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Par. 1 La “Carta dei diritti del lavoratore nella famiglia o nell’impresa” e la sua ratio legis

Nell’ottica dell’art. 230 bis c.c. la disciplina dell’impresa familiare significa il riconoscimento dei diritti e dei poteri dei familiari-lavoratori: non solo diritti di natura patrimoniale, ma anche poteri essenzialmente strumentali a quelli. Questo complesso di situazioni giuridiche attive cui corrispondono, appunto, pretese e poteri, viene qualificato dalla stessa norma come “diritto di partecipazione”, della cui valenza e natura la dottrina ha provveduto a fornire diverse interpretazioni.

Fra gli interventi più interessanti, quelli di V. Colussi341 e M. C. Andrini342: il primo parla del diritto di partecipazione come di una posizione giuridica soggettiva limitatamente trasferibile, di carattere familiare, influenzata dalla natura del rapporto che vi dà causa, anch’esso, appunto, familiare; degno di nota è soprattutto il contributo della seconda autrice, la quale, a sua volta, definisce “carta dei diritti del familiare lavoratore per la famiglia o l’impresa” quella serie astratta di “tutele differenziali” che sono riconosciute al singolo in forza del suo status familiae e di una prestazione di lavoro continua, e che quest’ultimo può indifferentemente far valere a seconda della situazione concreta che vuole vedersi riconoscere.

Univoca è comunque l’individuazione della ratio della previsione, ovvero la tutela del singolo familiare che, con il suo lavoro, contribuisce allo sviluppo economico del gruppo familiare, tutela, che sia dal punto di vista della personalità e dignità della persona umana, che da quello economico, viene realizzata in modo esaustivo.

Il lavoro familiare che sia svolto nella famiglia o nell’impresa oggi è comunque protetto e ritenuto rilevante dall’ordinamento, ancorché non tipizzato in un rapporto contrattuale.

Anzi, proprio in mancanza di un’altra specifica tutela contrattuale, e quindi di un atto di autonomia privata, il singolo familiare ne riceve una basata sul principio che tutto ciò che è frutto di quel benessere che anche la sua collaborazione ha contribuito a produrre, è giusto gli sia, proporzionalmente, devoluto.

Il principio della solidarietà, così, non è più inteso in senso passivo, come ripartizione della responsabilità patrimoniale per i debiti di famiglia, bensì diventa strumento di partecipazione alle dinamiche familiari di produzione e fruizione.

La posizione partecipativa riconosciuta ai familiari collaboratori nell’impresa familiare, come già sottolineato, non è omogenea, è caratterizzata da diverse componenti che sono state classificate e raggruppate in modo altrettanto disomogeneo da parte degli interpreti, nel tentativo di trovare loro un minimo comune denominatore che, in realtà, è solo indirettamente rinvenibile nell’esigenza di tutelare omnibus il familiare lavoratore, con strumenti normativi ora laburistici, ora commercialistici o propri del diritto di famiglia: strumenti impiegati ed impiegabili in rapporto “all’epoca, ai luoghi e alle circostanze ed in funzione del caso concreto”343.

Una prima distinzione è stata fatta fra il diritto al mantenimento, ammesso sempre e indipendentemente dal tipo di prestazione fornita, sia nell’ambito dell’impresa, che in

341 V. COLUSSI, Voce Impresa Familiare, in Novissimo Digesto Italiano, App., IV, To, Utet, 1983, pag. 71.

342 M.C ANDRINI, L’impresa familiare, in Trattato di Diritto Commerciale e Pubblico dell’Economia, F. Galgano, XI , Cedam, 1989, pag. 171.

343 M.C ANDRINI, op. cit., pag. 222.

quello della famiglia, e il diritto di partecipazione in senso stretto. All’interno di quest’ultimo si sono poi individuati diritti economici e diritti lato sensu amministrativi344: rientrerebbero nella prima schiera i diritti relativi “ai beni prodotti dall’attività d’impresa, gli utili, i beni acquistati con questi e l’avviamento”, nella seconda, invece, ci si è riferiti a quei poteri di partecipazione collegati al momento gestionale dell’impresa, e funzionali rispetto ai diritti di cui sopra. Infine, tra i diritti spettanti ai soli familiari partecipanti all’attività gestionale rientrerebbe anche il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda.

