• Non ci sono risultati.

P REGIUDIZI ERRATI SULLA LETTERATURA TEATRALE

Nel documento N CANONE PER IL TEATRO ARABO U (pagine 38-43)

4. PERCHÉ UNA LETTURA DE QĀLABU-NĀ L-MASRAḤĪ

4.3. P REGIUDIZI ERRATI SULLA LETTERATURA TEATRALE

Sia la lettura a partire dalla questione del “genere letterario”, sia quella del

“teatro della mente” partono dal pregiudizio che scrittura teatrale e rappresentazione siano atti distinti e del tutto separabili – travisando così il reale valore della priorità cronologica della scrittura rispetto alla rappresentazione –, quando in realtà fra i due momenti vi è, sì, una scansione cronologica, ma essa si dà solo a partire da un’unità intenzionale che li struttura in reciproca implicazione:

72O tu che sali l’albero, cit., pp. XVII-XVIII; Yā ṭāli‘ aš-šaǧara, M.K. vol. III, p. 496, I.

73 Si veda § 6.2.7

Dunque il testo drammatico è una tecnica che appartiene alla letteratura, ma guarda alla scena. Drammaturgia è una tecnica che appartiene al tea-tro, ma guarda alla letteratura. La vita del testo drammatico è duplice:

nella scena coscienziale del lettore solitario e, mediato dalla drammatur-gia, nel confronto vivo della pratica sociale, di gruppo, del teatro, che non è semplicemente passaggio di significati, conoscenza intellettuale, ma drammatica degli affetti, iperintensificazione delle emozioni e delle per-cezioni, sinestesia, stimolo, prima che comunicazione e passaggio di si-gnificati decodificabili […].74

L’irriducibilità del circolo che così si crea smentisce chi vorrebbe appiattire l’unitaria conformazione ancipite della creazione teatrale ad uno solo dei due poli di cui è costituita.

È che anche il nudo testo teatrale non può darsi primariamente ad una scrit-tura (e ad una letscrit-tura) “letteraria” e solo successivamente ad una declinazione attua-tiva e performaattua-tiva. No, non si dà una precedenza astratta, mentale, immateriale o universale del testo teatrale, cui seguano le varie messe in scena: la scrittura teatrale è già essa stessa una messa in scena realizzata nella “vita” (ancor più che nella mente) dello scrittore.

“Epifania” della struttura originariamente e intimamente performativa della scrittura teatrale è la costante e irrinuciabile forma dialogica, che costituisce il testo teatrale, pur nelle varianti storiche di forme poetiche o prosaiche, musicali o decla-matorie, afasiche o semplicemente mimiche. La costante dialogica esclude la possibi-lità di ammettere una genesi puramente concettuale del testo teatrale:

Lo statuto del testo drammatico è anzitutto definito, sul piano tecnico formale, dalla deissi e dalla performatività: i discorsi sono istitutzional-mente innervati nella dinamica dell’azione, enunciare equivale a compie-re.75

Dal momento stesso in cui appare, il testo teatrale richiede un investimento performativo, anche soltanto a livello immaginativo (non perché immaginativo però esso risulta essere meno dispendioso e impegnativo), e così è destinato a situarsi, a crearsi uno spazio:

[Il testo drammatico] richiede al lettore una cooperazione attiva e imma-ginativa, assimilabile in un certo senso a quella del regista o dell’attore, molto più forte di quella richiesta da altri testi, per riempire il non detto, l’implicito, il non descritto, la motivazione nascosta. Ma la sua virtualità

74 A. Cascetta, La parola per la scena: teoria, forme e problemi di metodo, in A. Cascetta – L. Peja (a cura di), Ingresso a teatro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 141.

75Ibidem.

scenica non ne intacca l’autonomia, e non vuol dire, come si è creduto per un certo tempo, che esso sia una sorta di struttura profonda che in-globa tutte le significazioni, disposta a un puro processo di trascondifica-zione. Esso richiede, comunque, che si attualizzino le sue matrici di rap-presentatività sulla scena mentale o materiale. Non spiegato o giustificato dalla scena, esso va comunque letto «all’interno della dinamica scenica», anche se l’incontro concreto con lo spettacolo entro la «normale vita di relazione» è «provvisorio e non necessario».76

Inoltre, la scelta stessa di scrivere un testo teatrale pone lo scrittore nella con-dizione di privarsi dell’ecfrasi, che pure è l’elemento essenziale della letteratura, ossia quella «descrizione plasticamente oggettivante»77 la realtà. Lo scrittore teatrale deve costruire la sua opera utilizzando esclusivamente il dialogo. Certo, è possibile che l’ecfrasi sia utilizzata all’interno di un testo teatrale, tuttavia ciò sarebbe da intendere come un’eccezione. In ogni caso la valorizzazione della narrazione orale e di elementi pre- o proto-teatrali tratti dalla tradizione popolare araba sembra orientare il teatro di T.Ḥ. ad una conformazione decisamente non “ecfrastica”, né semplicemente “let-teraria”.

