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Arild Karlsen chiude così la sua prefazione all’ultimo testo di Skinner, Difesa del comportamentismo:

“Piuttosto che salvare il mondo cambiando il modo in cui le persone lo percepiscono e lo pensano, sarebbe possibile creare un ambiente in cui la gente acquisisca un comportamento più efficace, lavori in maniera più produttiva, tratti l’altro con maggiore cura, e tenga in maggiore considerazione il futuro”.31

In questa affermazione dello psicologo norvegese ci sono quattro verbi (‘salvare’, ‘creare’,

‘acquisire’, ‘lavorare’) e due sostantivi ‘cura e ‘futuro’ che rinviano immediatamente ad una presa diretta sulla realtà. Il primo verbo viene usato proprio per essere negato. È come se Karlsen dicesse: “Siamo scienziati, mica stregoni”. Non rientra nei compiti della scienza sociale ‘salvare il mondo’, ma può e deve, la scienza sociale, creare. Ciò significa, come si affermerà più avanti nella tesi (vedi il paragrafo introduttivo) per chi si occupa di progettazione dei servizi alle disabilità, a ripensare fortemente il modello di intervento per le persone disabili. Le domande essenziali che hanno avviato un processo di ripensamento dei servizi sono così riassumibili: “Come prendersi

‘cura’ delle persona disabile considerandola ‘persona’ prima che disabile?”; “Come far vivere non solo più a lungo ma soprattutto meglio le persone con disabilità intellettiva ed evolutiva?”.

Creare, dunque. Ecco il primo verbo usato in senso positivo: le condizioni per una Qualità della Vita migliore, come si usa dire oggi, con espressione forse inflazionata, ma di sicura efficacia.

Una QdV migliore permetterebbe certo al tasso delle competenze sociali di elevarsi. E quali potrebbero essere queste competenze sociali (altri dice ‘trasversali’ e che Skinner chiamerebbe

‘comportamento sociale’)?

31 in B.H. Skinner, Difesa del comportamentismo, op. cit., pag. IV

Solo un breve accenno per non uscire dalla traccia di questa introduzione a Skinner. Gianluca Daffi32, riassumendo i dati di una ricerca condotta su 16 centri di formazione in provincia di Milano, Pavia, Brescia e Novara, annovera 12 temi fondamentali che riguardano le abilità sociali per interagire. Noi ne raccogliamo alcune: la comunicazione; relazionarsi in modo corretto; saper prendere decisioni; gestire le emozioni; essere creativi; apprendere ad apprendere; esprimersi in modo corretto; saper interpretare la realtà; una discreta capacità di adattamento. Raggiungere punteggi alti in questi indicatori non salverà il mondo (bisognerebbe anche chiedersi: ‘Da cosa?’

‘Cosa minaccia il mondo, quindi la specie, in questo momento?’), ma certamente permetterà di attivare ‘comportamenti efficaci’, proprio come lascia intendere Karlsen.

L’altro verbo qualificante è ‘acquisire’, legato all’espressione “un comportamento più efficace” e a nostro avviso richiamante subito il concetto di ‘cura’, almeno inteso come attenzione all’altro. Se questi passaggi logico-interattivi possono avere una qualche valenza la trovano nel costrutto di persona civile.

E cos’è una persona civile? È una persona che in un dato contesto attiva un comportamento che rende agibile, fruibile la propria disponibilità a mettere in comune competenze, intelligenza, sensibilità. Queste tre variabili nel momento in cui diventano valori sociali agiscono sul contesto e lo modificano. Diventano qualcosa di efficace. Potremmo quasi dire che attivare, acquisire avviare comportamenti che riducono le distanze fra le persone è rendere efficace la nostra presenza in contesti problematici e/o interattivi. E non è forse anche questo aver cura dell’altro, degli altri?

