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La lotta di Liberazione

Ada e la seconda guerra mondiale

2.3 La lotta di Liberazione

È interessante seguire il percorso che portò Ada al totale distacco dall’Italia fascista e monarchica. Un percorso difficile, la cui strada era per lo più erta e scoscesa, ma in grado di determinare in lei contemporaneamente sia la sua voglia di ribellione, sia la sua resistenza personale. Una ribellione che lei stessa covava in seno fin dagli anni Trenta e che esternava fievolmente fin dalle primissime pagine del suo diario.

In realtà l’Alessandrini ammetteva di aver partecipato ad alcune manifestazione fasciste. Ad esempio, sul suo diario, confessò di essersi recata in Piazza Venezia il 5 maggio del 1936 per celebrare la conquista dell’Etiopia. Quella giornata le era apparsa come magica: la giovinezza, la vitalità, la potenza dell’impero e l’eroismo dei soldati italiani le avevano gonfiato il petto tanto da scrivere: «non posso ricordare una mattina più sfavillante di colori e gioia»173. Ma quella giornata raggiante fu un’eccezione. Il suo odio verso i sistemi violenti e autoritari ebbe il sopravvento anche sull’entusiasmo giovanile. E fu proprio quel sentimento di odio e di distacco che non le consentì mai di sentirsi parte dello stato fascista. Anzi. Fu quell’odio a spingerla contro il fascismo stesso. A portarla dalla parte dei dissidenti, degli antifascisti, dei cospiratori, dei perseguitati politici.

Come già ho raccontato Ada, nel giugno del 1940, ad Assisi era stata segnalata come dissidente alle autorità della provincia. Lei stessa scriveva

Alle autorità della provincia e non a quelle di Assisi è giunta una relazione molto grave sul nostro174 conto. Naturalmente le accuse non sono vere, o almeno quel fondo di verità che sono in esse è stato talmente deformato da renderle irriconoscibili175.

Tale segnalazione, spaventosa e minacciosa per le conseguenze che avrebbe potuto scaraventare su lei e Loretta, venne in realtà accolta quasi positivamente

173 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 6, cit., 8 maggio 1943

174 “Nostro” si riferisce ovviamente ad Ada Alessandrini e all’amica Loretta Tiso, anch’essa segnalata

175 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 1, cit., 12 giugno 1940

A me in un primo tempo ha fatto quasi piacere e ho sperato di poter far uscire all’aperto quella verità che mi tormentava. Ma tutti si sono prodigati nel consigliarmi prudenza […]176.

Essere segnalata la faceva entrare ufficialmente nella lista degli antifascisti militanti, nella lista dei cospiratori e di tutti coloro che potevano esprimere apertamente il loro distacco dalla guerra fascista. Ada, per un attimo si era immaginata di poter uscire allo scoperto e di diventare una sorta di martire: «avevo prima sperato di esser perseguitata e mi ero illusa che potesse servire»177. Ma ogni speranza e ogni entusiasmo furono spenti dagli accorati inviti alla prudenza lanciati a lei e a Loretta dai colleghi, dal preside e dai familiari.

Combattuta tra lo spirito di sacrificio verso la patria, che le chiedeva un atteggiamento di lealismo, e la paura di compiere una scelta remissiva e vile, Ada decise di cedere contro la guerra. Accettò di compiere un atto di devozione nei confronti della patria motivando tale decisione con il suo essere donna debole e remissiva. Ada capiva che «la guerra paralizza[va] lo spirito»178 di tutti, ma sentiva che ancor di più paralizzava lo spirito delle donne. Percepiva cioè su di sé quella differenza di genere esistente tra l’essere uomo e l’essere donna. Una differenza che probabilmente la bloccava allo stesso modo, ancorandola a stereotipi codificati che le impedivano qualsiasi slancio di entusiasmo e di coraggio.

Del resto mai come in questo momento ho sentito risorgere in me il senso della mia femminilità debole e quasi remissiva. Sento la guerra come cosa virile e istintivamente accetto la loro decisione ed accettazione […]. Per noi donne la guerra non è che una prova dolorosa da subire, un sacrificio da offrire quasi come espiazione ed è proprio per questo che a noi donne, e solo a noi donne, è concesso il privilegio

176 Ibidem

177 Ibidem, 13 giugno 1940

di amare i nostri nemici e forse anche i nostri alleati che ieri ci disgustavano.179

Il suo essere donna era un limite profondo, ma contemporaneamente anche un privilegio, perché le permetteva di amare gli avversari e di soffrire per loro. Le permetteva cioè di lasciare spazio anche a sentimenti di profonda umanità che, solitamente, gli uomini nascondevano sotto la loro maschera di virilità e durezza.