Una seconda distinzione345 riguarda la natura dei diritti classificati “economici”, ovvero a contenuto patrimoniale: mentre alcune “forme” di questa partecipazione sarebbero suscettibili di realizzazione immediata, esprimendosi attraverso veri e propri diritti potestativi (qual è quello di cessare in qualsiasi momento la prestazione e chiedere la liquidazione in denaro della propria quota di appartenenza, o viceversa, di ottenere il mantenimento), altre si concretizzerebbero, per gli autori che aderiscono a questa tesi, in un diritto di credito vantato nei confronti dell’imprenditore; infine, altre situazioni riconosciute in capo ai partecipanti potrebbero essere identificate in un diritto reale (ad es. la prelazione) o comunque in un diritto di appartenenza.

G. Cottrau346, a questo riguardo, distingue all’interno della posizione giuridica propria del familiare collaboratore una serie di diritti e di poteri: i primi si sostanzierebbero nel diritto al mantenimento, corrisposto “secondo la condizione patrimoniale della famiglia”, nel diritto a partecipare agli utili dell’impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, la cui misura è determinata “in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”, e infine nel diritto di prelazione; nel secondo raggruppamento sarebbero invece riuniti il potere di concorrere alle decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché a quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi ed alla cessazione dell’impresa stessa e, non ultimo, il potere di autorizzare il trasferimento del diritto di partecipazione stesso da un familiare all’altro.

Di quest’ultimo si trova menzione anche nelle pagine di G. Tamburrino347 che riconosce tre categorie di diritti, inserendo nella prima i diritti personali, nella seconda quelli patrimoniali e discendenti direttamente dall’esercizio dell’impresa, nella terza i diritti funzionali alla partecipazione alla vita dell’organismo produttivo: nella prima tipologia, del tutto peculiare e caratterizzante l’impresa familiare rispetto ad ogni altra impresa collettiva, l’autore pone il diritto al mantenimento che chiarisce l’essenza dell’istituto, ristretto ai familiari nei gradi di legge e, secondo l’autore, necessariamente condividenti tetto e mensa (ciò che fra l’altro spiegherebbe il fatto che la misura del diritto sia commisurata in modo diverso rispetto alla seconda categoria), mentre nella terza si dovrebbero includere i diritti a contenuto decisionale, ma solo relativamente agli atti di straordinaria amministrazione e alle deliberazioni della maggioranza.

Al di là delle diversità classificatorie è comunque chiaro come il riformatore familiare abbia indubbiamente tentato di creare i presupposti per un equilibrio di poteri nell’impresa, indirizzo fra l’altro condiviso in tutta Europa, a partire dagli anni Sessanta, che ha permesso lo sviluppo dei parametri della “concertazione” e della

“partecipazione”.

344 LEMMI, Panorama di dottrina e giurisprudenza sull’impresa familiare, in Foro Padano, 1987, I , pag. 130-144 in nota a Trib. Milano, 23 maggio 1985.

345 M.C ANDRINI, op. cit., pag. 224.

346 G. COTTRAU, Il lavoro familiare, Collana Diritto del Lavoro , Franco Angeli Editore, 1984, pag. 81.

347 G. TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia, To, Utet, 1978, pag. 253.

La disciplina della posizione partecipativa del familiare collaboratore è stata affidata ai primi due comma dell’art. 230 bis c.c., dove, appunto, in capo al prestatore di lavoro nell’impresa o nell’ambito della famiglia viene riconosciuta la titolarità di un diritto al mantenimento, la cui misura è legata alla condizione patrimoniale della famiglia, a differenza del criterio proporzionale, riferito alla quantità e qualità dell’attività prestata, previsto invece per il calcolo della partecipazione ai profitti dell’impresa, non limitata ai soli utili e ai beni con questi acquistati, ma estesa agli incrementi dell’azienda, incluso l’avviamento.

Per quanto concerne poi la disciplina della gestione, ovvero l’organizzazione interna ed esterna dell’attività d’impresa, la seconda parte del comma 1 dell’art. 230 bis c.c.

attribuisce alla maggioranza dei familiari collaboratori il potere di adottare decisioni imprenditoriali vertenti su determinati oggetti, riconducibili, in linea di principio, alla straordinaria amministrazione.

Par. 2 I diritti patrimoniali a contenuto economico: 1) Il diritto al mantenimento

Passando in rassegna una per una le diverse manifestazioni della posizione partecipativa riconosciuta in capo al familiare collaboratore, è opportuno cominciare da quella che per prima viene citata nella elencazione legislativa, ovvero il diritto al mantenimento.

Questo concetto, tipicamente familiare, legittima la convinzione che l’analisi della problematica relativa ai diritti del lavoratore familiare non possa prescindere dalla natura strettamente familiare dell’intero rapporto, natura confermata, quindi, dalla stessa terminologia utilizzata dal legislatore.

