“Un’autobiografia poetica che batte alle porte dell’impossibile”
di Arcangelo Sacchetti
L’iride, parola magica nel vocabolario montaliano, qui è traccia di un lento e faticoso camminare, luminescente e dura come madreperla, testi-monianza coerente e non ostentata di indipendenza. Né prete rosso né prete nero. E a vanificare facili conclusioni, nemmeno da “laico”
Montale fu mai segnato dall’appartenenza a un partito, tolta la stagione, assai breve, dell’azionismo, la quale riemerse in un certo senso quando, nominato senatore a vita, aderì al gruppo parlamentare del Partito Repubblicano. Del resto la sua vicinanza alla tradizione di pensiero che vedeva in Benedetto Croce la personalità più autorevole non giunse alla condivisione dello storicismo e non si nutrì dell’ottimismo della ragione, né storica né scientifica. Non si riconobbe se non di passaggio nell’idea-lismo, si trattasse della crociana Filosofia dello Spirito o del gentiliano Atto puro. Già un altro grande poeta del Novecento, Umberto Saba, parlando di filosofi e di poeti diceva che se i poeti sono egocentrici, i filo-sofi sono egocosmici, intendendo così rispedire ai mittenti, ai filofilo-sofi, con un bel carico, l’accusa rivolta ai poeti di non esprimere altro che se stessi: altro che egocentrici, i filosofi pretendono di far coincidere il mondo con il pensiero prodotto dal loro ego cogitante. Croce non amava i poeti del Novecento, da Pascoli in poi. La poesia vera per lui era finita col “suo” Carducci. E quelli ricambiavano, sottraendosi alla sua egemo-nia. Il laico Montale non è da meno, se è vero che in una poesia dedica-ta al grande filosofo, sia pure “in devoto ricordo”, e meno male, lo grati-fica di sordità verso “tutto il molto o il poco che non lo riguarda”2. È vero, questa è “una virtù” che Croce condivide con tutti i Grandi, ma tipicamente crociana è per il poeta l’indifferenza verso le condizioni dei miserabili, i dannati della storia. “I famelici e gli oppressi” non potevano entrare nelle cure di un filosofo tutto intento “a dividere lo Spirito in quattro spicchi” – la dialettica dei distinti, che si svolge nei momenti dell’Arte, della Filosofia, dell’Economia, dell’Etica, o se si vuole nei valo-ri del Bello, del Vero, dell’Utile e del Buono – quattro spicchi, che altvalo-ri
2“Una virtù dei Grandi è di essere sordi / a tutto il molto o poco che non li riguardi.
/ Trascurando i famelici e gli oppressi / alquanto alieni dai vostri interessi / divideste lo Spirito in quattro spicchi / che altri rimpastò in uno,donde ripicchi, faide / nel gregge degli yesmen professionali. / Vivete in pace nell’eterno: foste / giusto senza saperlo, senza volerlo. / Lo Spirito non è nei libri, l’avete saputo, / e nemmeno si trova nella vita e non certo / nell’altra vita. La sua natura resta/in disparte. / Conosce il nostro vivere / (lo sente), anzi vorrebbe farne parte / ma niente gli è possibile per l’ovvia/ contradizion che nol consente”. A un grande filosofo, in devoto ricordo. Diario del ’71 - Meridiani Mondadori, cit. pag. 490
(Giovanni Gentile) rimpastò in uno (Atto puro), donde ripicchi e faide nel gregge degli yesmen professionali”. Crociani e gentiliani si sono divi-si il campo: due greggi, seguaci e belanti, folti e ugualmente addestrati per professione a dire sempre sì. Nessuno ha usato espressioni e giudizi più impietosi su un indirizzo di pensiero che forse più di quello espres-so direttamente dal fascismo egemonizzò per mezzo secolo, dal 1902, l’anno dell’Estetica di Benedetto Croce, la cultura italiana, almeno ai livelli accademici. “Vivete in pace nell’eterno”: l’augurio sembra affet-tuoso, ma la motivazione è micidiale. “Foste giusto”, sì foste giusto: ma
“senza saperlo, senza volerlo”. Giusto, malgrado: come Croce usava dire della poesia di certi poeti, che pur ignorando o trasgredendo i principi della sua estetica erano visitati qua e là, inconsapevolmente e nonostan-te tutto, dalla grazia dell’illuminazione.