Del resto non va scordato che tra i ruoli fondamentali ricoperti dalle donne durante la guerra vi fu anche quello di dare sepoltura ai morti, compreso gli stessi nemici. A questo proposito sono toccanti le parole di una partigiana di Reggio Emilia che bene sintetizzano la coralità di quel sentimento materno che la storica Anna Bravo ha poi riassunto sotto la denominazione di maternage di massa180

Quando andavo al cimitero di Vetto181, c'era la tomba di un soldato tedesco. Era sempre senza fiori, senza niente. Senti, a me faceva una pena che tu non ne hai un'idea. Perché pensavo: è un soldato. Pensavo alla sofferenza che abbiamo avuto noi per i nostri morti in Russia, sepolti in terra straniera senza neanche un fiore. Pensavo alla sofferenza o della madre o della moglie o della sorella di questo soldato tedesco che non sapeva dove era sepolto e non sapeva nemmeno come era morto. Cioè la donna è sempre donna: la donna è nata per dare la vita, di fronte alla morte la donna ha pensieri e reazioni completamente diversi dall'uomo182

179 Ibidem, 12 giugno 1940

180 A. Bravo – A.M. Bruzzone, In guerra senz’armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari, 1995.

181 Vetto d’Enza è un piccolo comune situato sull’Appennino Tosco – Emiliano, in provincia di Reggio Emilia

182 Testimonianza orale di Anita Malavasi, “Laila”, rilasciata ad Elisabetta Montanari il 16 novembre 2000, pubblicata in E. Montanari, Piccole donne crescono. Memorie di donne della pianura reggiana 1930 – 1945, RS Libri, Reggio Emilia, 2006, p. 159

Ma si devono ricordare anche le molte donne, madri di partigiani o partigiane loro stesse, che si sono dedicate a onorare e seppellire i morti183. Ancora ci sono partigiane, come Teresa Cirio che parlano di donne che

Quando si veniva a sapere che c’erano dei caduti in città […] andavano a togliere la corda agli impiccati, li lavavano, li componevano. Altre pensavano a portare i garofani rossi al cimitero. Le tombe dei partigiani erano sempre tutte infiorate184

Ada era consapevole che le donne dovevano portare avanti una forma di assistenza materna, come prova d’amore e di sopportazione di un dolore, quello della guerra, unicamente subito e non vissuto direttamente. Nelle sue parole si legge dunque il rammarico di una passività femminile da cui anche lei non fu esentata. La guerra è la guerra degli uomini. È qualcosa di virile da cui le donne sono tagliate fuori.

Eppure Ada si sentiva partecipe in prima persona e il suo illudersi di poter essere cospiratrice o perseguitata rappresentava la sua rivincita verso il mondo maschile.

Non fu così.

Non lo fu al momento della segnalazione. Ada, infatti decise di costituirsi e di giurare fedeltà all’Italia, ma questo gesto le costò fatica perché, se da un lato le permise di ritornare in un terreno neutro di protezione, dall’altra le provocò però:

«una grande umiliazione»185. L’umiliazione cioè di chi si sente costretta a ripiegare su se stesso. A chiudere le proprie ali e restare per terra anziché spiccare il volo della libertà e della resistenza.

E non lo fu nemmeno durante la clandestinità.

183 A tal proposito si veda ad esempio la storia di Lucia Apicella che a Cava dei Tirreni seppelliva, sia i soldati tedeschi, sia quelli angloamericani in G. Crainz, La «legittimazione» della Resistenza. Dalla crisi del centrismo alla vigilia del ’68, in «Problemi del socialismo», n.s., gennaio-aprile 1987, 7, p.

76; oppure la testimonianza della madre di Nelia Benissone Costa che, insieme alla figlia partigiana seppelliva i morti facendo loro gli onori funebri in A.M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, cit., p. 39. Al tema della sepoltura dei morti dedica attenzione anche Claudio Pavone in C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 442-445

184 Testimonianza contenuta in A.M. Bruzzone – R. Farina, La Resistenza taciuta, cit., p.88

Anche come partigiana Ada si sentiva limitata per colpa del suo essere donna, incapace di azioni più coraggiose e più rumorose.

