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Natura della prestazione: in particolare, assonanze e dissonanze con la disciplina del rapporto di lavoro subordinato

Con l’art. 230 bis c.c. il legislatore ha innanzitutto preso posizione contro quell’orientamento dottrinale che aveva escluso la possibilità di un rapporto di lavoro subordinato tra i coniugi e tra genitori e figli, e sulla cui ammissibilità si era già espressa la dottrina dominante66 e la giurisprudenza67.

Con l’introduzione di tale norma è stata così legittimata una revisione dei modelli interpretativi del lavoro familiare. La dottrina laburistica, infatti, quando si era occupata in passato di questo, aveva generalmente sottolineato la mancanza degli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato (quali la subordinazione, la retribuzione ecc.) al fine di escluderne l’applicazione degli effetti tipici, atteggiamento che in seguito era diventato unanime fra tutti gli interpreti. La fuga dalla logica del lavoro subordinato si giustificava in quanto il carattere sostanzialmente altruistico del lavoro familiare, che ha come destinatario la comunità e non un singolo membro della stessa, si contrapporrebbe al regolamento contrattuale, anche tacito, di natura economica. Questa distinzione avrebbe dovuto indurre a definire in positivo la funzione del lavoro familiare, la sua qualificazione e quindi l’individuazione degli indici normativi, ma tale indagine non è mai stata effettuata.

In sostanza, la mancata assimilazione al rapporto di lavoro subordinato è stata solo sufficiente a porre il lavoro familiare al di là del piano della realtà giuridica e a convincere della presunzione di gratuità della prestazione corrispondente.

Questo orientamento riduttivo appare ormai non più giustificato alla luce dell’art. 230 bis c.c.: con la previsione di un diritto al mantenimento e di una partecipazione agli utili quale tutela economica della prestazione avvenuta nell’ambito di un’impresa familiare, non solo si esclude che possa parlarsi di una coincidenza tra lavoro familiare e lavoro subordinato, ma si conferma, anche, come solo per quest’ultimo possa parlarsi di rapporto di lavoro.

Il lavoro familiare non deve quindi essere considerato tout court una forma di lavoro subordinato alla quale applicare la normativa prevista per questo a meno che sia derogata, a favore del collaboratore, dall’art. 230 bis c.c.: esso è caratterizzato in maniera essenziale e sotto ogni aspetto dal suo carattere familiare che, come si è già evidenziato, connota in maniera particolarissima il conflitto di interessi fra datore e prestatore di lavoro68.

Cosicché una nozione in senso tecnico di lavoro è estranea alla materia familiare, alla quale si può ammettere solo un’applicazione in via analogica della normativa lavoristica69.

In dottrina, la differenza fra la fattispecie impresa familiare e la fattispecie lavoro subordinato è stata individuata in due aspetti principalmente, ovvero le loro inconciliabili causa e funzione. Secondo una prima tesi70 il nuovo istituto si connoterebbe come una comunità paritaria di lavoro non riconducibile nell’ambito del lavoro dipendente: sebbene diritti di partecipazione e poteri di cogestione possano

66 Cfr. per tutti G. GHEZZI, La prestazione di lavoro nella comunità di lavoro, Mi, 1960, pag. 159ss.

67 Cfr. per tutte C. Cassazione, 21 aprile 1961, n. 899, in Giustizia Civile, 1961, 1180.

68 V. COLUSSI, Impresa familiare, lavoro familiare e capacità di lavoro , in Giurisprudenza Commerciale, 1977, I , pag. 704.

69 G. OPPO, op. cit., pag. 459. Così anche M. GHIDINI, op. cit., pag. 18-19.

70 C.M. BIANCA, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d’impresa , in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 1976, 3 , pag.1241.

attribuirsi anche al lavoratore subordinato, tuttavia il lavoratore familiare esulerebbe dalla nozione di lavoro subordinato poiché la causa della sua prestazione deve ricercarsi nella solidarietà parentale. Il fenomeno si sottrarrebbe pertanto a quella caratterizzazione sociale che identifica il lavoro subordinato e che ne giustifica una specifica tutela normativa. Ma anche il lavoro familiare esige un’appropriata protezione, che deve tener conto della solidarietà familiare sottostante alla vicenda di collaborazione nell’ambito dell’impresa: ciò ha trovato riconoscimento nella riforma, la quale ha conferito al familiare lavoratore un diritto agli utili ed anche agli incrementi dell’azienda e poteri deliberativi in una misura che è ignota all’attuale realtà del lavoro subordinato.

