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2.3 Open Educational Practices

Negli ultimi anni, anche grazie alla diffusione del concetto di OER, il movimento Open Education ha iniziato a considerare come l’uso delle risorse aperte rappresenti una condizione necessaria ma non sufficiente per una reale trasformazione capace di rendere i sistemi di apprendimento allo stesso tempo più democratici e più innovativi. Il passo successivo era in un certo modo obbligato: una volta aperte le licenze delle risorse educative, diventa infatti necessario lavorare per l’uso e l’integrazione di tali risorse in pratiche di apprendimento che siano adatte a queste risorse e che possano esaltarne il potenziale di inclusione e innovazione (Ehlers 2011). In altre parole, una volta assicurato che lo studente, dentro o fuori dall’aula, possa accedere a contenuti aperti di qualità, occorre fornirgli gli strumenti, le competenze e i contesti per utilizzare queste risorse in modo utile, incluso il riconoscimento delle competenze acquisite, tenendo in considerazione le specificità delle OER rispetto alle risorse proprietarie.

È in quest’ottica che viene coniato il termine Open Educational Practices (OEP) per definire tutte quelle pratiche che supportano il (ri)uso e la produzione di risorse educative aperte, promuovendo allo stesso tempo modelli pedagogici innovativi basati sulla co-creazione di conoscenza. A differenza dei concetti di OER e di MOOC, che nascono per definire pratiche sviluppate inizialmente nel continente americano, il concetto di OEP nasce nel vecchio continente, precisamente nell’ambito di due progetti Europei.

Nel 2017, il progetto OLCOS definisce per la prima volta le Open Educational Practices come “pratiche che coinvolgono gli studenti in modo attivo e costruttivo nel processo di apprendimento attraverso contenuti, strumenti e servizi, e che promuovono l’autonomia, la creatività e il lavoro collaborativo” (Geser 2007, pag. 37). Pochi anni dopo, il progetto OPAL, a seguito di una serie di consultazioni con diversi attori, propone un’altra definizione che chiama in causa direttamente le OER: “Le OEP sono pratiche che supportano il (ri)uso e la produzione di OER attraverso politiche istituzionali, promuovono modelli pedagogici innovativi e rispettano e responsabilizzano gli studenti come coproduttori di conoscenza lungo il loro percorso di apprendimento permanente” (Andrade et al. 2011, pag. 12). A queste due definizioni, ne seguono altre che ne confermano la logica. Conole e Ehlers definiscono le OEP come “l’uso delle OER con l’obiettivo di migliorare la qualità dei processi educativi e di innovare gli ambienti educativi” (2010, pag. 3), Ehlers le considera come “pratiche collaborative in cui le risorse vengono condivise rendendole apertamente disponibili attraverso pratiche pedagogiche che si basano sull’interazione sociale, la creazione di conoscenza, l’apprendimento tra pari e condiviso” (2011, pag.

6), Cronin le definisce come “pratiche collaborative che includono la creazione, l’uso e il riutilizzo di OER così come pratiche pedagogiche che utilizzano tecnologie partecipative e social network per l’interazione, l’apprendimento tra pari, la creazione di conoscenza e l’empowerment degli studenti” (2017, pag. 4), Chiappe e Adame (2018) ampliano il concetto sottolineando che le OEP possono coprire diverse dimensioni tra cui la valutazione, l’insegnamento e la pianificazione educativa. Più in generale, la comunità scientifica considera le OEP come pratiche didattiche aperte in cui gli studenti contribuiscono al processo di insegnamento creando, modificando e condividendo risorse aperte (DeRosa e Robison 2015;

Hegarty 2015; Rosen e Smale 2015; Weller 2014).