Mai come in questo momento ho sentito la nostalgia di non essere uomo: l’avventura di una vita libera e rinnovata mi fruscia vicino con il battito di un’ala che fugge fuori dalle angustie del nido; mentre mi sento costretta a rimanere qui nella terra, a contemplare di lontano.

Mi è concesso soltanto di promuovere e di aiutare il volo degli altri186

Ma quel volo era solo rimandato.

L’Alessandrini non perdeva mai occasione per manifestare il suo dissenso verso la guerra nazista e fascista. Ogni gesto sovversivo, anche il più piccolo poteva diventare un valido pretesto per sentirsi sfogare la sua rabbia. Ogni minima inezia come, ad esempio, l’atto di qualcuno che, sotto casa sua, tutti i giorni si divertiva a raschiare via la “R” dalla scritta turchina “Hitler” per farlo diventare “Hitlep”.

L’azione in sé poteva sembrare insignificante, ma Ada la leggeva come: «un invito a Resistere»187.

186 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 6, cit., 24 settembre 1943

187 Ibidem, 4 luglio 1940

Diario Ada Alessandrini, 17 luglio 1940, in FAA, s. 1, b. 2, sottofasc. 2

Lo stesso senso di resistenza e di proibito Ada lo provava nello sfidare la censura fascista. Per lei e per i suoi amici la vera e unica speranza per un futuro europeo migliore era riposta nell’Inghilterra, la sola nazione capace di resistere ai nazisti. La sola «eroica, indistruttibile, incorrotta»188. Così, nell’ottobre del 1940, la prof.

Alessandrini si pregiava di aver ricevuto da amici, tra cui la solita Loretta, una cartolina da Firenze in cui era scritto: «tanti saluti affettuosi anche dalla piccola Elisabetta che è sempre più in gamba»189. Lei stessa aveva già confidato al suo diario che: «nel nostro gergo di cospiratori Elisabetta vuol dire Inghilterra»190. Così anche una sola cartolina diventava motivo di vanto perché si poteva continuare a

188 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 4, cit., 3 ottobre 1940

189 Ibidem

comunicare: «in barba alla censura»191 fascista che erroneamente credeva di poter avere tutta la corrispondenza italiana sotto controllo.

Si sa, la difficoltà aguzza l’ingegno e lo stesso valeva per i numerosi escamotage inventati da Ada e dai tanti giovani ribelli che mal tolleravano la dittatura. La posta era un esempio, così come la radio.

Infatti un altro momento di grande eccitazione fu per Ada l’intercettazione, quasi casuale, di “Radio Italia”: «una radio clandestina italiana che trasmetteva una propaganda antifascista introdotta dall’Inno di Garibaldi»192. Ada nel gennaio del 1941 era ancora ad Orvieto, al collegio della GIL, e tutte le sere si trovava con il fratello della sua padrona di casa per ascoltare la radio e commentare il bollettino di guerra. La scoperta di una radio clandestina suscitò in lei una profonda emozione poiché ridestava la voglia di riscossa e di risveglio

Dunque i nostri giovani sono stati capaci di riscuotersi? Dunque si sono organizzati? E hanno avuto l’audacia di annunciare la loro sfida direttamente sul viso degli oppressori? Sarebbe troppo bello!»193.

Ci fu in quei giorni immediatamente successivi alla scoperta un grande fermento e una gioia altalenante tra l’incredulità e la paura che anche quella radio non fosse segno di una riscossa italiana, ma piuttosto propaganda inglese. Ada ascoltava con attenzione ogni singola parola pronunciata dai «giovani, ma non inesperti»194 radiocronisti, più per avere conferma dell’effettiva loro posizione cospirativa, piuttosto che per comprenderne il reale messaggio. E capì che

Questa nostra spasmodica volontà che sia proprio vero il magnifico tentativo, questo nostro volerci persuadere a tutti i costi che essi ci sono realmente e che non sono fantasmi o mistificatori non vuol dire che è

191 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 4, cit., 3 ottobre 1940

192 Ibidem, 15 gennaio 1941

193 Ibidem

194 Ibidem, 17 dicembre 1941

necessario ormai che essi ci siano, che è venuta l’ora di agire e non più soltanto di protestare?195

Ada non scriveva più nulla della scuola, ma tutta la sua attenzione era rivolta al momento cruciale della sua giornata: la sera, quando, insieme al vicino di casa, provava a prendere: «la trasmissione dei nostri ragazzi»196, come affettuosamente lei stessa li aveva soprannominati. La frequenza radio spesso era disturbata, intervallata e questo faceva sperare che quei giovani fossero davvero dei cospiratori. E la professoressa immaginava che anche quei ragazzi potessero essere fomentati dallo stesso spirito passionario appartenuto un secolo prima ai patrioti risorgimentali che, proprio in quei giorni, stava spiegando in classe alle sue allieve.