Lo stesso T.Ḥ. ci testimonia che questo rifiuto dell’ecfrasi è il motivo princi-pale della sua vocazione teatrale:

Ma qui è necessario che mi chieda perché la mia prima opera fu un’opera teatrale. Forse per una naturale disposizione all’arte drammatica, cioè al-la creazione del personaggio attraverso il dialogo (ḥiwār) e non già fa-cendo ricorso alla descrizione (waṣf), il crearlo dalla realtà delle sue stes-se parole, non dalla decrizione altrui, ecco quel che si confà alla mia na-tura. 78

Ma, restando nella scia di queste osservazioni, vogliamo ritornare alla citazio-ne di Audebert79 e alla questione del canone. Audebert coglie un aspetto che certa-mente sarà utile per la comprensione profonda di tutta l’opera di T.Ḥ. e non solo de Qālabu-nā:

In the context of the theatre, the word qālib takes on another meaning, namely, that of a genre which allows direct conctat with the audience, a means of freeing the actor from the art of performing, showing the au-dience how theatre works (Qālib, 20). Apart from that, the author makes no further attempt to define form.80

76Ibi, pp. 143-144.

77 S.J. Averincev, Atene e Gerusalemme, Donzelli, Roma 1998, p. 31.

78La prigione della vita, cit., p. 109; Siǧn al-‘umr, M.K. vol. III, p. 661, I.

79 Cfr. § 4.

80 C.F. Audebert, Op. cit., p. 139.

Questa chiarificazione assolve alla funzione di “antidoto” utilissimo rispetto al rischio di “intellettualizzazione” cui sono state sottoposte le opere di T.Ḥ. da parte di alcuni studiosi, e al rischio di sovradeterminazione letteraria del “qālab”. E nello stesso tempo fa compiere un deciso passo avanti nella giusta comprensione di ciò che T.Ḥ. intende per qālab.

Il qālab, più che un genere letterario, è un ambito in cui attore e spettatore sono ricompresi come in una stabile frequentazione: qālab è una relazione in cui at-tore e spettaat-tore già “s’intendono”.

Limitare al solo “genere letterario” il senso del qālab è dunque troppo ridut-tivo, sebbene sicuramente T.Ḥ. si sia posto anche il problema della levatura culturale e letteraria del teatro arabo.

D’altra parte, sarebbe errato pensare al qālab soltanto come ad una modalità operativa. C’è molto di più che la ricerca di una ortoprassi teatrale. T.Ḥ. ha in mente il teatro in tutta la sua completezza e complessità.

Egli però è cosciente del fatto che un’unica esperienza antropologica, qual è il teatro, si dà in molti modi: popoli e culture diverse, in luoghi e periodi storici diversi, hanno dato vita a conformazioni teatrali necessariamente diverse. Nel pensiero di T.Ḥ., dentro la proposta del canone teatrale arabo, si trova la consapevolezza della presenza di un “genio del popolo arabo”, la consapevolezza della unicità culturale del popolo arabo, coscienza, ad un tempo, di una “originalità” necessariamente mai asettica, né assoluta, né autarchica, e tuttavia propria e autonoma:

Non c’è dubbio, l’autentico spirito della civiltà islamica si è manifestato nello sforzo di giungere, per quanto possibile, alla piena conoscenza delle civiltà coeve nelle loro dottrine, scienze e arti. […] I filosofi arabi ebbero stretti contatti con l’Europa, i dotti e i letterati accolsero con grande a-pertura qualunque evoluzione si prospettasse […]. Se vogliamo seria-mente che si compia il tempo della rinascita [nahḍa], dobbiamo lasciarci pervadere da questo spirito […]. A mio parere, dunque, per questa rina-scita è necessaria innanzi tutto di una ‘cultura totale’ [aṯ-ṯaqāfa at-tāmma]… Sì, abbiamo bisogno di personalità che somiglino a quelle del Rinascimento europeo, personalità enciclopediche capaci di abbracciare qualunque frutto dell’ingegno umano, sia nel presente sia nel passato.81

Sono i fermenti degli studî antropologico-culturali82 a stimolare questa

81Il fiore della vita, op. cit., Lettera XLIII, pp. 112-113; Zahrat al-‘umr, M.K. vol. II, pp. 83, II-84, I.

82 Particolarmente interessante in questo senso è poi la questione della specificità culturale del popolo egiziano. Attraverso riflessioni, disseminate qua e là nei suoi scritti, T.Ḥ. descrive le radici dell’identità

scienza, oltre alla frequentazione costante con il panorama teatrale, letterario e, in generale artistico europeo, con i quali a partire dal ’25 – data del suo primo soggior-no parigisoggior-no – egli sempre si confronterà.