Secondo l’altra tesi71, la differenza fra le due ipotesi di prestazione si trasferisce sul piano della funzione: mentre la seconda fattispecie sarebbe dettata per il singolo nella qualità di lavoratore, portatore di interessi contrapposti a quelli del datore e contrattualmente definiti, la prima si riferirebbe ad un soggetto che convive e collabora nella comunità familiare, aspetto, quest’ultimo, che giustificherebbe i diversi effetti stabiliti nella disciplina.

Quanto alla posizione della giurisprudenza, si cita la sentenza n. 2012 del 198172, nella quale la C. Cassazione ha negato che al lavoro nell’impresa familiare possa applicarsi la complessa disciplina del lavoro subordinato; ma lo stesso supremo organo, già in precedenza73, aveva escluso l’applicabilità al nuovo istituto dell’art. 36 Cost.: con un inciso brevissimo, i giudici avevano infatti affermato che i diritti del familiare lavoratore non concernono affatto le retribuzioni e le indennità proprie del lavoro subordinato.

Riguardo quest’ultimo aspetto, la maggioranza della dottrina74 ha negato, contro alcune voci che ne sostenevano il richiamo a favore del lavoro prestato nell’impresa familiare, l’operatività del precetto costituzionale secondo cui “la retribuzione deve essere sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: sembra assurdo, indipendentemente da ogni questione sul significato di

“mantenimento”, porre all’interno della famiglia questioni di pura retribuzione in ordine al diritto di partecipazione riconosciuto dal comma 1 dell’art. 230 bis c.c.. Il problema qui, infatti, sarebbe quello di assicurare libertà e dignità reciproche ai collaboratori all’interno della famiglia, ovvero un problema di diritto familiare e non di diritto del lavoro75.

Rivoluzionario, in tema di applicazione o meno della disciplina generale del lavoro subordinato al lavoro prestato nell’impresa di un congiunto, è stato l’intervento della C.

Costituzionale76, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, I comma T.U. 30 giugno 1965, n. 1224, “nella parte in cui non ricomprende, fra le persone assicurate (assicurazione generale contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) anche i partecipi all’impresa familiare che prestino attività manuale e di sovrintendenza ad opere manuali altrui”.

71 A. JANNARELLI, op. cit., pag. 1837.

72 C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giurisprudenza Commerciale, 1982, II , pag. 127 con nota di MISCIONE.

73 C. Cassazione, 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giurisprudenza Italiana, 1977, I , 1 , 1949.

74 P. MAGNO, op. cit., pag. 345. Così anche V. PANUCCIO, op. cit., pag. 13; G. OPPO, op. cit., pag.

499.

75 V. nota 68.

76 C. Costituzionale, 10 dicembre 1987, n. 476, in Consiglio di Stato, 1987, II , 1811.

Come conseguenza, pur non essendo la prestazione di lavoro di cui all’art. 230 bis c.c.

riconducibile tout court a quella subordinata, è alle norme poste a tutela di quest’ultima che si vuole far riferimento per colmare i vuoti legislativi della nuova disposizione, come integrazione e completamento dello sforzo compiuto dal legislatore della riforma per garantire una protezione il più possibile esauriente del lavoro svolto all’interno della famiglia. Ciò anche e soprattutto in relazione al principio di uguaglianza postulato all’art. 3 Cost. che, come sottolineato nella motivazione dell’ordinanza di rimessione del Pretore di Alessandria “vuole che a parità di esposizione al rischio corrisponda una pari forma di tutela assicurativa”.

La sentenza sopra ricordata ha rappresentato una inversione vera e propria delle posizioni assunte dalla dottrina, che da sempre trascurava, salvo sporadici interventi, l’aspetto assicurativo del lavoro familiare; fra i pochi si ricorda M. Ghidini77 che sin dalle prime applicazioni della normativa sull’impresa familiare aveva sostenuto che “il titolare di questa avrebbe dovuto osservare le forme previdenziali e assicurative stabilite per le situazioni di bisogno che non trovano nella solidarietà familiare una salvaguardia sufficiente”.

Ma il capovolgimento ha interessato la stessa giurisprudenza, la quale solo raramente era stata chiamata in precedenza a pronunciarsi in materia e che, quando lo aveva fatto, aveva comunque escluso la disciplina assicurativa dai rapporti lavorativi non riconducibili allo schema societario o a quello del lavoro subordinato.

Anche per quanto concerne il contenuto dell’attività svolta dai collaboratori, ai fini della loro partecipazione al nuovo istituto familiare, si è già precisato come non vi sia ragione per dubitare che esso coincida con quello proprio di una prestazione a carattere subordinato, sia essa attività puramente esecutiva oppure direttiva.

