile a livello sia interregionale che intranazionale. Ci concentriamo qui, ai fini della nostra narrazione, sulla disuguaglianza riscontrata negli ultimi decenni all’interno di singoli Paesi, ossia quelli in cui sono riscontrabili gli effetti dell’adesione incondizionata al modello neoliberista (i risultati di una politica economica non si registrano mai nell’immediato ma occorre valutare il lungo periodo).

Se osserviamo il livello di disuguaglianza globale tra gli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta, si assiste a una tendenza alla stabilizzazione dell’indice di Gini, per poi invece riscontrare una brusca fase ascendente che è ancora in atto ai giorni nostri.

Nel caso degli Stati Uniti il fenomeno è ancora più evidente: nella sola decade 1980-1990 l’indice aumenta di circa il 25%. Sono gli anni del mandato di Reagan, massima espressione del neoliberismo americano, che riducono lo Stato a un ruolo marginale. Le politiche economiche incentrate sul libero mercato riescono a far uscire il Paese dalla forte inflazione, ma gli effetti sulle disuguaglianze sociali sono impressionanti.

Negli anni successivi, malgrado l’alternarsi di presidenti appartenenti alla corrente democratica, le politiche friedmaniane si innesteranno sempre di più nel tessuto economico e sociale americano, e l’indice di Gini continuerà a reagonomics, se non addirittura più ortodosso nell’adesione al neoliberismo.

La situazione si è andata aggravando: da uno studio Ocse nel corso degli ultimi anni è stato riscontrato un significativo aumento dell’indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati, in particolare a partire dal 2007. L’Italia presenta il tasso più alto in Europa, dietro solamente alla Gran Bretagna.[42]

Critica interna al neoliberismo

E’ singolare come proprio uno studio del FMI[43], una delle istituzioni che maggiormente incarna il modus operandi neoliberista, abbia riconosciuto che le politiche economiche attuate negli ultimi decenni hanno prodotto effetti opposti a quelli attesi. Tra queste le principali imputate sono la liberalizzazione dei movimenti internazionali del capitale, con la deregolamentazione e l’apertura dei mercati, e il cosiddetto consolidamento fiscale. La prima, che in termini teorici avrebbe dovuto aumentare la crescita economica e produrre un effetto stabilizzatore, per quel principio quasi divino dell’autoregolazione del libero mercato, di fatto ha provocato un’ondata di crisi finanziarie che sono deflagrate in crisi economiche, dalla portata

mondiale e dagli effetti permanenti.

Analogamente, le politiche di riduzione della spesa pubblica e di ridimensionamento del ruolo dello Stato, attraverso le privatizzazioni e una lotta spietata al debito statale, avrebbero dovuto generare un aumento della domanda e del reddito grazie all’incentivo dell’iniziativa privata. Questa teoria è stata categoricamente smentita a livello empirico: si è stimato che a ogni riduzione della spesa pubblica ha fatto seguito un aumento del tasso di disoccupazione.

Dalle ricerche condotte dal FMI, inoltre, emerge che le politiche di consolidamento fiscale, designate comunemente col termine austerity, non solo aumentano il livello di disoccupazione, ma provocano un incremento dell’indice di Gini pari all’1,5% nell’arco di un quinquennio.

Dunque, un’istituzione finanziaria internazionale del sistema economico neoliberista ne ha sfatato il principio cardine secondo il quale il mercato, ridotto al minimo l’intervento dello Stato e massimizzata la deregolamentazione, condurrebbe le economie alla crescita.

La seconda parte del paper demolisce un altro luogo comune, molto radicato tra gli economisti e l’opinione pubblica, in base al quale un livello elevato di disuguaglianza socio-economica sia il costo da pagare per il benessere economico. Viene smentita categoricamente la teoria del cosiddetto trade off positivo tra disuguaglianza e crescita, che anzi risulta responsabile di ridurre lo sviluppo economico di un Paese. La maggiore disuguaglianza danneggia la crescita.

Lo stesso premio Nobel Joseph Stiglitz dimostra che alti livelli di iniquità finiscono per impedire scelte educative e occupazionali adeguate, bloccando quindi la mobilità sociale. Nel caso in cui la disuguaglianza sia legata a una rendita di qualsivoglia natura, gli individui finiscono per ricercare trattamenti di favore e protezionismo da parte dei più ricchi; ciò innesca un meccanismo di corruzione e nepotismo che, oltre a essere moralmente biasimabile, comporta un’allocazione inefficiente delle risorse produttive.

Marcate disparità tra classi sociali comportano non solo una mancata crescita

economica, ma creano le condizioni per il dilagare della criminalità e delle tensioni sociali, generando quindi instabilità politica. Al contrario, quando a beneficiare dell’aumento di reddito sono le fasce più povere, si verifica un effetto positivo sullo sviluppo economico.

Quindi, mettendo insieme le conclusioni degli autorevoli studi presi in esame, emerge che le politiche neoliberiste aumentano il livello d’iniquità e ostacolano la crescita, provocando disoccupazione nel mondo del lavoro ed esposizione delle economie a frequenti crisi finanziarie dalla portata globale.

CAPITOLO 5