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Le parti del rapporto: i “familiari”-collaboratori e la figura del familiare imprenditore

Il titolo che dà origine all’impresa familiare, sia esso individuato in un contratto, nella legge oppure nella realtà effettuale, si esplica, comunque, nei suoi due elementi costitutivi, il rapporto di coniugio, parentela o affinità e la prestazione di lavoro, secondo i caratteri specifici previsti dall’articolo 230 bis c.c.. La disciplina dell’impresa familiare trova infatti applicazione quando un familiare dell’imprenditore presti la propria attività lavorativa nella famiglia o nell’impresa.

Volendo delineare la morfologia del gruppo rilevante ex art. 230 bis c.c., parti necessarie del rapporto di lavoro familiare nell’ambito di un’impresa sono il titolare e i lavoratori-membri del nucleo familiare nei gradi richiesti.

Secondo il binomio inscindibile impresa-imprenditore si deve innanzitutto procedere all’analisi della figura dell’imprenditore, soggetto necessario perché titolare dell’attività produttiva nella quale viene ad inserirsi il lavoro familiare. È proprio questi il primo dei familiari partecipanti, la cui esistenza, anche se non espressamente menzionata nel III comma della norma, è presupposta. Anch’egli, infatti, rientra fra coloro che prestano in modo continuativo la loro attività nella famiglia o nell’impresa familiare, condizione indispensabile per godere dei diritti che la legge riconosce ai titolari del rapporto;

anch’egli rientra tra quei familiari che “partecipano all’impresa” e ai quali spetta prendere le decisioni inerenti gli atti di straordinaria amministrazione; infine, anche a lui si riferisce quel criterio della “quantità e qualità del lavoro” per la determinazione del diritto di partecipazione.

Può trattarsi di un imprenditore agricolo, di un imprenditore commerciale o anche, per chi ne ammette l'esistenza, di un imprenditore civile; può essere un imprenditore piccolo o medio-grande, ma in ogni caso deve trattarsi di una persona fisica209. V. Colussi, in altre parole, sostiene che l’art. 230 bis c.c. si applichi alle sole imprese individuali: la sua disciplina, addirittura lo stesso concetto di lavoro familiare, sarebbero totalmente estranei alle impresa collettive, fra cui, ovviamente, quelle sociali. L’autore riconosce che sono riscontrabili nella realtà fattispecie per cui la prestazione di lavoro in un’impresa collettiva è giustificata proprio dal rapporto di natura familiare intercorrente fra il prestatore d’opera e uno o più coimprenditori (i soci); è un dato, anzi, di comune esperienza che un’impresa familiare possa evolvere nel senso di una società, quando la collaborazione del familiare si trasformi in cogestione. E questo sarebbe un fenomeno non solo possibile, bensì naturale. Ma il fatto di diventare coimprenditore può riguardare solo uno o alcuni dei familiari-lavoratori, mentre per gli altri la prestazione fornita prosegue secondo le modalità immutate della collaborazione. A questo punto, la tentazione di sostenere che l’art. 230 bis c.c. possa essere applicato anche al lavoro familiare prestato in un’impresa sociale potrebbe essere più forte, ma bisogna osservare

209 V. COLUSSI, Voce Impresa Familiare, in Novissimo Digesto Italiano, App., IV, To, Utet, 1983, pag. 65-66.

come, in realtà, in quella situazione il soggetto destinatario della prestazione di lavoro sarebbe cambiato, essendo la società e non più il familiare-imprenditore. Si avrebbero prestazioni che trovano la loro causa nel rapporto familiare fra il lavoratore e uno dei soci, ma siccome imprenditore, e beneficiario della collaborazione, non sarebbe il socio, bensì la società, per l’autore, non sarebbe esatto parlare ancora di “lavoro familiare”.

Fra l’altro, tutte le società sono centri autonomi (rispetto ai soci) di imputazione di diritti e obblighi, sono cioè soggetti di diritto; ad esse, e non ai soci, spetta la qualifica di imprenditore, sia per le società di capitali, che per le cooperative, che per le società di persone. Di palese evidenza anche l’impossibilità di parlare di “impresa familiare” in relazione ad un soggetto puramente giuridico, nei cui confronti non hanno senso concetti come quello di “famiglia” e “parentela”: una qualunque società non ha coniuge, né parenti, né affini, e non può quindi essere titolare di un’impresa familiare che è quella cui collaborano, appunto, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.

Lo stesso discorso vale per le altre figure di impresa collettiva che presuppongono l’esistenza di un soggetto giuridico “collettivo”.