Chiarito, per completare questa parte, che Montale, dopo aver aderi-to nel primo dopoguerra all’idealismo gentiliano e successivamente a quello crociano, negli anni degli Ossi si sentiva più vicino al contingenti-smo di Boutroux, su un punto non ci sono dubbi: egli rifiutava tutti i sistemi di pensiero che promettessero certezze incrollabili e definitive, e non riteneva che la poesia, meno che mai la sua, se ne dovesse far voce.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro infor-me… Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”3.
Tra gli entusiasmi del fascismo trionfante, davanti alle primavere di bellezza di una gioventù che inneggiava a se stessa, l’etica della negazio-ne, asserita da Montale con tanta decisionegazio-ne, fu sentita come antidoto salutare. E negli anni Sessanta, tra i clamori dei movimenti studenteschi, il poeta ribadirà queste posizioni, rigettando come “fanfaluche credibili solo da pazzi” tutte le scorciatoie proposte dallo storicismo dialettico, dalla società del benessere, dalla comunicazione di massa, nonché dalla rivoluzione apocalittica dei “movimenti”4.
3Non chiederci la parola che squadri da ogni lato. Ossi di seppia, Meridiani cit. pag. 29
4Fanfara (titolo iniziale: Marcia trionfale) 1969. “lo storicismo dialettico/ materialista / autofago / progressivo / immanente / irreversibile / sempre dentro / mai fuori / mai fal-libile/ fatto da noi / non da estranei/ propalatori / di fanfaluche credibili / solo da pazzi…”. Satura, Meridiani, cit., pag. 336
Scettico, pessimista, demolitore divertito delle mode culturali e delle ideologie: da Ossi di seppia agli ultimi versi, quella di Montale è la storia coerente di un poeta moderno che mai ha condiviso della modernità gli entusiasmi e le certezze, ma che mai ha spinto tale critica fino al rifiuto:
né l’Eden in cui trovar rifugio dalle devastazioni prodotte dall’industria-lismo né l’infatuazione progressista dei modernizzatori ingaggiati.
Atteggiamento critico, riflessivo, problematico: lontano sia dal nichilismo che dal fideismo. È per questo forse che alcuni critici, tra i più qualifica-ti, si sono chiesti se nell’opera del “laico” Montale vi siano segni di vici-nanza al cristianesimo5. E non perché il cristianesimo si identifichi cultu-ralmente col rifiuto della modernità, o perché ne faccia un termine di con-fronto sostanziale e paritario; ma soprattutto perché l’atteggiamento cri-tico può esprimere un interrogativo più profondo, che investe non tanto il mondo della contingenza quanto il senso generale della vita di fronte alle certezze e agli entusiasmi del paradiso in terra, della felicità realizza-bile finalmente nella storia. Lo vedremo leggendo Ungaretti, e successi-vamente ragionando su Leopardi6. Se ne trae la conclusione che la lette-ratura moderna esprime una visione problematica, perplessa, inquieta, quando non totalmente refrattaria e repulsiva, asociale e dissociata, spe-cialmente tra Decadentismo e Novecento. Non c’è dubbio che Montale, come Ungaretti, e prima di loro Pirandello, si ponga su posizioni critiche, fortemente critiche di fronte alla modernità e a tutte le ideologie che ne cantino le magnifiche sorti. Ma diversamente da Ungaretti e piuttosto come Pirandello non giunge a dare una risposta religiosa alla domanda di senso che pone alla Storia. Non c’è fede nella trascendenza, non ce ne sono tracce nella sua opera. Gli ultimi versi della poesia dedicata A un grande filosofo ne sono ulteriore conferma: “Lo Spirito non è nei libri, l’a-vete saputo,/ e nemmeno si trova nella vita..e non certo/ nell’altra vita …”.
No,Dio non ci trascende, sta a noi di farlo vivere o farne senza, aveva già risposto a un gesuita moderno7.
5Questione dibattuta con grande serietà, a livello accademico; ma che trova un’eco assai sporadica e poco convinta nelle letture scolastiche. Si veda, anche per la bibliogra-fia specifica ANGELOJACOMUZZI: La poesia di E.Montale, PBE 1978 pag. 34-57 (Per uno studio sulla religiosità nella poesia della Bufera).