T.Ḥ. dimostra di essere un vero autore, e in quanto tale, teorico originale, sensibile alle idee che nascevano e si sviluppavano. Egli è “auctor”, contribuisce a far crescere questi fermenti e non segue soltanto indicazioni suggerite da altri, né, tanto meno, soltanto subisce le mode culturali del tempo.

Di questi fermenti se ne hanno tracce in molte opere e in particoalre nei due testi autobiografici, Il fiore della vita e La prigione della vita.

Mio caro André,

non so se per mia fortuna o sfortuna, ma certo è che io vivo ora in Euro-pa in mezzo ad un rivolgimento di pensiero senza rivolgimento di pensie-ro senza precedenti. Da questa grande guerra da poco arrivata nelle arti e nelle lettere con la rivoluzione del modernismo, è inevitabile sia influen-zato anch’io; ma nello stesso tempo io sono un orientale, venuto ad os-servare la cultura dell’Occidente fin dalle sue origini. Perciò sono diviso adesso, come vedi, tra il classico e il moderno.83

Il modernismo di cui parla è il rinnovamento delle arti avvenuto nella prima metà del XX secolo, (simbolismo, ecc.) nella pittura, nella musica e anche nel teatro:

Qui è lo spiraglio che si è aperto su un modo straordinario e nuovo: quel-lo dell’arte moderna, arte che si è indirizzata prporio ad approfondire la portata di questo qualcosa di recondito, e suo primo mezzo per arrivare a ciò è stata proprio l’astrazione dal significato e dal nesso logico. Così la pittura è diventata u puro insieme di colori, la scultura un puro insieme di volumi, la musica, un puro insieme di suoni e la poesia un puro insie-me di parole […] e da ciò è risultata una forma d’arte che si ricollega di-rettamente con la vista e con ‘udito senza passare per l’intelletto. […] Il teatro degli anni venti di questo secolo – quarant’anni fa – aveva già co-minciato a guardare con stupore all’innovatore italiano Pirandello. […]

culturale egiziana, spingendosi fino alla riscoperta delle fonti egizie. Ma oltre a questo dato, queste tracce sono utilissime per comprendere quale fosse l’orizzonte della sua teoria culturale: «Recente-mente però qualcuno ha voluto modificare la nuova formula e, non pago della risultante di quei due elementi formativo del pensiero egiziano moderno, ha prospettato la necessità di cercarli anche altro-ve; e, sotto il fascino della civiltà faraonica, ha ritenuto doveroso per l’Egitto di oggi ispirarsi oltre che allo spirito occidentale e alla tradizione islamica, al pensiero dell’Egitto antico. Il movimento, detto

“faraonico”, ebbe per così dire una “sinistra” e una “destra” – per usare espressioni molto care ai po-liticanti – e raccolse tanto coloro (invero pochi) che avrebbero voluto vedere nella riesumazione della civiltà faraonica il presupposto della odierna cultura egiziana (anzi ci fu chi dichiarò esplicitamente che l’Egitto avrebbe dovuto ignorare gli altri paesi arabi) quanto chi, più saggio, consigliò non doversi trascurare, con lo studio di quella civiltà, altre forme e modi di cultura. A questa seconda categoria appartiene l’egiziano Tawfīq al-Ḥakīm», U. Rizzitano, Spirito faraonico e spirito arabo nel pensiero dello scrittore egiziano Tawfīq al-Ḥakīm, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli», Scritti in onore di Francesco Beguinot, n.s., III (1949), pp. 488.

83Il fiore della vita, cit., Lettera VI, pp. 26-27; Zahrat al-‘umr, M.K. vol. II, p. 37, I.

E se Ibsen e Bernard Shaw venivano, sempre in quel periodo, rappresen-tati a Parigi in teatri d’avanguardia frequenrappresen-tati soltanto da dagli intendi-tori, per quel che concerne Čechov non vi era ancora nessuno che pen-sasse al suo teatro o che open-sasse tentarne la rappresentazioen a Parigi.

Questo era quel che veniva allora chiamato «teatro moderno».84

A Parigi trascorrevo le giornate curvo sullo scrittoio nella stanza n. 48 di rue Pelleport. Leggevo, leggevo… finché lessi di tutto in tutti i campi del-lo scibile. Mi gettai a capofitto neldel-lo studio della letteratura, della fidel-loso- filoso-fia, dell’arte dei vari popoli senza plecudermi alcun campo d’indagine, giacché ero convinto – e lo sono tuttora – che il letterato di oggi dev’essere enciclopedico.85

La novità del pensiero di T.Ḥ. è costiutita dal connubio che egli propone come l’unico possibile per il teatro arabo: l’unione tra creazione artistica “monadica”

(occidentale) e creazione artistica culturale di tutto un popolo (orientale)86. È questa la Nahḍa («rinascimento», «rinnovamento») che egli predica.

Nel documento N CANONE PER IL TEATRO ARABO U (pagine 38-43)