Non rientra, però, in queste ipotesi, l’impresa coniugale esercitata congiuntamente dai coniugi con un’azienda che, ex art. 177, comma 1

lett. d) e comma 2 c.c., ricade nella comunione legale: si è già sottolineato come qui il rapporto di lavoro (familiare) abbia come controparte diretta entrambi i coniugi, e quindi non sussistono ostacoli ad ammettere un’impresa coniugale che sia anche familiare. I parenti e affini dei coniugi che prestino il proprio lavoro in questa impresa si vedono riconosciuti i diritti previsti dall’art. 230 bis c.c., a differenza dei familiari del socio nell’impresa familiare, ai quali si applica la disciplina dettata per il lavoro prestato da un estraneo.

Questa tesi, secondo la quale, quindi, l’art. 230 bis c.c. può trovare applicazione esclusivamente al lavoro prestato in un’impresa in cui titolare sia una persona fisica, è condivisa, sebbene con diverse argomentazioni, da N. Salanitro210, ma viene rigettata dalla restante dottrina, che si orienta prevalentemente in senso opposto.

Alcuni autori211, infatti, riconoscono un’impresa familiare anche quando l’attività sia esercitata in forma di società di persone, escludendo la configurabilità rispetto ad una società di capitali, in cui la “collaborazione del familiare dovrebbe intendersi prestata all’amministratore e la partecipazione agli utili potrebbe vertere su questi o sul compenso dell’amministratore solamente a prezzo di notevoli alchimie”. A sostegno della loro posizione quegli interpreti adducono che, formalmente, la collaborazione del familiare in questi casi sarebbe rivolta, sì, alla società e non al familiare imprenditore, ma, sostanzialmente, sarebbe pur sempre una collaborazione ad un’attività d’impresa, quella svolta dal familiare-socio cui sarebbe ingiusto sottrarre i vantaggi di cui all’art.

230 bis c.c., soprattutto verso gli altri familiari collaboratori i quali, ad esempio, alla morte del socio stesso, si troverebbero in posizione di parità rispetto alla liquidazione della quota del defunto; e ciò indurrebbe ad affannose ricerche (a posteriori) di un socio di fatto per dare una diversa qualificazione alla collaborazione prestata.

210 N. SALANITRO, Impresa familiare e fallimento, in L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, a cura di A. Maisano, Na, Liguori, 1977, pag. 118ss. Così anche F. CORSI, Il regime patrimoniale

familiare, II , Mi, 1984, pag. 215ss; Trattato di Diritto Civile e Commerciale, a cura di A. CICU e F. MESSINEO, continuato da L. MENGONI, VI, II ,2; A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, III , Mi, 1975, pag. 667ss.

211 R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Giuffré, 1976, pag. 76.

Seppur con forti perplessità, gli stessi studiosi sono propensi a rispondere affermativamente non solo quando la società intercorra fra (alcuni dei) familiari, ma anche quando gli altri soci siano estranei alla famiglia; in questo ultimo caso, ritengono, però, che il rapporto intercorra unicamente col socio familiare e i diritti previsti dall’art.

230 bis c.c. maturino sulla porzione degli utili a questo spettante per gli incrementi della sua quota di partecipazione.

Solo alla prima di queste ultime ipotesi limita la possibilità di impresa familiare A.

Jannarelli212 notando, fra l’altro, che una collaborazione a diversi livelli fra familiari (alcuni a titolo di socio, altri a mero titolo di collaboratore familiare) non è affatto infrequente, ed è suscettibile di variazioni in tempi diversi, con il variare della natura e dell’intensità dell’apporto dato da ognuno.

Analizza l’ipotesi della sussistenza di un’impresa familiare quando l’esercizio dell’impresa sia assunto da una società di capitali C. M. Bianca213, il quale rileva come

“già da tempo l’esperienza giurisprudenziale è giunta ad identificare il fenomeno delle anonime familiari quali società di capitali appartenenti o dominate da un consorzio familiari” e aggiunge che “è noto, del resto, che anche e soprattutto nell’esercizio d’impresa di modeste dimensioni il ricorso alla forma delle società con personalità giuridica é favorito dall’intento non di reperire capitali, quanto piuttosto di evitare la responsabilità personale di un ristretto gruppo di soci, che possono appunto essere gli stessi coniugi o i componenti di una famiglia”. Nella realtà, pertanto, la formula societaria non escluderebbe che l’impresa familiare sia pur sempre gestita dalla famiglia e che un familiare possa apportarvi il proprio contributo continuativo a causa del vincolo parentale: rimarrebbe comunque ferma l’esigenza di tutela che la legge di riforma riserva a questo fenomeno di lavoro, a prescindere dalla formalizzazione societaria del gruppo imprenditoriale familiare.

