Capitolo 4: Immigrazione e sindacato
4.2 Il ruolo dei sindacati italiani nel mercato del lavoro immigrato
I sindacati sono stati tra le prime istituzioni nel nostro paese a cercare soluzioni di integrazione per gli immigrati, quando negli anni „70 e „80 la politica si trovò totalmente impreparata alla gestione del fenomeno.81 Come si è visto nel primo capitolo, il legislatore italiano ha tardato nel regolare il fenomeno delle immigrazioni, e spesso ha risposto con leggi non totalmente adeguate. Le organizzazioni sindacali avevano compreso, non subito ma comunque prima della politica, che i fenomeni migratori sarebbero stati rilevanti e permanenti ed era quindi necessario mettere in atto
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S. Allievi, Immigrazione e sindacato: un rapporto incompiuto, in E. Reyneri, E. Minardi, G.Scidà (a cura di), Immigrati e lavoro in Italia, in Sociologia del lavoro, Bologna, Il Mulino,1996
80A.Bastenier, P.Targosz, Les organizations syndacales et l‟immigration en Europe, 1991, cit. in
R.Caccavo, Il lavoro straniero nelle strategie sindacali italiane in “Studi emigrazione”, XXXVII, n. 138, 2000, p.252
appropriate misure di tutela. In primo luogo occorreva limitare l‟aumento del lavoro irregolare dei migranti, dato che questi sarebbero stati impiegati con paghe inferiori e condizioni precarie, rendendoli quindi preferibili ai lavoratori italiani; in secondo luogo le migrazioni rappresentavano un ulteriore momento di solidarietà verso i più i lavoratori più deboli, da sempre categoria di riferimento dei sindacati82. L‟idea era quindi di equiparare i lavoratori immigrati ai lavoratori italiani, sia nei doveri che nei diritti. L‟approccio solidaristico fu preponderante in tutta l‟azione delle confederazioni più importanti (CGIL, CISL e UIL), ma non era sufficiente per un‟efficace gestione del fenomeno. Secondo Enrico Reyneri83 le organizzazioni italiane non ebbero una visione sufficientemente etnocentrica. Ovvero non cosiderarono le analogie tra l‟immigrazione degli anni ‟70 e l‟emigrazione italiana dei decenni precendenti che Allievi evidenzia in un studio del 1991; in particolare si rintracciano punti in comune nell‟inserimento del mercato del lavoro, l‟evoluzione del tessuto urbano e anche atteggiamenti discriminatori della popolazione locale84. Fu intrapresa quindi una politica di assistenzialismo, un approccio risultante dall‟incrocio tra il solidarismo cattolico e la matrice socialista. Tale scelta si contrapponeva con quella adottate da gran parte dei sindacati europei, che negli stessi anni facevano pressione sui governi nazionali affichè chiudessero le frontiere dell‟immigrazione lavorativa, considerata come una minaccia per i lavoratori residenti. Da allora, i sindacati e il mondo dell‟associazionismo (prima fra tutti la Caritas) hanno fatto forti pressioni sui governi affinché si giungesse ad una politica strategica sulla questione dell‟immigrazione.
Secondo alcuni degli autori di riferimento (Mottura, Pinto, Caccavo), l‟intervento sul fenomeno immigratorio delle tre confederazioni si sviluppa in quattro fasi85:
-L’ impatto (1975- 1986): in un primo momento l‟azione dei sindacati si sviluppò
sia sul versante nazionale che locale. Nei primi anni ‟80, la CISL istituì a Milano il Cesil (Centro di solidarietà coi lavoratori migranti), esperienza poi ripetuta a Torino, Bologna, Umbria e Lazio. In questi casi le iniziative sindacali erano affiancate da associazioni di volontariato, a conferma del carattere fortemente assistenzialista di tutte le attività svolte. Furono condotte due importanti ricerche: la prima nel 1976-77 a cura della Camera del Lavoro della Provincia di Trieste, che mise in luce il problema dei
82
L. Einaudi, op.cit,
83 E. Reyneri, La catena migratoria, Bologna, Il Mulino, 1979
84 S. Allievi, Immigrazione, mondo del lavoro, sindacato: quando la storia si ripete, in “Prospettiva
sindacale”, 1991, cit. in P.Zanetti Polzi,op.cit.
85P.Zanetti Polzi, Lavoro straniero. Cgil e questione migratoria dal 1945 ad oggi, Milano, Archivio del
lavoratori clandestini (circa quattro volte superiori rispetto ai regolari); dal secondo lavoro, promosso dall‟ECAP-CGIL in collaborazione con l‟Università di Roma, emergeva l‟estrema condizione di precarietà in cui si muovevano gli immigrati in quegli anni: mancanza del permesso di soggiorno e/o di un lavoro regolare, che anche quando presente era molto pesante e con uno scarso salario; assenza totale di qualsiasi forma di assistenza. Tuttavia la ricerca si concludeva con una conclusione che si rivelò ben presto errata: dato che si considerava l‟immigrazione di quel periodo temporanea, i lavoratori stranieri non avrebbero avuto interesse ad iscriversi e quindi non sarebbe stato necessario l‟intervento sindacale.86In aggiunta, l‟impostazione generale non distiguenva
tra clandestini e regolari.
