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Linee di ricerca nel pensiero del novecento

La nostra ricostruzione di convergenze tra antropologia filosofica e antropologia culturale potrebbe continuare ripercorrendo alcuni passaggi della filosofia del Novecento che continuano a segnarne la vicinanza con una antropologia culturale quale è stata delineata nella prima parte. Accenniamo soltanto ad alcune direzioni di ricerca.

Dilthey, nel definire il metodo per giungere a una «comprensione» di popolazioni lontane nel tempo o nello spazio, ha ripreso da Schleiermacher ed ha sviluppato la prospettiva ermeneutica, che ha trovato la sua piena espressione in Hans Gadamer, allievo di Heidegger – ma anche di Paul Natorp, esponente di primo piano del neokantismo della scuola di Marburgo. In ambito antropologico, riferendosi a queste esperienze e richiamandosi esplicitamente a Gadamer, Clifford Geertz (allievo di Clyde Kluckhohn) ha elaborato una «antropologia interpretativa», proponendo di considerare i sistemi culturali come dei testi da interpretare. Dopo aver indicato le tappe da seguire per comprendere una cultura «altra», Geertz conclude: «Tutto questo, naturalmente, attraverso la traiettoria ormai familiare di quello che Dilthey ha definito il circolo ermeneutico, e io sostengo qui che esso è centrale per l’interpretazione etnografica e quindi per la comprensione del modo di pensare di altre persone, come del resto è centrale per l’interpretazione letteraria, storica, filologica, psicoanalitica, o biblica o, per altro, per l’annotazione informale dell’esperienza quotidiana che noi chiamiamo senso comune». (Geertz 1983, it.: 89) E ancora: «Fare etnografia è

come cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì in fugaci esempi di comportamento conforme». (Geertz 1973, it.: 47)

Questa prospettiva è giustificata dal fatto che secondo Geertz la cultura è un sistema simbolico – come sosteneva Cassirer -, fatto di significati, e può quindi essere decodificato e «tradotto». «L’uomo è un animale impigliato nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto: la cultura consiste in queste reti e la sua analisi è perciò una scienza interpretativa in cerca di significato». (Geertz 1973, it.: 11)

Un’altra promettente direzione di ricerca riguarda uno degli esponenti principali dell’antropologia filosofica del Novecento, Arnold Gehlen. Egli coniuga nella propria opera approccio filosofico e antropologico, facendo spesso interagire i due piani. Un esempio particolarmente significativo è il saggio Morale e Ipermorale, presentato dallo stesso Gehlen, nella Premessa, con queste parole:

«Questo è un libro di antropologia che vuole offrire un contributo all’etica […].

Di fatto, gli impulsi e i richiami etici vengono qui concepiti come “regolazioni sociali” e la loro interpretazione deriva anzitutto dal collegamento con le concezioni del corredo istintuale umano, ridotto e instabile, che l’autore ha sviluppato in altri scritti. A quest’ultimo è in ogni modo chiaro che l’uomo è per natura un essere culturale e ciò significa, nel presente ambito problematico, che il campo da tempo elaborato della storia dell’etica, articolata in termini di antropologia della cultura, non perde di produttività. Perché ogni comportamento umano è soggetto ad una duplice considerazione, allora da un lato lo si può descrivere mediante le categorie biologiche (specifiche), dall’altro però appare come un prodotto della elaborazione temporale, delle costellazioni storiche». (Gehlen 1969, it.: 23)

Per Gehlen la cultura è un sistema di adattamento all’ambiente che l’uomo ha dovuto elaborare per sopperire alla propria carenza di istinti, a causa di un corredo organico manchevole (l’uomo, secondo la nota definizione di Nietzsche, come «animale

malato»).

Nonostante un approccio a volte orientato più verso un’antropologia fisica che culturale (non a caso uno degli autori che cita più spesso è l’etologo Konrad Lorenz), molti dei concetti coniati o usati da Gehlen nelle sue analisi (Mängelwesen, “essere carente”, Entlastung, “esonero”, Institutionen, “istituzioni) sono traducibili in quelli dell’antropologia culturale nell’accezione qui considerata6.

Altrettanto ricca di significati antropologici, anche se più mediati, è la filosofia di Ludwig Wittgenstein. Nelle Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, egli critica l’evolu-zionismo e il tentativo di ricondurre a un modello unico tutte le comunità esistenti. In particolare, Wittgenstein rimprovera a Frazer la pretesa di voler spiegare il comporta-mento di popoli lontani da noi nel tempo (o nello spazio), utilizzando le nostre categorie mentali e la nostra visione del mondo. «Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori».