G. Cottrau214, senza aderire espressamente ad alcuno degli orientamenti sopra esposti, afferma che, in linea di principio, il titolare dell’impresa familiare e dell’azienda a questa collegata è individuato dalla legge nella persona di uno dei coniugi. Ciò si evincerebbe dal fatto che, tra i componenti del gruppo dei familiari collaboratori, si indichi il coniuge, come allineato agli altri, parenti ed affini, e quindi in posizione diversa e distinta da quella dell’altro coniuge, che dovrebbe perciò essere il titolare. La disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. procederebbe dall’ipotesi normale che l’azienda sia stata costituita prima del matrimonio, ovvero che, ove ciò sia accaduto dopo, sia stato scelto il regime della separazione dei beni (art. 215 c.c., novellato dall’art. 83 l. 151/75):

solo a questa condizione infatti si può avere un titolare, di fronte al quale stiano il coniuge, i parenti e gli affini. Il primo, investito così della qualifica di “imprenditore”, deve essere in possesso delle caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c. e, prima fra tutte, della capacità d’agire, necessaria per chiunque intenda compiere atti dotati di efficacia giuridica, ancor più nel mondo dell’economia e del lavoro.

Controparte necessaria dell’imprenditore sono, come già accennato, i suoi familiari che prestano il proprio lavoro nell’attività esercitata.

Occorre subito precisare che l’art. 230 bis c.c. non si applica a tutti i soggetti che possono essere considerati “familiari” del titolare, ma soltanto a quelli espressamente menzionati nel III comma dell’articolo: la lettera della legge è chiarissima su questo

212 A. JANNARELLI, Impresa e società nel nuovo diritto di famiglia (contributo allo studio degli artt.

177 lett. d) e cpv. 178 e 230 bis c.c.) , in Foro Italiano, 1977, I , 365.

213 C.M. BIANCA, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d’impresa, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a cura di A. Maisano, op. cit., pag. 42-43.

214 G. COTTRAU, op. cit., pag. 38.

punto e non ammette dubbi interpretativi (“Ai fini della disposizione di cui al I comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.”). Lavoro familiare è quindi soltanto quello prestato dai soggetti compresi nei gradi di parentela e affinità menzionati nella norma, nonché dal coniuge; viceversa, il lavoro prestato da qualsiasi altra persona, anche se “familiare” in senso lato, in quanto legata da parentela oltre il terzo grado o da affinità oltre il secondo con l’imprenditore, anche se convivente, non può essere considerato “familiare”, perché il soggetto in questione non è tale ai sensi dell’art. 230 bis c.c.. Nella realtà giuridica questa prestazione avviene da parte di un estraneo, e per la disciplina applicabile alla fattispecie occorre riferirsi ai principi generali del diritto del lavoro, accertando se sia possibile nel nostro ordinamento un rapporto di lavoro gratuito e se, nel caso concreto, le circostanze -da provarsi in ogni caso da parte dell’imprenditore- giustifichino una conclusione in tal senso, ovvero se la fattispecie debba essere qualificata come semplice rapporto di lavoro (subordinato), con le relative conseguenze a carico dell’imprenditore e a favore del lavoratore.

Gli unici requisiti richiesti al familiare per poter partecipare all’impresa familiare e divenire parte di questo peculiare rapporto di lavoro sono, dunque, il particolare grado di parentela o affinità (o il coniugio) e la prestazione continuativa.

Si ricorda che nel testo originario dell’articolo corrispondente, relativo all’azienda a conduzione familiare, approvato dalla Camera, la previsione era ancora più generica, riferendosi il legislatore al “componente la famiglia”.

Ci si è chiesti, a questo punto, stante il silenzio della norma, nei confronti di quali soggetti debbano intercorrere suddetti vincoli e, in particolare, se in rapporto ad uno dei coniugi o ad entrambi. Si è risposto nel secondo senso215, partendo dalla premessa che si deve considerare la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.): ne discenderebbe che i membri devono identificarsi con riguardo a ciascuno dei coniugi, “alla coppia centrale dell’organismo”. Ma si è obiettato che precisare quali rapporti familiari corrispondano alla concreta volontà normativa non significa fare aprioristicamente riferimento ad una nozione di famiglia; inoltre, la legge consente che il rapporto sopravviva e si costituisca anche tra parenti in linea collaterale, senza investire alcuno dei genitori, sempre che la prestazione di lavoro abbia i caratteri richiesti.