Tuttavia la radio era controllata dal regime. Anzi proprio questo apparecchio di nuova invenzione era il mezzo preferito dallo stesso Mussolini per fare propaganda e per riversare sul popolo italiano ignorante e gretto i suoi slogan vacui e retorici.

Così, accanto alla frenesia per “Radio Italia”, Ada raccontava anche del disprezzo provato ogniqualvolta, dallo stesso apparecchio, fosse stata costretta ad ascoltare le parole del Duce. Un disprezzo talmente viscerale che lei stessa commentava: «io sentivo l’impulso di sputare sull’apparecchio della radio»197. Un disprezzo segnato anche dai tanti manifesti murari che tappezzavano tutte le città d’Italia, compresa Orvieto, attaccati come minaccia per coloro che osavano ascoltare radio straniere, nemiche del regime. Curioso è il commento di Ada poiché ella osservava che, mentre le donne si fermavano a commentare le scritte, i loro mariti più sospettosi e timorosi si guardavano attorno impauriti senza proferire verbo. Tale situazione apparentemente rovesciata rispetto alla normalità in cui cioè era la donna ad ostentare coraggio e l’uomo ad indietreggiare, suscitava in Ada una riflessione tanto semplice, quanto profonda: «è strano osservare come in questi momenti gli uomini

195 Ibidem

196 Ibidem, 21 gennaio 1941

197 Ibidem, 23 febbraio. In particolare Ada era indignata a seguito del discorso radiofonico di Mussolini in cui con ottimismo il Duce aveva annunciato: "in primavera verrà il bello e verrà in

siano più timidi e spaventati, come siano più prudenti delle loro donne. Chissà perché?»198.

Già, chissà perché, le donne più passive e più deboli avevano però maggiore spirito temerario? Chissà perché anche lei si sentiva uguale a quelle donne, con una voglia cioè di agire, di sabotare la guerra e il regime, anziché fermarsi impaurita davanti ad un manifesto appiccicato ad un muro? Le donne. Prima descritte come esseri

«deboli e remissivi», ora invece come protagoniste più coraggiose e spavalde. Le donne in tutta la loro infinita complessità, difficilmente riassumibile in poche, banali e superficiali semplificazioni. Le donne di Ada sono la madre e le sorelle, sono Loretta, Lia, Grazia, Annie e le amiche più intime. Ma sono anche le suore che l’avevano ospitata ad Assisi e di cui lei non serbava certo un ricordo positivo.

Quelle suore alle quali Ada ricorreva nei momenti di massimo sconforto, quando anche la sua stessa fede, per quanto ferma e profonda, vacillava, e dalle quali non riceveva mai parole di conforto e di speranza. Da una parte in Ada vi era l’impressione di avere davanti donne più preoccupate di salvaguardare un’apparenza fatta di perbenismo, piuttosto che persone vere, concrete e di sostanza. Come lei stessa notava riferendosi ad un fatto casuale avvenuto la sera del tre giugno 1940, quando una delle suore che lei più conosceva si era abbandonata alla sua inquietudine per la situazione internazionale, esplicitando:

Quella violenza aggressiva propria delle donne che sono use frenarsi perché si credono in dovere di essere buone e che si lasciano andare senza ritegno quando hanno trovato la scusa di indignarsi per la moralità199.

Dall’altra l’Alessandrini si rammaricava davanti all’incapacità della stessa suora di aiutarla a fare luce nel buio fitto della sua anima. In particolare Ada riportava sul suo diario un dialogo avuto con la suora proprio la sera del 10 giugno 1940, quando sentiva più forte lo sconforto, quando cioè le pareva di aver perduto per sempre la sua amata patria e contemporaneamente dubitava della sua fede. Con questo

198 Ibidem

199 FAA. Serie 1, fasc. 2, sottofasc. 1, cit., 3 giugno 1940

disordine interiore Ada si rivolse alla suora chiedendole: «Ma Dio che cosa fa?» e la religiosa le rispose: «la farà finire presto». Il commento a quella risposta così prevedibile e così poco rassicurante fu: «le suore non capiscono niente!»200. Con tale sentenza lapidaria Ada chiuse definitivamente il suo dialogo con la religiosa e non cercò più conforto in ella consapevole che questa non poteva minimamente darglielo.