6Un’anticipazione è “Nel Segno del Sangue”, a incominciare dal n. 10, anno 2001.
7 A un gesuita moderno – Satura. Meridiani cit. pag. 328. Il gesuita è Teilhard de Chardin.
La fede in Dio non è postulata in nessun tratto, e neppure è lo sbocco sicuro delle sue riflessioni. E allora perché ci si è interrogati e ci si inter-roga sulla possibile vicinanza della poesia montaliana alle tematiche reli-giose? Certo, la serietà drammatica della sua inchiesta sul senso della sto-ria dispone il lettore a un atteggiamento riflessivo, che può aprirgli la strada della trascendenza, al modo con cui il lettore di Seneca, che pure non fu cristiano, si disponeva a incamminarsi sulla strada di Cristo. Ma c’è di più. Nella poesia di Montale, soprattutto dopo il primo libro – Ossi di seppia –, in particolare nel terzo – La bufera e altro – la presenza di ele-menti letterari direttamente legati o indirettamente desunti dai testi sacri è molto consistente e molto qualificata. Non sto a ripetere con chi ci ha fatto un’indagine accurata quante volte Dio e Cristo ritornino o per cita-zione esplicita o per perifrasi nella poesia di Montale8; certo non è cor-retto ignorare il peso che tale patrimonio, linguistico e culturale se non altro, ha nei suoi testi.
E qui incomincia la pars costruens, la parte costruttiva del nostro discorso. Innanzi tutto non vanno trascurate le testimonianze dirette. È lui stesso a ricordare di “essere stato alla scuola dei preti”: “Ho studiato coi Barnabiti. Cattolico praticante fino a una certa età, poi semicristiano a modo mio, poi… chi ne sa nulla? Mi pare ora che tutte le religioni siano buone (e spesso cattive)”. Non è da prendere in modo dogmatico questo relativismo sulle religioni. Certo è che non tutte le religioni, ma il solo cristianesimo, compresa l’ascendenza ebraica, è presente nei suoi testi. Leggeva la Bibbia, anche se non ci teneva, per la solita arte della dissimulazione, a enfatizzarlo: “Sì, a spizzico: come si legge un romanzo d’avventura”9.
Testimonianza più esplicita e più impegnativa quella che viene da un’intervista del 1965. Una domanda forte, risolutiva: Il poeta può fare a meno di Dio? Dopo quello che abbiamo letto in risposta a un gesuita moderno e in ricordo devoto di un grande filosofo, ci aspetteremmo una risposta altrettanto irridente, o disarmata. Invece no. Montale non elude la domanda, e risponde direttamente, senza la solita ironia: “Io sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile. Nella mia poesia – continua con disarmante
sin-8 G. BONALUMI, In margine al “Povero Nestoriano smarrito”, in: La poesia di Eugenio.Montale.- Atti del Convegno Internazionale 1982, LIBREX
9Ho scritto un solo libro; sta in: E. MONTALE, Sulla poesia, ed. Mondadori 1976, pag.
601 sgg
10G. NASCIMBENI, Montale; ed. Longanesi 1975 pag. 158/59
11Come Zaccheo, Diario del ’71; Meridiani.cit.pag. 427
cerità – c’è il desiderio d’interrogare la vita. Dopo lo scetticismo iniziale, nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al muro, di vede-re ciò che poteva esserci dall’altra parte della pavede-rete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno che atten-deva una risposta. C’è nozione di Dio, nella mia poesia: ma a patto di toglie-re a Dio ogni attributo dogmatico. E io sono un cristiano: ma un cristiano che non appartiene a nessuna chiesa”10.