Qualche altro autore216 sostiene che occorre riferirsi, per la definizione dei rapporti di cui al comma 3 dell’art. 230 bis c.c., “al momento genetico del rapporto”, e quindi all’iniziatore nel caso di impresa individuale poi trasformatasi in impresa familiare, o a colui che assunse l’iniziativa ed intorno al quale si sono stretti i familiari creando il nucleo imprenditoriale collettivo.

Rimane comunque tesi di maggioranza, sostenuta soprattutto dagli studiosi che affermano la natura individuale dell’istituto217, quella secondo la quale il soggetto cui riferire parentela e affinità è il titolare dell’impresa (“sebbene l’art. 230 bis c.c. non lo chiarisca (…) la logica ed il buon senso dovrebbero far ritenere così”)218.

215 P. MAGNO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina del lavoro familiare, in Diritto del Lavoro , 1975, I , pag. 343.

216 A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. 1302ss. Così anche G. TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Utet, 1978, pag. 252.

217 M. GHIDINI, Impresa familiare, Pd, Cedam, 1977, pag. 10. Così anche V. COLUSSI, op. cit., pag.

67;

V. PANUCCIO, L’impresa familiare, MI, Giuffré, 1981, pag. 45.

218 G. COTTRAU, op. cit., pag. 32.

“La risposta suggerita dal tenore della norma dovrebbe far ritenere che i legami debbano sussistere nei confronti di un solo soggetto, e tale risposta esatta trova il fondamento anche in una corretta valutazione delle ragioni che giustificano la peculiarità. Se così non fosse, infatti, il gruppo sarebbe capace di così grande dilatazione da rendere del tutto ingiustificata la particolarità del trattamento riservato a coloro che ne potrebbero far parte. Se tali vincoli potessero sussistere indifferentemente nei confronti di tutti i componenti il gruppo, gli stessi avrebbero un carattere spesso unilaterale e renderebbero la solidarietà e l’intimità reciproche non più probabili od intense di quelle ipotizzabili fra soggetti non legati da alcuno di quei rapporti. Anche il diritto di prelazione, sancito dal penultimo comma, perderebbe ogni giustificazione, se riservato a soggetti fra i quali un rapporto di successione ereditaria non fosse singolarmente probabile. Lo stesso dicasi per il diritto al mantenimento: questo sarebbe automaticamente riconosciuto a tutti i familiari, risolvendosi così in favore di soggetti sostanzialmente estranei agli altri membri del gruppo. In questi termini sembra veramente che la discriminazione operata dall’art. 230 bis c.c. cessi di possedere quella ragionevolezza che ne consente la conciliazione con il principio di uguaglianza”219.

Non mancano voci220, quelle appunto contrastate qui sopra, che vorrebbero allargare la figura a “tutti coloro che sono legati da un rapporto familiare con uno dei compartecipanti dell’impresa”, estensione inevitabile, per mancanza di punti di riferimento, per chi concepisce l’impresa familiare stessa come ente collettivo.

Il titolo familiare deve esistere non solo al momento dell’ammissione alla partecipazione, ma persistere durante tutta la collaborazione. Ovviamente parentela e affinità non si cancellano, neanche agli effetti che qui interessano, per la morte del soggetto in rapporto al quale si stabilì il titolo per l’ingresso; invece, per quanto concerne il rapporto di coniugio, bisogna distinguere l’ipotesi della cessazione degli effetti civili del matrimonio, del suo annullamento e della separazione personale.

In particolare, gli interpreti si sono chiesti se lo stato di separazione sia compatibile con l’appartenenza all’impresa familiare. Da un lato, infatti, questo evento, a differenza del divorzio, non fa cessare lo status coniugale, dall’altro, tuttavia, fa venir meno la convivenza ed insieme la comunanza di vita e la collaborazione reciproca, che sembrano elementi non irrilevanti ai fini della qualificazione dell’impresa come familiare. Si è così escluso che i rapporti tra coniugi separati, anche se solo d’impresa, possano essere disciplinati dall’art. 230 bis c.c., in quanto proprio tale norma

“presuppone la partecipazione lavorativa all’interno di una famiglia intesa come comunità, in cui la comunione di vita cementa il gruppo e i vincoli personali, non economici, rappresentano il tessuto nell’ambito del quale operano i diversi soggetti”221. Una diversa interpretazione propone il Tribunale di Verona222, per il quale il “difetto di uno degli elementi caratterizzanti il vincolo coniugale, nella specie la convivenza e l’affectio, non giustifica di per sé la risoluzione dell’impresa familiare, poiché la norma non ritiene indispensabile la presenza di quelli”. Per questi giudici, l’impresa familiare farebbe riferimento al concetto di famiglia in senso lato, la quale sussiste fino a quando il rapporto di coniugio non sia risolto, ovvero la qualità di coniuge cessi per una delle cause previste dalla legge.