Nel 1982 fu presentato al governo un documento unitario in cui si chiedeva all‟esecutivo un impegno chiaro ed efficace sulle normative in materia di immigrazione. L‟impegno fu anche a livello internazionale: nel 1978 furono avviate dei tavoli di dialogo tra sindacati italiani e jugoslavi che presentarono ai governi uno schema di accordo per la regolazione dei flussi di manodopera tra i due paesi. Ci furono poi incontri anche sindacati spagnoli e marocchini.
L‟intervento sindacale fece da spinta propulsiva per il dibabttito che si sviluppò intorno alla legge n. 943 del 1986, poi approvata e conosciuta come Legge Foschi.
-La riflessione (1987-1990): con l‟aumento della frammentazione del mercato
del lavoro, l‟attività sindacale divenne più articolata e si rafforzarono e livello locale le collaborazioni con le associazioni di volontariato. La tutela dell‟immigrato (non solo lavorativa, ma anche socio-economica) diventa un tema centrale nelle politiche rivendicative a livello nazionale. Inoltre, aumentavano i tesseramenti dei lavoratori stranieri e ben presto comparvero i primi delegati immigrati. Secondo una ricerca condotta da Mottura e Pinto tra il 1992 e il 1993 mancava però la formazione degli operatori sindacali per trattare adeguateamente la tematica immigrazione. Si andava incontro ad azioni prive di strategie e di conoscenza sia delle culture di origine sia dei problemi di inserimento87.Sergi e Carchedi parlano di <<integrazione perversa88>>,
ovvero un‟integrazione che avviene solo con misure di assistenzialismo che non portano
86Ecap- Cgil, Cattedra di Sociologia 2b dell‟Università di Roma (a cura di) Documentazione di base per
un‟indagine sui lavoratori stranieri in Italia, in “Esperienze e proposte”,n. 38, gennaio 1979, cit, in P.Zanetti Polzi,op.cit., p.144
87G.Mottura, P.Pinto, Immigrazione e cambiamento sociale. Strategie sindacali e lavoro straniero in
Italia, Roma, Ediesse, 1996
88
F. Carchedi, Le strutture associative degli immigrati, in N. Sergi, F.Carchedi (a cura di),
L‟immigrazione straniera in Italia. Il tempo dell‟integrazione, Roma, Edizioni Il Lavoro/Iscos, 1991 cit.
alcun beneficio economico, nella quale è assente una corretta canalizzazione della nuova manodopera. Continuava poi la resistenza a non fare distinzione tra clandestini/irregolari e regolari e le tessere vennero concesse indiscriminatamente agli uni e agli altri. Anche se l‟integrazione e il trattamento paritario erano obiettivi ancora lontani da raggiungere, vi erano episodi di immigrati pienamente inseriti nell‟organizzazione sindacale, anche nei ruoli dirigenziali. È il caso di Aly Baba Faye responsabile del Coordinamento nazionale immigrati CGIL, che denunciò gli atteggiamenti di assistenzialismo paternalistico e razzismo buono presenti in alcuni ambiti del sindacato89. Il rischio era che una politica priva di lungimiranza rischiasse di compromettere le conquiste sindacali, dequalificando il lavoro e, peggio ancora, che ciò sottraesse occupazioni agli italiani, dando luogo a tensioni sociali. L‟immigrato era quindi da trattare come soggetto attivo e partecipante della questione sociale e non come un carico aggiuntivo di lavoro per gli addetti ai lavori90.
-La ripresa (1991-1992):è la fase successiva all‟approvazione della Legge Martelli del 1990 e alle regolarizzazione che seguirono. In questo periodo aumentarono notevolmente i tesseramenti degli immigrati, toccando quota 76.900. A questo fece seguito anche l‟aumento delle contrattazioni a livello locale, sia settoriali che aziendali. Le azioni si concentravano soprattutto al Nord, dove molti lavoratori stranieri erano presenti nell‟industria, nell‟edilizia, nell‟artigianato e nei comparti agricoli.
-Integrazione (dal 1993): a partire dalla metà degli anni Novanta la presenza
straniera si è gradualmente regolarizzata e stabilizzata sul territorio, soprattutto nelle regioni del Centro-Nord. A livello sindacale questo si tradotto in un aumento progressivo degli iscritti stranieri e della partecipazione, come testimoniano le pagine successive. La via dell‟integrazione sembra essere stata intrapresa,ma il processo non appare ancora del tutto inclusivo e normalizzante: la percezione è che il sindacato debba liberarsi del tutto dal dualismo assistenza-tutela sindacale in senso stretto. Rimane ancora il rischio che l‟assistenza individuale schiacci le strategie rivendicative e contrattuali.
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A.Baba Faye, Solidarietà e pregiudizi nel sindacato, (a cura di) E. Pugliese, in Razzisti e solidali, Roma, Ediesse, 1993