R. Franceschelli348 si riferisce, fra l’altro, a questo diritto come “a quel diritto di natura complessa, mista di elementi patrimoniali e non, che viene espresso con un termine classico del diritto di famiglia”.

La lettera della legge recita espressamente: “il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia”, sempre che non sia configurabile un diverso rapporto che gli attribuisca, convenzionalmente, altri diritti.

È necessario chiarire sin d’ora che cosa si debba intendere per “mantenimento”: in assenza di criteri di determinazione del suo quantum, si ritiene349 esso possa consistere nell’insieme dei beni o dei mezzi sufficienti a garantire un’esistenza libera e dignitosa, ovvero la soddisfazione di tutte le esigenze materiali, morali, educative ecc.

dell’individuo, da cui la qualificazione da parte di taluno350 del diritto come personale, piuttosto che patrimoniale.

V. Colussi351 pone in evidenza la differenza fra il diritto de quo e il diritto agli alimenti, che consisterebbe, appunto, nella somministrazione di quanto necessario a tutte le occorrenze di vita di chi non ha redditi propri, in proporzione alle sostanze e alle possibilità dell’obbligato.

348 R. FRANCESCHELLI, “Much ado abuot nothing” in teme di impresa familiare, in Diritto di

Famiglia, Raccolta di scritti di colleghi della Facoltà giuridica di Roma e di allievi in onore di R. Nicolò, 1975, pag. 483.

349 S. PATTI, Note in tema di impresa familiare, in Nuovo Diritto Agrario, 1977, pag. 25.

350 V. nota 7.

351 V. COLUSSI, op. cit., pag. 72. Contra V. PANUCCIO, L’impresa familiare, 1975, pag. 66-67.

La legge, in genere, prevede il diritto al mantenimento a favore di soggetti che si trovano in stato di bisogno per mancanza di redditi propri, ma nell’art. 230 bis c.c. esso prescinde da qualsiasi valutazione circa i redditi del familiare-lavoratore, ed ha perciò un contenuto più ampio, commisurandosi alle condizioni patrimoniali della famiglia;

esso, in ogni caso, sarebbe identico, per quanto riguarda il contenuto, a quello che spetta in base al rapporto di coniugio o parentela: non esiste, però, è stato precisato, un problema di conflitto o cumulo, dal momento che non si può ottenere due volte il soddisfacimento dei medesimi bisogni.

Porta alla massima estensione il concetto di “esigenze” G. Oppo352, per il quale bisogna avere riguardo non solo a quelle proprie del familiare collaboratore come singolo, bensì anche a quelle dei suoi familiari, con lui conviventi o verso i quali egli sia a sua volta obbligato per la prestazione degli alimenti, giacché “non si possono ignorare né respingere le sue esigenze familiari se si accetta o continua ad accettare la sua prestazione nell’impresa familiare”; inoltre, fra le esigenze del familiare, non si dubita rientrino anche quella relative alla formazione di una famiglia propria.

Il legislatore, nel prevedere il diritto al mantenimento, ha voluto affermare il principio che questo, già riconosciuto ai familiari sin dal codice del 1942, non è soltanto la condizione di una pietas sociale nei confronti della moglie, dei figli e degli anziani appartenenti al nucleo, ma, al contrario, è la presa d’atto degli apporti di opera e di energia dei membri della famiglia, di cui si sono specificati l’ambito soggettivo e il parametro di riferimento. E forse proprio questa stessa ragione ha fatto riconoscere il mantenimento anche nell’ambito della comunione tacita familiare.

Se, quindi, il diritto di mantenimento di cui all’art. 230 bis comma 1 c.c. consiste nel riconoscimento di un contributo effettivo prestato dal familiare all’andamento dell’attività imprenditoriale del congiunto, in quale schema può essere ricondotto? In altre parole, quale natura bisogna attribuirvi? È questo il problema sollevato e che ha ricevuto diverse risposte e varie motivazioni da parte degli studiosi.

Da più parti353 si è negato che questo diritto corrisponda al cosiddetto dovere di contribuzione economico disciplinato, rispettivamente, dall’art. 143 c.c. per quel che riguarda il rapporto di coniugio, e dagli artt. 147 e 314 c.c. per quel che concerne invece il rapporto di filiazione, nonché dal dovere di collaborazione nell’attuazione dell’indirizzo della vita familiare ex art. 144 c.c..