(Wittgenstein 1967, it.: 17). «Quale ristrettezza – aggiunge poco più avanti – della vita dello spirito in Frazer! Quindi: quale impossibilità di comprendere una vita diversa da quella inglese del suo tempo! Frazer non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza». (Wittgenstein 1967, it.: 23)

Secondo Wittgenstein, al contrario, sarebbe necessario penetrare la cultura studiata, vederla dall’interno, con gli occhi dei suoi membri. Nessuna cultura è migliore o peggiore di un’altra, non possiamo disporle in una scala evolutiva, perché ogni cultura, come scriverà nella sua opera principale, è una «forma di vita» (Lebensform), non può essere spiegata o classificata, ma è il «dato» a partire dal quale avviene ogni spiegazione: «Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita».

(Wittgenstein 1953, it.: 295)

Come è noto, su questa espressione si è acceso, dopo la pubblicazione delle Ricerche filosofiche, un ampio dibattito ed esiste una copiosa letteratura secondaria. Qui,

6 Al tempo stesso, Gehlen ha subito in misura non marginale l’influenza di Dewey, che cita decine di volte in L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo. Scrive a questo proposito Ubaldo Fadini: «Del resto, si deve sempre ricordare come Gehlen fosse colpito da molte delle affermazioni di studiosi pragmatisti come James e Dewey e come definisse “geniale” l’opera di Mead». (Fadini 1988: 107)

ovviamente, facciamo nostra la cosiddetta «interpretazione comunitaria», sostenuta in particolare da Saul Kripke, che vede nelle «forme di vita» il riferimento a comunità effettivamente esistenti, o comunque possibili, interpretandole quindi in senso antropologico. Questa convinzione, d’altra parte, è rafforzata da molti altri passi di Wittgenstein che sarebbe interessante analizzare, e in particolare da un’opera breve ma significativa, pubblicata nel 1969, On Certainty.

In quest’opera, Wittgenstein riferisce alle «forme di vita» uno sfondo comune di

«certezze» – che costituiscono la nostra immagine della realtà, la nostra visione del mondo – che risultano tali non perché dimostrate o giustificate, ma in quanto siamo stati educati ad esse, in esse siamo cresciuti fino a considerarle ovvie e banali. «Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso». (Wittgenstein 1969, it.: 19)

Tali certezze costituiscono il punto di vista, simile per i membri di una comunità, a partire dal quale elaboriamo i nostri giudizi sulla realtà e sull’esperienza, ma proprio per questo non entrano nel campo di ciò che è valutabile o che possiamo mettere in discussione. «Da bambini impariamo certi fatti, per esempio che ogni uomo ha un cervello, e li accettiamo fiduciosamente. Io credo che esiste un’isola, l’Australia, che ha questa determinata configurazione così e così, e via dicendo; io credo di aver avuto dei bisnonni, e che le persone che si facevano passare per miei genitori fossero davvero i miei genitori, ecc. Può darsi che questa credenza non sia mai stata espressa, e addirittura il pensiero, che le cose stanno davvero così, non sia neppure mai stato pensato. Il bambino impara, perché crede agli adulti. Il dubbio vien dopo la credenza».

(Wittgenstein 1969, it.: 29)

Ciò che vale per l’ambito della conoscenza, vale anche per quello morale. Anche i nostri comportamenti sono in gran parte regolati da norme che abbiamo trovato alla nostra nascita e che ci sono state trasmesse: esse fanno parte del nostro modo di essere e non possiamo scegliere, perché, nota Wittgenstein, seguire una regola non è un atto di volontà, «seguire la regola è una prassi» (Wittgenstein 1953, it.: 109), aggiungendo poco più avanti: «Quando seguo la regola non scelgo. Seguo la regola ciecamente».

(Wittgenstein 1953, it.: 114)

La posizione di Wittgenstein può essere compresa a partire dalle teorie antropologiche cui abbiamo fatto riferimento nella prima parte: la cultura come sistema normativo, la formazione di atteggiamenti verso la realtà in seguito al processo inculturativo e alla dinamica dell’interiorizzazione mediante cui si forma la personalità, e così via. L’analisi meriterebbe una ricerca ad hoc ma qui dobbiamo limitarci a queste brevi considerazioni.