La mancanza di fede nella trascendenza non si traduce dunque per Montale in professione di ateismo, ma piuttosto nella ricerca di senso, nell’ammissione del mistero, nel tentativo di sperare. La speranza: la poe-sia non esisterebbe senza speranza, non può nascere dalla depressione se non rompendola, essa è parola che si apre al futuro, è la parola con la quale il cuore e la mente respirano nel futuro. La poesia, dice Leopardi, è un respiro dell’anima. Per Montale il futuro al quale guarda la poesia non è legato ad un progetto politico, a una ideologia: è quello invece a cui si guarda rimanendo nella condizione umana in sé considerata, inter-rogandone le contraddizioni insanabili. Questa è la virtù esercitata dal nostro poeta; ad essa manca la fede, cioè la sostanza, cioè quel significa-to che ci sfugge. Ma la speranza non è attesa inerte; è esercizio assiduo, è ricerca di appoggi, di conferme, di aperture. Come Zaccheo: egli vuole vedere Gesù come Zaccheo, il facoltoso capo dei pubblicani che a Gerico cercava di vedere Gesù mentre tra la folla festante attraversava la città; ma non ci riusciva, perché era basso, e allora salì su un albero molto grande, il sicomoro. Zaccheo di lì non solo vede, ma prima ancora è visto da Gesù, che lo invita a scendere subito, perché in giornata si fermerà a casa sua. Scandalo dei benpensanti! Alloggiare da un peccatore….”Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: Ecco, Signore,io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto.
Gesù gli rispose: Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Luca, 19).
Montale, come Zaccheo:
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro per vedere il Signore se mai passi.
Ahimè, non sono un rampicante ed anche stando in punta di piedi non l’ho mai visto11.
L’episodio evangelico è termine di confronto, per lui irraggiungibile, certo non raggiunto. Non c’ è irrisione nelle parole di Montale, né bana-lizzazione. C’è piuttosto malinconia, alleggerita e quasi dispersa dall’au-toironia. Anche sul piano della strategia poetica, i versi che abbiamo letto ci portano nel cuore della poetica montaliana, anzi ai suoi vertici. Qui gli basta citare Zaccheo, l’inizio dell’episodio evangelico, lasciando nel som-merso tutta la narrazione; ma il lettore non può trascurarla, perché di certo il poeta vuole portare su quel sicomoro la condizione intera del-l’uomo che egli è, con tutta l’ansia di salire su quell’albero, di vedere e di esser visto da Gesù, e di sentirsi gratificato come Zaccheo dalla stessa promessa, di sentire da Gesù le stesse parole: Oggi la salvezza è entrata in questa casa. È la tecnica dell’allegoria.
Occorre a questo punto fare una pausa, una sosta didascalica sui con-cetti di simbolo e di allegoria. Naturalmente il simbolo e l’allegoria costi-tuiscono l’essenza del linguaggio poetico, e una delle forze generative della lingua stessa. Sono figure di pensiero, direbbe la vecchia retorica;
entrambe percorse dalla tensione, espressiva (il simbolo) o comunicativa (l’allegoria), che muove la lingua a dare forma concreta a un’idea, a un concetto, a una situazione problematica; entrambe imparentate con la similitudine e appartenenti al linguaggio simbolico. Ma già Goethe fa tra simbolo e allegoria una profonda differenza, e sulle sue orme la moder-na critica letteraria. Il simbolo è “l’universale nel particolare che lo incar-na in sé”. Nella poetica simbolista un oggetto , e in modo privilegiato la parola, nel rappresentare un altro oggetto si lega ad esso con un nodo intimo, profondo, misterioso, nel quale ciò che è significato e la figura che lo significa sono inestricabili. Si pensi a Ungaretti, e al valore evoca-tivo della parola nella sua poesia. L’allegoria, figura con cui si vuol dire, sostenere “altro”, mette anch’essa in rapporto entità diverse, significa una cosa attraverso un’altra, una realtà astratta attraverso il concreto. Se osserviamo l’allegoria dantesca, e in genere quella medievale, il percorso ascendente, dal senso letterale all’anagogico, o sovrasenso, spiegato nel Convivio e sintetizzato nell’epistola a Cangrande, si situa entro l’unità cosmica in cui cielo e terra celebrano la presenza misteriosa, ma certa, di Dio. Altro si deve dire dell’allegoria montaliana, e in genere moderna, che pure da quella dantesca prende le mosse. È anch’essa più complessa del simbolo, è anch’essa un vero sistema di immagini; ma è segnata non già dalla continuità, bensì dal distacco, dalla distanza, dal vuoto tra i due
