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Il riscaldamento globale tutt’ora in corso è destinato ad aumentare il livello degli oceani.

Può descrivere la rilevanza del fenomeno, in primo luogo sul piano quantitativo, nel caso in cui gli obiettivi della COP di Glasgow ven-gano raggiunti entro la fine del secolo?

L’aumento del livello del mare è dovuto a due fenomeni principali: l’incremento della tem-peratura degli oceani, che produce dilatazione termica delle loro acque, e la fusione dei ghiac-ciai continentali (incluse Antartide e Groenlan-dia), che crea immissione di acqua dolce (prima stoccata in superficie, nei ghiacci) direttamente in mare. Ora, entrambi questi fenomeni hanno un’inerzia, cioè non possono essere fermati im-mediatamente. Si pensi per esempio ai nostri ghiacciai alpini: la loro massa glaciale non è in equilibrio con la temperatura che abbiamo attualmente. Essi stanno ancora rispondendo lentamente (fondendosi) al riscaldamento degli ultimi decenni, tanto che vari modelli mostrano come, se anche la temperatura dovesse rimane-re quella odierna, le Alpi perderimane-rebbero ancora un 30-35% di massa glaciale intorno al 2100.

In queste condizioni, quindi, ben si compren-de come anche nello scenario migliore – quello che ci consentirebbe di rimanere sotto gli 1.5°C rispetto alle temperature preindustriali – il livel-lo del mare aumenterebbe comunque ancora di circa 40 cm da oggi a fine secolo.

Nel caso probabile di uno sforamento degli

obiettivi fissati che scenario ci troveremo ad affrontare?

Ovviamente, nel caso di sforamento degli obiet-tivi di Glasgow, l’aumento del livello del mare sarebbe maggiore, fino a poter giungere a circa 80 cm nel 2100: sarebbe lo scenario peggio-re tra quelli considerati, il cosiddetto business as usual, ma con una fascia di incertezza che può arrivare anche a un metro o poco più. So-prattutto su questo scenario superiore abbiamo maggiori incertezze, perché studiando a fondo la dinamica dei ghiacci ci si sta accorgendo che spesso si possono innescare fenomeni bruschi che rischiano di far collassare intere parti di ghiacciai, generalmente i nostri modelli ancora non descrivono correttamente questi processi.

Diciamo che i numeri che ho fornito sono quin-di un po’ “conservativi” o, se vogliamo, ottimi-stici.

I dati quantitativi che lei ha descritto a cosa corrispondono dal punto di vista delle aree maggiormente colpite e dei rapporti tra i pa-esi colpiti e i papa-esi vicini? In altri termini:

quante aree del pianeta verrebbero interes-sate da fenomeni migratori dirompenti?

Anche se tutte le zone costiere sono a rischio, ci sono ovviamente situazioni differenziate a se-conda delle varie regioni del globo. I primi a ri-sentire fortemente dell’innalzamento del livello del mare, anche di quello previsto negli scenari migliori, sono sicuramente i piccoli stati-isola

del Pacifico. Essi sono costituti spesso da atolli alti pochi decimetri sul livello del mare e dun-que saranno i primi ad essere sommersi dalle acque. Già oggi i loro abitanti stanno comin-ciando a chiedere asilo ad Australia e Nuova Zelanda, ma le loro richieste si scontrano con una diritto internazionale che non prevede la fi-gura del rifugiato climatico.

Ma anche altre zone sono estremamente fra-gili. Penso al Sud-Est asiatico e al trittico Pa-kistan-India-Bangladesh, zone monsoniche in cui l’innalzamento del livello del mare porta a intrusioni marine alluvionali devastanti che conducono alla perdita di beni ed attività eco-nomiche, spesso senza rimedio. Su queste zone, dove il clima monsonico fa alternare circa 6 mesi di siccità e circa 6 mesi di alluvioni, si af-faccia anche lo spettro del collasso dei ghiacciai dell’Himalaya, la cui acqua è l’unica risorsa che consente di fare agricoltura. In queste regioni, specie negli scenari peggiori, si potrebbero prospettare forti migrazioni, dapprima interne ai vari Paesi, ma che poi potrebbero diventare transfrontaliere. E in una zona in cui Pakistan e India, oltre alla Cina, possiedono l’arma nucle-are, questo apre a scenari inquietanti.

Infine, in tutte le zone costiere si potrà assistere al fenomeno dell’avanzamento del “cuneo sa-lino” verso l’interno. In altre parole, non è ne-cessario che un territorio venga sommerso dalle acque per divenire inabitabile; basta anche che l’acqua del mare si infiltri nelle falde acquifere e allora lì non crescerà più nulla e non ci sarà più acqua da bere.

Non è facile stimare la popolazione a rischio di evacuazione, che dipende ovviamente dal valo-re dell’aumento del livello del mavalo-re. Una stima recente del World Economic Forum con un au-mento del livello del mare di circa 50 centimetri considera a rischio 570 città del mondo, pari a circa 800 milioni di persone.

Un altro aspetto del riscaldamento globa-le è relativo ai fenomeni di desertificazione.

Anche in questo caso, può descrivere la rile-vanza del fenomeno nel caso in cui gli obiet-tivi fissati vengano raggiunti? E nel caso di sforamento degli obiettivi in che modo

cam-bierebbero i dati? In modo proporzionale o esponenziale?