‘Essere civili’, ‘essere disposti a mettersi in gioco’, ‘essere aperti’ sono espressioni del linguaggio comune che si appellano però a un substrato esperienziale (o forse a un retroterra di valori) che rende la persona attenta alle proprie competenze sociali, al peso che si può esercitare sulla società, cioè, e in pratica, su chi ci sta più vicino. È importante conoscere dunque il proprio, come dire, peso specifico relazionale. Conoscere quel peso è un po’ come conoscere se stessi e muoversi con propri passi, consapevolmente. Nei limiti almeno che ci può permettere la consapevolezza rilevata delle nostre attitudini e competenze. Rilevata da cosa? Da quel che facciamo, dalle nostre esperienze, da quel che siamo in grado di compiere quando siamo in presenta di un contesto fatto di stimoli operanti. Tale consapevolezza ci richiama alla mente una affermazione di Norberto Bobbio, che qui, in questo contesto, pare cadere a fagiolo, essere spesa bene:

32G. Daffi, Le competenze trasversali nella formazione professionale, ed. Erickson, 2007, p. 10

“Il mite (c.n.) non ha grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso più a credere alla miseria che alla grandezza dell’uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri”.33

Ora, qualcuno potrà chiedersi: che ci fa una riflessione filosofica in un testo di psicologia, in un testo del tutto pragmatico? Forse perché come direbbe Skinner è un’affermazione utile. Del resto Skinner non ha mai negato l’esistenza del ‘temperamento’. Più volte nel suo Comportamento verbale usa espressioni come ‘persona garrula’, persona taciturna’, persona discreta’, ‘persona invadente’, ecc. Poi l’autore riconduce (in funzione dei meccanicismi, delle regole, del metodo con i quali spiega il comportamento di una persona) la forza di quel temperamento (per lui ‘risposte’) alle condizioni dentro le quali è possibile essere più o meno garruli o più o meno taciturni. Così come molto semplicemente esistono le persone perbene e quelle permale. La differenza? È anche quella molto semplice. A parità di contesto esistenziale esistono persone che non commetterebbero mai certe azioni, quelle stesse che per altre persone vengono spontanee. Le persone perbene sono quelle che sanno trovare; ci si passi un’espressione ‘forte’ (come direbbe Skinner) anche dentro lo sterco, e ci sono persone che cercano sterco dentro i fiori. Esempi li abbiamo avuti persino nei campi di sterminio. Come direbbe Hannah Arendt, certe persone farebbero qualsiasi cosa per un patata, altre sacrificano invece la vita. Ci fanno sorridere quei professionisti che preferiscono un’altra professionalità a un indicatore forte di etica. Non esiste professione senza etica. Esistono però i narcisisti della professione. Albert Camus (e con questo chiudiamo la digressione etica) ne La peste dice di non sapere ben cosa sia l’onestà, ma sostiene

“…che fare bene il proprio lavoro gli va parecchio vicino”. Una sola precisazione, nel ‘lavoro’

Camus non metteva solo le competenze tecniche, ma umanità e buon senso, e non sono doti che si apprendono, anche se lasciano segni nelle interazioni.

Dobbiamo ora spendere qualche parola sul verbo ‘lavorare’, legandolo al sostantivo ‘futuro’. Il futuro direbbe Stendhal è una parola magica. Fa riferimento alle attese, ai sogni, ma anche a un progetto (proprio come diremmo noi oggi Progetto di Vita). È avendo presente quel progetto che il lavoro diventa produttivo. Noi, magari più pragmatici di Stendhal, connotiamo in modo meno suggestivo, meno ‘letterario’, ci leghiamo meno al carattere del prodigioso, siamo più attenti ai programmi, alle procedure monitorabili dei comportamenti, tuttavia disegniamo un progetto di lavoro che sia in grado di delineare i contorni probabili di un prossimo futuro. In questo senso il

33Norberto Bobbio,Elogio della mitezza, ed. Linea d’Ombra, 1994, p.24

futuro non va salvato, va costruito o, se si vuole, costruire professionalmente il futuro è un po’

come ‘salvarlo’ da progettualità effimere, transitorie, lontane dai reali bisogni delle persone. Come direbbe ancora Arild Karlsen: le risposte a quei bisogni sono da stimolo a un futuro più ordinato, migliore, potenzialmente attivo.

Capitolo 1