219 R. COSTI, op. cit., pag. 74-75.

220 M. BIANCA, Diritto Civile, II, 1981, pag. 316. Così anche A. BELLELLI, I soggetti dell’impresa familiare, in Nuovo Diritto Agrario, 1977, pag. 165ss.

221 C. App. Milano, 24 marzo 1978, in Foro Padano, 1978, I , pag. 132 che ha confermato la decisione del Trib. Milano 23 giugno 1977, in Diritto di Famiglia, 1977, 1263.

222 Trib. Verona, 29 aprile 1983, in Giurisprudenza di Merito, 1984, I , pag. 14.

Conferma di ciò proviene dai giudici di legittimità223 che hanno escluso che la separazione personale dei coniugi costituisca “di per sé causa di estinzione dell’impresa familiare, ove non abbia comportato la cessazione dello svolgimento dell’attività lavorativa”, venendo a capovolgere quanto, invece, sostenuto dalla stessa Consulta nel 1984224: qui si osservava che lo status di familiare è solo una condizione soggettiva necessaria al momento della costituzione, ma non presupposto indispensabile per la vita dell’impresa familiare; pertanto ciò che porterebbe a risolvere la collaborazione al suo interno è il venir meno del rapporto che ne sta’ alla base (per contratto o per facta concludentia), che può coincidere anche con la perdita dello status, ma ne può anche prescindere.

Considerando le posizioni emerse a questo riguardo in dottrina, nessun problema porrebbe questo evento modificativo per quegli autori225 che non ritengono quest’ultima presupposto essenziale per l’esistenza dell’impresa familiare, dato che determina la cessazione della sola convivenza quale comunanza di tetto e di mensa; giungono alla conclusione opposta, ovviamente, i sostenitori dell’orientamento più restrittivo.

Bisogna in ogni caso tenere presente che il venir meno del legame nei confronti di uno dei partecipanti, per qualunque causa, non tocca in sé e per sé il rapporto fra i restanti, quale che fosse la posizione del cessante, se tra quelli persiste il titolo familiare (e collaborativo) ipotizzato dalla legge; poiché, però, come è già stato notato, quest’ultima non fa riferimento ad una o ad un’altra nozione di famiglia, ma a specifici rapporti familiari, se il titolo varia deve ritenersi che un nuovo rapporto si sostituisca (ex nunc) al precedente, sia pure sulla base della situazione patrimoniale creata precedentemente.

Così, ad esempio, venendo a mancare il genitore o i genitori la collaborazione continua con fratelli o nipoti, nella ricorrenza degli altri requisiti ex lege, ma come rapporto nuovo.

Venendo alle singole categorie di familiari-lavoratori, per “coniuge” si intende il soggetto attualmente legato all’imprenditore da matrimonio; non lo è chi abbia avuto (o subito) il matrimonio sciolto per divorzio oppure dichiarato nullo: la fine del matrimonio determina automaticamente la cessazione del rapporto di lavoro familiare e quindi della partecipazione all’impresa familiare226. Nell’ipotesi che dopo lo scioglimento (o la dichiarazione di nullità) del rapporto coniugale la prestazione di lavoro prosegua nell’impresa dell’ex coniuge -ipotesi con poche possibilità di verificarsi in pratica- il trattamento giuridico di quella corrisponde a quello riservato alla prestazione di lavoro di un estraneo, con esclusione della disciplina dell’art. 230 bis c.c..

Per l’ipotesi della separazione vale quanto sottolineato sopra, tenuto conto delle diverse posizioni giurisprudenziali e dottrinali.

Anche il venir meno del rapporto di affinità (la cui verificazione si ha solo nel caso di dichiarazione di nullità del matrimonio da cui deriva) determina la cessazione della

Anche il venir meno del rapporto di affinità (la cui verificazione si ha solo nel caso di dichiarazione di nullità del matrimonio da cui deriva) determina la cessazione della