Oggetto primario della riforma del diritto di famiglia é stata l’individuazione di un regime patrimoniale “primario” della famiglia, inteso come complesso di obblighi patrimoniali principali ed inderogabili, caratterizzati dalle costanti della proporzionalità e della reciprocità. Il riformatore si è però reso conto che né il regime della comunione legale, né quello convenzionale della separazione avrebbero potuto garantire quella parità sostanziale proclamata dalle disposizioni programmatiche costituzionali (artt. 2, 3 e 29) nei rapporti coniugali e in quelli fra i genitori e i figli nell’esercizio della potestà, quantomeno in tema di amministrazione del patrimonio familiare: sono stati di conseguenza creati, nella medesima occasione, degli ulteriori meccanismi di tutela, quali l’impresa familiare, a garanzia della retribuzione del lavoro svolto nella famiglia e nell’impresa, e il fondo patrimoniale, a garanzia dei bisogni della famiglia. Si è cercato, cioè, di prevedere l’ipotesi in cui la tutela generale riconducibile alla pretesa di adempimento di quegli obblighi di natura familiare sopra citati potesse non essere satisfattoria.

352 G. OPPO, L’impresa familiare, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, Cedam, 1977, pag. 499.

353 Cfr. per tutti M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 171ss.

Come si è già evidenziato altrove, non può certo configurarsi un dovere del coniuge e dei figli di collaborare all’impresa dell’altro coniuge o del genitore, ancorché sussista, per questi soggetti, un dovere di svolgere attività lavorativa in proporzione alle proprie capacità, e nemmeno può identificarsi il dovere di contribuzione con il lavoro svolto nell’impresa. Questo comportamento, che per alcuni è il fondamento dell’impresa familiare non viene ad essere controprestazione di un obbligo familiare, ma è un atto giuridico in senso stretto, spontaneo e unilaterale e per la cui valutazione sono previsti i criteri della proporzionalità e della quantità.

Pertanto, se è vero che il dovere di cui agli artt. 148, 315 e 324 comma 2 c.c. non può certo dirsi assolto con il versamento di una somma di denaro né con il lavoro domestico, altrettanto vero è che il diritto al mantenimento previsto dall’art. 230 bis c.c. non è analogicamente riconducibile al dovere di contribuzione economica, inteso sia come prestazione-lavoro effettuata dal familiare nell’ambito della famiglia o dell’impresa, sia come retribuzione-assistenza riconosciuta al singolo. Il dovere di contribuzione, fra l’altro, ha come destinatario l’interesse della famiglia, mentre il diritto al mantenimento di cui qui si tratta, essendo la remunerazione di una prestazione spontanea e non dovuta, ha come destinatario il singolo familiare-lavoratore. In aggiunta, quest’ultimo deve assolvere anche una funzione residuale, essere cioè azionabile là dove il diritto di cui all’art. 147 c.c. non lo sia più. E ciò rientra pienamente nell’ottica funzionale dell’art.

230 bis c.c. quale norma residuale e suppletiva, e in quella della stessa impresa familiare, come regime di supporto al regime patrimoniale primario della famiglia, tendente a rafforzarne l’unità.

La dottrina è poi divisa fra coloro che sono schierati a favore della natura corrispettiva del diritto al mantenimento e coloro che vi si oppongono. Il problema presenta importanti riflessi tributari, in quanto se il diritto del familiare-lavoratore valesse quale corrispettivo della prestazione fornita, la spesa relativa dovrebbe essere inserita fra i costi inerenti all’impresa stessa, ciò che invece verrebbe escluso nel caso si sostenesse l’orientamento contrario.

Fra i primi si annovera V. Colussi354 che trae la conclusione dalla natura strettamente familiare dell’impresa familiare (“colui che si considera familiare tanto da prestare il proprio lavoro in assenza di un rapporto contrattuale tipico con l’imprenditore deve essere trattato come familiare anche per quanto riguarda il soddisfacimento dei bisogni primari e fondamentali della vita”), e S. Patti355, il quale sostiene che l’art. 230 bis c.c.

prevede il diritto come forma di remunerazione della prestazione di attività lavorativa.

Quest’ultimo autore sottolinea come il richiamo espresso alla formula dell’art. 36 Cost.