Le donne erano però anche le colleghe conosciute ad Orvieto - così poco stimate - e la comandate fascista di cui Ada aveva espresso un giudizio categorico e definitivo fin dai primi giorni di permanenza nella cittadina umbra. La stessa comandante con la quale Ada ebbe uno scambio di opinioni franco e leale nel febbraio del 1942.

Infatti in un momento di sfiducia la fascista si rivolse alla professoressa Alessandrini per un confronto poiché vedeva nelle ragazze della GIL, che lei stessa aveva educato e formato: «una frivolezza, una grossolana superficialità mista ad indifferenza e avidità»201. Tale osservazione però non sfociava in nessuna riflessione circa possibili errori della disciplina fascista, ma piuttosto pareva sospesa nel vuoto, quasi come se nell’educazione del regime non vi potesse essere alcuna forma di responsabilità. Ada però, dalla sua parte non perse l’occasione per dire francamente quello che pensava, affermando duramente

Tutti noi siamo stati gravemente colpevoli contro lo spirito, poiché abbiamo confuso idee e sentimenti, innalzando chimere e fantasmi al livello di grandi ideali: ciò nei migliori dei casi, quando abbiamo creduto di essere onesti; spessissimo avidità ed ambizione si sono camuffati con il pennacchio dell’idealismo. Sempre abbiamo lasciato che fossero nostri padroni la falsità e l’ambiguità. Finché non separeremo da essi gli ideali che sappiamo incontaminati, non potremo pretendere di educare alla fede e all’eroismo e i ragazzi ci usciranno dalle mani cinici, sfiduciati e opportunisti, proprio come siamo noi202

200 Ibidem, 10 giugno 1940

201 FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 5, cit., 20 febbraio 1942

A questo libero sfogo dell’Alessandrini, costruito su una condanna netta dei falsi ideali, accettati anche da chi non li condivideva e propagati alle giovani generazioni, spesso con ambiguità e disonestà, la direttrice non ha la forza di ribattere alcunché.

Il silenzio venne letto da Ada come l’ennesima riprova della vigliaccheria fascista e le lasciò l’amaro in bocca e la certezza che la fede di quella donna, non poteva essere vera perché, in caso contrario, avrebbe provato quanto meno a ribattere. Il silenzio dunque non fece che suggellare le parole di Ada dando ad esse un senso in più di verità.

Dunque le donne con tutte le loro contraddizioni. Donne spesso descritte come figure negative, come nei casi sopra elencati o come per quanto riguarda le tedesche. Le donne nemiche su cui Ada riversava tutto il suo odio e il suo disprezzo.

Donne che lei stessa non esitava a definire: «volgari», «invadenti», «alte e grosse» e ancora «cupide»203. Tedesche ingorde che minacciavano gli uomini italiani rubandole alle italiane e «suggellando il definitivo asservimento dell’Italia alla Germania»204. Ada faceva riferimento, naturalmente, a fidanzamenti tra italiani e tedesche, avvenuti proprio tra suoi conoscenti o parenti. Nello specifico al matrimonio di un suo cugino che si era sposato con una donna tedesca205 e al fidanzamento di un ragazzo, di cui non viene mai scritto il nome, ma di cui Ada confessò essere stata innamorata, anch’esso fidanzato con una tedesca. L’odio verso queste donne straniere era probabilmente enfatizzato proprio dalla perdita dell’amore. La notizia, infatti del fidanzamento del suo amato provocò in Ada un profondo turbamento che, sebbene non esplicitato nel diario, è però confessato in una lettera scritta all’amica sarda Grazia Dore206.

Nella lettera, purtroppo non datata, ma verosimilmente scritta nel gennaio del 1941, Ada confessava a Grazia il suo dolore:

203 Ibidem, 6 gennaio 1941

204 Ibidem

205 Cfr. FAA, serie 1, fasc. 2, sottofasc. 5, cit. , 3 gennaio 1941

206 Grazia Dore, carissima amica di Ada, sarda, poetessa e scrittrice, ha depositato presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso 36 documenti appartenenti al fondo personale della Famiglia Dore.

Questi documenti sono conservati come appendice del Fondo Ada Alessandrini e contengono lettere e cartoline di Ada scritte a Grazia e Raffaella Dore tra il 1941 e il 1944. Purtroppo molte delle lettere non sono datate.

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