Detto che esistono ancora altri aspetti dei cam-biamenti climatici collegati al riscaldamento globale che impattano pesantemente sulle so-cietà umane – penso alla fusione dei ghiacciai, che in più parti del mondo rappresentano la risorsa fondamentale per poter svolgere un’at-tività agricola, o agli eventi di precipitazione estrema che conducono spesso a distruzione di raccolti o a danni molto evidenti su altre attività umane – la desertificazione è un fenomeno si-curamente importante.

Va sottolineato che la desertificazione non è causata solamente dal cambiamento climatico, ma anche da pressioni antropiche più dirette sul territorio. In ogni caso, l’elemento che viene dal cambiamento climatico rappresenta una con-causa che accelera e amplifica i problemi so-prattutto laddove ci siano società fragili, magari caratterizzate da un’economia molto debole che si basa principalmente su un’agricoltura di pura sussistenza. Qui il cambiamento climatico e la desertificazione contribuiscono alla perdita di risorse idriche e di raccolti, e tutto ciò innesca conflitti per le risorse che possono sfociare in-fine in migrazioni, dapprima interne e poi tran-sfrontaliere. Non è facile fare una stima delle persone coinvolte in tutto il mondo. Nella fascia africana del Sahel, da dove arrivano 9 migranti su 10 di quelli che si imbarcano sui barconi in Libia, ci sono almeno 250 milioni di persone pronte a partire negli scenari più estremi. Se dovessimo rimanere in un aumento di 1.5°C rispetto alla temperatura media preindustriale, sarebbero possibili azioni di adattamento del territorio che, con aiuti e cooperazione inter-nazionale, potrebbero ridurre enormemente il disagio e le partenze. Nello scenario peggiore invece non sarebbe più possibile adattarsi a un clima mutato drasticamente e si potrebbe rag-giungere addirittura la soglia di tolleranza fisio-logica a caldo ed umidità per uomini e animali.

Concretamente quali sarebbero le aree mon-diali maggiormente interessate dal fenomeno e verso quali aree sarebbe ipotizzabile

indivi-duare la direzione dei flussi migratori?

Il già citato Sahel è forse già una delle zone più compromesse. Ma ve ne sono altre nel mondo:

penso al Messico e alla sua pressione ai confini degli Stati Uniti, ma anche ai paesi sudameri-cani, dai paesi andini, che soffrono di sempre meno risorse idriche, a quelli dell’Amazzonia, che risentono del cambiamento climatico regio-nale dovuto sia agli influssi globali che a quelli più diretti dovuti alle attività di deforestazio-ne, di impianto di monocolture ed allevamenti intensivi, oltre che alle attività estrattive. Non ultime alcune zone del Mediterraneo, anche europee, dove taluni territori sono a rischio de-sertificazione: in Italia, ad esempio, citerei il Salento, le Murge ed alcune zone della Sicilia.

Anche in questi casi, nel momento in cui si av-verasse lo scenario migliore, sarebbe ancora possibile adattarsi, altrimenti si rischia un ab-bandono di massa di quei territori. Vorrei sotto-lineare quindi che, dato che – a causa dell’iner-zia del clima – non pensiamo mai di “tornare indietro” con la temperatura, ma potremo al più stabilizzarla, i fenomeni e i danni climati-ci che vediamo ora ce li dovremo tenere anche nel futuro. Occorre dunque adattarsi, con atten-te azioni di risparmio e accumulo delle risor-se idriche, curando maggiormente il territorio, aiutando chi non è in grado di farlo da solo. Ma dobbiamo anche evitare che si arrivi ad un pun-to in cui i fenomeni e i danni climatici diventino talmente grandi che non saremmo più in grado di adattarci e difenderci. Ecco quindi che, nel contempo, dobbiamo mitigare, cioè diminuire le nostre emissioni di gas serra per non far au-mentare troppo la temperatura e i cambiamenti climatici ad essa collegati.

La NATO ha ipotizzato nei suoi programmi, in vista del 2030, che uno dei suoi compiti

sarà quello di “gestire i flussi migratori”. Lei cosa ne pensa? Le pare una previsione esa-gerata o i rischi derivanti dai fenomeni mi-gratori connessi al cambio climatico possono determinare una vera e propria destabilizza-zione planetaria?

I militari sono abituati a fare i conti sugli sce-nari peggiori, perché si tengono pronti a tutto.

Ecco quindi che la NATO ha messo in agenda il problema delle migrazioni, che potrebbero di-ventare epocali se per esempio si avverasse lo scenario business as usual. Non è un caso che il Pentagono, mediamente un anno sì e un anno no, chieda agli esperti climatici della nazione un rapporto sugli scenari futuri, soprattutto so-cio-economici, in quanto loro ritengono il cam-biamento climatico un problema di sicurezza nazionale. Si può essere più o meno d’accordo con questo approccio, ma direi che dare un’oc-chiata agli scenari estremi fa almeno capire a cosa stiamo andando incontro, in un mondo che potrebbe divenire più difficile da abitare, ma an-che meno pacifico, se non altro perché in lotta per le risorse che il cambiamento climatico sta facendo diventare generalmente più scarse, ma soprattutto più sbilanciate tra Nord e Sud del mondo.

* Antonello Pasini è un fisico climatologo del CNR e docente di fisica del clima all’Università di Roma Tre. Nelle sue ricerche elabora e applica modelli matematici, con lo scopo di individuare le cause dei cambiamenti climatici a scala globale e regionale, e per studiare gli impatti a scala regionale e locale.

È anche un attivo divulgatore. Sui temi di questa intervista ha scritto (insieme a G. Mastrojeni) “Ef-fetto serra, ef“Ef-fetto guerra” (Chiarelettere).

La guerra, la crisi ecologico-climatica e il

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