è stato probabilmente evitato perché nell’impresa familiare non si configura la prestazione come lavoro subordinato, ma in realtà il dettato costituzionale dovrebbe estendere il proprio ambito di applicazione a tutte le ipotesi di attività lavorativa, escluse soltanto quelle in cui ciò non possa avvenire per la struttura stessa del lavoro. Si possono infatti individuare nella nuova fattispecie imprenditoriale due interessi contrastanti: quello del singolo partecipe, che contribuisce alla produzione degli utili, a ricevere una certa remunerazione, e quello dell’impresa, cioè della maggioranza dei familiari lavoratori, ad investire la maggior parte possibile dei profitti, riducendo corrispondentemente le quote destinate al mantenimento. Il possibile conflitto, alla luce della normativa costituzionale, dovrebbe essere risolto facendo prevalere la prima esigenza, quella relativa al godimento dei frutti della propria dedizione, se ci sono, nella

354 V. COLUSSI, op. cit., pag. 73.

355 S. PATTI, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a cura di A. Maisano, Na, Liguori, 1977, pag. 212ss.

misura in cui sono garantiti i bisogni per un’esistenza libera e dignitosa, cosicché, soltanto dopo aver adempiuto l’obbligo del mantenimento, la maggioranza dei partecipi potrebbe decidere la ripartizione degli utili secondo il criterio proporzionale della quantità e qualità del lavoro prestato.

Concordano con l’assimilazione del mantenimento ex art. 230 bis c.c. alla retribuzione del lavoro subordinato V. De Paola e A. Macrì356 i quali osservano, fra l’altro, che la negazione della natura di corrispettivo al diritto, riconoscendola alla sola partecipazione agli utili ed agli incrementi, utili e incrementi che possono esistere ma anche mancare, potrebbe condurre a considerare di nuovo il lavoro familiare come lavoro gratuito (in quanto prestato di fatto senza corrispettivo), concezione che il legislatore familiare del

‘75 ha voluto primariamente eliminare dall’ordinamento.

Ma la soluzione che riscuote maggiori consensi fra gli studiosi è sicuramente quella opposta, ovvero quella che nega il carattere di corrispettività al diritto al mantenimento riconosciuto nell’ambito dell’impresa familiare. G. Cottrau357 ritiene non legittimo ricondurre tale posizione soggettiva al concetto di retribuzione, con riferimento al dettato costituzionale contenuto nell’art. 36 Cost.: seppur nella previsione dell’art. 230 bis c.c. esso sia fondato non solo sul rapporto familiare, ma anche su una prestazione di lavoro continuativa e abbia quindi destinatario, condizioni e cadenze temporali diverse da quelle di cui agli artt. 143, 147 e 315 c.c., esso é pur sempre legato alla condizione patrimoniale della famiglia e difficilmente potrebbe essere assimilato ad una retribuzione costituzionalmente caratterizzata dalla necessità di garantire una esistenza libera e dignitosa. Il mantenimento, infatti, presuppone l’idea di una comunità solidale che in ogni casi assicura i bisogni essenziali di ciascuno.

Sempre al titolo del diritto si riferisce P. Stanzione358 che individuandolo, appunto, nello status familiae e nella prestazione di lavoro, precisa che il mantenimento non costituisce comunque l’equivalente di quest’ultima: da un lato esso si può aggiungere ad altri diritti patrimoniali, dall’altro è commisurato alla condizione patrimoniale della famiglia e non alla quantità e qualità del lavoro prestato. Secondo l’autore, che si pone, così, in modo speculare rispetto a V. Colussi, la particolare accentuazione del profilo patrimoniale in questo diritto renderebbe superfluo il richiamo al principio di sufficienza della retribuzione.

Altri interpreti359, muovendo da un confronto fra le due componenti della posizione partecipativa attribuita al familiare che lavora nell’impresa familiare, nella specie il diritto al mantenimento e quello di partecipazione in senso stretto, sono giunti a ricollegare il primo al più generale disposto dell’art. 3 Cost., che riconosce alla Repubblica “il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, mentre il secondo, e solo quello, nell’ambito dell’art. 36 Cost. (essendo questo dettato a tutela dei diritti di tutti i lavoratori retribuiti, indipendentemente dal fatto che essi siano autonomi o subordinati). Proseguendo nell’analisi della lettera del I comma dell’art. 230 bis c.c. gli stessi autori hanno tratto che, con l’uso della particella

Altri interpreti359, muovendo da un confronto fra le due componenti della posizione partecipativa attribuita al familiare che lavora nell’impresa familiare, nella specie il diritto al mantenimento e quello di partecipazione in senso stretto, sono giunti a ricollegare il primo al più generale disposto dell’art. 3 Cost., che riconosce alla Repubblica “il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, mentre il secondo, e solo quello, nell’ambito dell’art. 36 Cost. (essendo questo dettato a tutela dei diritti di tutti i lavoratori retribuiti, indipendentemente dal fatto che essi siano autonomi o subordinati). Proseguendo nell’analisi della lettera del I comma dell’art. 230 bis c.c. gli stessi autori hanno tratto che, con l’uso della particella