Le OEP rappresentano una transizione da una prima fase del movimento Open Education, focalizzata sulla produzione e l’adozione delle OER nelle pratiche didattiche, a una seconda fase che pone l’accento sulla capacità delle OER di trasformare le pratiche pedagogiche: per realizzare il potenziale delle OER di favorire l’autonomia, la creatività, il pensiero critico, la risoluzione dei problemi e la collaborazione tra gli studenti, è necessario mettere in campo pratiche didattiche aperte che permettano di andare oltre la pedagogia tradizionale incentrata sull’insegnante (Schaffert 2008). Al di la delle definizioni, è importante sottolineare che quello che si può intendere per OEP va da una visione piuttosto ristretta e legata alle OER, adottata per esempio dal già citato Wiley, che parla di OER-enabled pedagogy (2018), fino ad approcci più comprensivi. In questo senso, il concetto di OEP è contenuto in nuce già nella Dichiarazione di Cape Town del 2007, la quale propone un concetto Open Education che parte dalle OER per includere esplicitamente i processi educativi così come le metodologie e la valutazione:

L’Open Education non si limita solo alle risorse educative aperte. Si basa anche su tecnologie aperte che facilitano l’apprendimento collaborativo e flessibile e la condivisione aperta delle pratiche di insegnamento che consentano agli educatori di beneficiare delle migliori idee dei loro colleghi. Può anche ampliarsi fino a includere nuovi approcci alla valutazione, all’accreditamento e all’apprendimento collaborativo (Dichiarazione di Cape Town 2007)

Con il concetto di OEP viene definitivamente riconosciuto che produrre, usare e riusare OER, oltre ad essere utile in termini di inclusione e di efficienza, può essere decisivo per innovare le pratiche di insegnamento. Le OER infatti possono rappresentare il primo passo verso l’adozione di metodologie di insegnamento aperte e collaborative, che sono in grado di aumentare il coinvolgimento degli studenti, la loro partecipazione e la loro motivazione (Calvani e Menichetti 2014). Immaginiamo, ad esempio, un

corso in cui parte del contenuto sia co-prodotto dagli studenti, ovviamente con una licenza aperta, e promosso attraverso un blog. In questo caso, gli studenti non saranno destinatari passivi di conoscenza, ma sentiranno che stanno producendo contenuti originali che rimarranno disponibili per la comunità e per edizioni future del corso, nelle quali altri studenti miglioreranno quanto prodotto dai loro predecessori.

La Open Pedagogy Matrix (Coolidge 2015), presentata nella Tabella 1, è uno strumento utile sia per capire meglio cosa si intende per OEP sia per implementare queste pratiche. Attraverso questo schema è possibile valutare un percorso formativo visualizzando la relazione tra l’uso delle OER e il grado di apertura delle metodologie di insegnamento (Menichetti 2014), stimolando una riflessione allo scopo di lavorare verso pedagogie più aperte e incentrate sullo studente.

Tabella 1: Open Pedagogy Matrix. Autore: Coolidge. Licenza CC-BY-SA.

Risorse e approcci aperti

Il concetto di Open Educational Practices è riuscito a spostare il focus del movimento Open Education dalle risorse alle pratiche educative, intese come una combinazione di strategie, risorse e architetture di apprendimento aperte, per creare ecosistemi in cui le istituzioni educative, gli educatori, gli studenti e i cittadini possano dare forma ai loro percorsi di apprendimento lungo l’arco della vita, in modo autonomo e autoguidato (Cronin e MacLaren 2018). Il Piano d’Azione di Lubiana, lanciato durante il Secondo Congresso Mondiale OER, descrive questo passaggio in modo efficace:

Se utilizzate in modo efficace e supportate da solide pratiche pedagogiche, le OER consentono di aumentare l’accesso all’istruzione attraverso le ICT, aprendo opportunità per creare e condividere un’ampia gamma di risorse educative per soddisfare la diversità delle esigenze dell’educatore e del discente. Un maggiore accesso online a OER promuove ulteriormente lo studio individuale, che, unito ai social network e all’apprendimento collaborativo, promuove le opportunità di innovazione pedagogica e creazione di conoscenza (UNESCO 2017, pag. 2).

È altresì importante ricordare come l’adozione di OEP non sia di per sé garanzia di una maggiore inclusione, e che anzi in certi contesti l’adozione di pratiche aperte può avere inizialmente un effetto di escludere ulteriormente coloro che per esempio non dispongono delle infrastrutture e della connettività necessarie, o che non sono in grado di fruire di risorse in inglese. Anche se non sta ai singoli docenti affrontare le cause profonde di queste ingiustizie, bisogna ricordare come proprio i docenti possano e debbano previlegiare pratiche aperte inclusive, per esempio utilizzando video che non richiedono un’ampia banda o fornendo trascrizioni dei video per garantire l’accesso ai non udenti (Bali et al. 2020).