Agli interpreti, però, si è posta un’altra questione riguardo alla possibilità di un ulteriore rinvio alla disciplina del lavoro subordinato, e precisamente alle norme che regolano la capacità del soggetto prestatore di lavoro, sia essa capacità giuridica che capacità d’agire.

Che all’impresa familiare possano partecipare soggetti non in possesso della piena capacità d’agire è implicitamente ammesso nell’ultima parte del I comma della disposizione (“I familiari partecipi all’impresa familiare che non hanno la piena capacità d’agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi.”), ma questa norma costituisce deroga alla capacità di partecipazione all’attività organizzata in forma d’impresa, non già alla capacità di lavoro. Di conseguenza, la prestazione di lavoro dell’incapace di agire, sia essa effettuata nell’impresa o abbia luogo nell’ambito familiare, presuppone il possesso di quest’ultima: si è già ampiamente parlato in altra parte della trattazione della l. 977/67, che disciplina l’età “professionale” per i diversi tipi di lavoro, e si è chiarito che essa risulta applicabile, senza dubbio, anche nei confronti di minori che prestino lavoro a favore di un parente o di un affine. L’unico dato concreto di riferimento in questa materia è, difatti, la protezione del minore da tutto ciò che possa minacciarne l’integrità fisica e morale, non potendosi distinguere a seconda che l’attività venga prestata in base ad un contratto di lavoro subordinato o sulla base di un diverso rapporto, come è il caso dell’impresa familiare. Si è anche già sottolineato come l’art. 230 bis c.c. debba essere letto in connessione con l’art. 2 c.c., nella sua attuale formulazione, per cui il minore esercita personalmente i diritti derivanti dal proprio rapporto di lavoro, ad esclusione, però, nel caso di collaborazione ad un’impresa familiare, di quelli imprenditoriali: nell’esercizio del diritto di voto questi

77 M. GHIDINI, op. cit., pag. 93.

viene infatti sostituito dall’esercente la potestà. La ratio legis di questa deroga si rinviene considerando l’importanza del potere decisorio, col quale l’incapace verrebbe a partecipare a delibere coinvolgenti non solo i suoi interessi, ma anche quelli degli altri partecipi, non ultimi quelli del titolare dell’impresa. Inoltre, spesso oggetto di voto sono materie rilevanti non solo sotto l’aspetto economico, bensì sotto quello tecnico: si è ritenuto prudente e ragionevole, quindi, legittimare, solo ai fini del voto, il rappresentante legale quale integrazione dell’incapacità, mantenendo tutte le altre posizioni soggettive in capo al titolare78.

Anche la disciplina limitativa dei licenziamenti, propria del lavoro subordinato, è stata oggetto di scandaglio da parte dei giudici ai fini di ammetterne l’applicabilità anche alla collaborazione nell’ambito dell’impresa familiare. La questione ha costituito oggetto indiretto di una sentenza di merito79 nella quale si è ammessa la possibilità di reintegrazione del familiare ingiustamente estromessso, come del resto si è pure ritenuto di emanare un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per l’ipotesi di illegittimo allontanamento dall’azienda80, per la salvaguardia dei diritti di partecipazione e del rapporto di lavoro.

Nella tendenza, sino qui illustrata, ad assimilare, a livello di disciplina e nei limiti della sussidiarietà, la posizione del partecipante all’impresa familiare a quella del lavoratore subordinato, si ravvisa un riscontro pure in sede processuale. L’intervento del giudice è infatti ammesso anche nel caso di contrasti fra i partecipanti all’impresa familiare relativamente ai diritti attribuiti loro dal comma 1 dell’art. 230 bis c.c..

Nonostante qualche voce contraria, ma sempre più isolata, in dottrina, la giurisprudenza pacificamente ritiene applicabile lo speciale regime del processo del lavoro come disciplina della tutela processuale dei diritti nascenti dal rapporto di impresa familiare.

L’art. 409 c.p.c., quale è risultato dalla l. n. 533 del 1977 e dal d.lgs. n. 51 del 1998, attribuisce alla competenza del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro e alla regole dello speciale procedimento, non solo le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato (art. 409, comma 1), ma anche quelle relative a “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato” (art. 409, comma 3). Riguardo queste ultime, si tratta di fattispecie di lavoro formalmente autonomo, ma nelle quali la posizione del prestatore è “debole” rispetto alla controparte, sicché sono stata definite fattispecie di lavoro “parasubordinato”.

È opinione diffusa81 che anche l’impresa familiare rientri fra queste ultime e che, di conseguenza, rientri nella previsione dell’art. 409, comma 3 c.p.c.. Si aggiunge a questa, un’altra tendenza, condivisa dalla giurisprudenza82, diretta ad estendere l’ambito di applicazione di questa disposizione oltre i confini della sua formulazione letterale.

La C. Cassazione, ogni volta che si è occupata di questo argomento, ha cercato di definire, sia pure con approssimazioni successive, la fattispecie di cui all’art. 230 bis

78 V. COLUSSI, op. ult. cit., pag. 704ss.

79 Pret. Verona, 6 gennaio 1983, in Giurisprudenza di Merito, 1984, I , 14. Conformemente Trib. Verona, 29 aprile 1983, in Giurisprudenza di Merito, 1984, I , 13.

80 C. Cassazione, 4 marzo 1982, n. 1302, in Giustizia Civile, 1982, I , 1543.

81 G. GHEZZI, op. ult. cit., pag. 1383ss. Così anche M. GHIDINI, op. cit., pag. 81ss; M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 112ss; A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. 763ss; V. DE PAOLA - A. MACRì, op. cit., pag. 317.

82 Nella giurisprudenza di merito Pret. Bassano del Grappa, 21 giugno 1979, in Rivista Giurisprudenza del Lavoro , 1979, II , 1132; Pret. Modena, 9 giugno 1980, in Giurisprudenza Commerciale, 1981, II , 84.

Nella giurisprudenza di legittimità C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giustizia Civile, 1981, I , 1595.

c.c., indicando i requisiti necessari che la collaborazione ivi disciplinata deve presentare: ciò è avvenuto nel 198183, quando si sono richiesti i caratteri della continuità, coordinazione ed esplicazione prevalentemente personale, al fine di connotare un rapporto associativo preordinato alla tutela del lavoro familiare. Nello stesso anno84, in relazione poi alla confluenza di diverse forme di prestazione lavorativa nel particolare rapporto di lavoro familiare, si è sostenuta l’applicazione del nuovo rito e la competenza del giudice del lavoro in regime di subordinazione o di collaborazione personale coordinata (senza vincolo) nell’ambito dell’impresa familiare.

Questa tesi non è però esente da dubbi, avanzati da G. Oppo85 e V. Colussi86: quest’ultimo ha affermato la competenza del giudice ordinario in quanto tale, e non in veste di giudice del lavoro, sulla base della natura degli interessi coinvolti. Egli considera, infatti, l’impresa familiare non tanto un istituto di diritto del lavoro, quanto di diritto di famiglia, cosicché il lavoro familiare non rientrerebbe né nel lavoro subordinato, né in quello autonomo ed, anzi, si contrapporrebbe ad un qualsiasi contratto.

Da queste riflessioni risulta che il lavoro prestato nell’impresa familiare presenta alcune caratteristiche che lo differenziano dalla altre tipologie di attività lavorativa regolate dalla legge e presenti nelle relazioni economiche. Esso, infatti, può essere prestato anche in condizioni assai vicine a quelle che normalmente determinano la subordinazione ma, nonostante questo, il collaboratore familiare deve tendenzialmente essere considerato un partecipante, in quanto la legge fa unicamente riferimento a questo determinato modo di espletamento della prestazione. Ciò perché la situazione del partecipante è, in linea di massima, più favorevole rispetto a quella del lavoro subordinato, dato che consente la partecipazione agli utili, pur conservando il tipico vantaggio del lavoro subordinato, cioè l’estraneità al rischio d’impresa.

L’innovazione più profonda che la legge di riforma ha apportato in questa materia consiste proprio nell’aver differenziato la disciplina del lavoro prestato nell’impresa familiare da quella dettata in generale per il lavoro nell’impresa (Libro V, Titolo II c.c.).

Così, c’è chi87 avverte l’esigenza di una regolamentazione diversa dei rapporti di lavoro nelle imprese in cui l’attività professionale è organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, almeno per ciò che riguarda l’eliminazione delle posizioni di supremazia esclusiva e il riconoscimento del diritto ad una remunerazione in capo ai familiari.

83 C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, cit.. Così anche C. Cassazione, 9 aprile 1983, n. 2437, in Giustizia Civile, 1984, I , 250.

84 C. Cassazione, 16 luglio 1981, n. 4651, Foro Italiano, 1981, I , 2123.

85 G. OPPO, Diritto di Famiglia e d’Impresa, cit., pag. 387.

86 V. COLUSSI, op. cit., pag. 80.

87 S. PATTI, op. cit., pag. 227.