termini correlati, e in tal senso ben corrisponde e interpreta la condizio-ne moderna, lacerata dalla scissiocondizio-ne tra piano dell’immacondizio-nenza e piano della trascendenza, tra mondo e Dio, scissione vanamente ricomposta dalla filosofia idealistica e dallo storicismo quando riducono la trascen-denza a immanenza e immettono Dio nella Storia in funzione di motore immanente e dialettico del suo divenire. Così in Montale, che respinge tale visione, l’allegoria si accampa non sulla continuità tra reale e ideale, tra concreto e astratto, ma piuttosto sulla distanza, sul vuoto tra i due ter-mini correlati. Essa è il risultato di una costruzione razionale, che impo-ne a sua volta un’interpretazioimpo-ne di tipo razionale. Il particolare, impo- nell’al-legoria moderna, non contiene l’universale: ne è solo l’emblema e l’e-sempio. E questo è Montale. La sua poesia è fatta di accensioni visive e di razionalità; presenta contemporaneamente il momento lirico e quello intellettuale, la visione e il commento. Non investe direttamente la sfera emotiva, e può sembrare fredda: ma è poesia che fa pensare, che pone problemi, senza la pretesa di condurre a una verità, senza costringere il lettore a percorrere sentieri già tracciati. Tra i due termini, il concreto e l’astratto, la distanza è tanta, e mobile; il poeta non fa nulla per aiutare il lettore a collegarli, anzi spesso fa opera di depistaggio. Caduto l’inganno idealistico del mondo come rappresentazione – Forse un mattino andan-do in un’aria di vetro…12- i segni del mondo, le cose, gli oggetti si pre-sentano nella loro nudità e frammentarietà fenomenica: reali, nella loro singolarità, ma non collegabili tra loro da un senso generale dell’essere.
Questo è il tema più presente negli Ossi di seppia, la prima raccolta mon-taliana.
* * *
GLI ANGELI DITOBIA,I SETTE,LA SEMINA DELL’AVVENIRE
Portami il girasole, ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino...
Portami il girasole impazzito di luce.
(Ossi di seppia)
È il fiore di Montale. Non rose, viole, o gelsomini, i fiori dei poeti lau-reati; ma questo fiore che produce semi, che dà olio, il fiore dalle foglie
12Ossi di seppia- Meridiani, cit., pag. 42
ruvide come le mani che rivoltano la terra, il fiore dalla grossa chioma, con i petali che gli sfrecciano dal capo come i raggi dal sole che i bambi-ni disegnano a scuola; il fiore del sole, della luce, dell’estate cabambi-nicolare.
Quella degli Ossi di seppia non è soltanto la poesia del male di vivere , della negazione etica (Non chiederci la parola..); è anche la poesia della luce, dell’immersione panica nella natura, con risonanze, anche espressi-ve, di D’Annunzio.
Il girasole e il terreno bruciato dal salino: nella grammatica montalia-na degli oggetti significano la speranza e il male di vivere. Nella Bufera, più esplicitamente in Silvae, il girasole diventa persona, è Clizia; il terre-no bruciato dal saliterre-no è la Storia, dove imperversa la bufera scatenata da un messo infernale. È il tema della Primavera hitleriana, che ad epigrafe porta il verso di un sonetto dantesco, che Montale aveva sotto gli occhi, perché da poco era uscita l’edizione critica delle Rime curata da Gianfranco Contini, grande maestro della critica novecentesca e mènto-re, nonché amico del nostro poeta: “Né quella ch’a veder lo sol si gira…”.
È l’annuncio solenne di Clizia, che il non mutato amor mutata serba:
“Illa suum, quamvis radice tenetur, vertitur ad Solem mutataque servat amorem” (Ovidio, Metamorfosi, IV v. 269/70). Clizia, nome poetico (sen-hal) di Irma Brandeis, al modo della poesia trobadorica e stilnovistica, è la luce: ma in un’atmosfera di tregenda. È il poeta stesso a indicare, una volta tanto, l’occasione: “Hitler e Mussolini a Firenze. Serata di gala al Comunale. Sull’Arno una nevicata di farfalle bianche” (maggio 1938)13.
La Primavera hitleriana
Né quella ch’a veder lo sol si gira….
Dante (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette, stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona 5 ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
13Note ai testi, Meridiani, cit., pag. 1103
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale Tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso 10 e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere e inoffensive benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra,
si sono chiuse le vetrine, povere e inoffensive benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra,