• Non ci sono risultati.

È interessante a questo punto, dopo aver esaminato la “disciplina” della famiglia di fatto in Italia, rivolgere un rapido sguardo all’esperienza di alcuni ordinamenti stranieri, per cogliere la loro reazione di fronte all’emergere di questo fenomeno soprattutto sociale.

È bene precisare subito che da nessuna parte se ne rinviene, sino ad oggi, una compiuta regolamentazione positiva, tuttavia ampia e articolata (talora più, talora meno che nel nostro Paese), soprattutto negli ultimi anni, è stata l’attività della dottrina e della giurisprudenza.

Quanto all’uso delle espressioni per indicare il fenomeno, non si assiste ad una chiara evoluzione (che si accompagna, come già osservato, ad una evoluzione di idee e valori), almeno in modo così palese come si è evidenziato per l’esperienza italiana. È vero che, ad esempio, nel diritto francese il termine “concubinage” è stato usato di preferenza negli scritti più risalenti (ma non veniva caricato di connotazioni così negative come da parte della nostra dottrina): oggi si usano maggiormente le espressioni “union libre”,

“cohabitation sans mariage”, “mènage de fait”, ma non si rinuncia talora al termine di

“concubinage”, affermando che “union libre” indicherebbe piuttosto una relazione passeggera.

Nei Paesi anglosassoni si parla preferibilmente di “non marital cohabitation”,

“cohabitation without marriage”, privilegiando i termini più neutri, di descrizione oggettiva del fenomeno. Una qualche evoluzione si nota piuttosto nel diritto tedesco, dove si è passati dal “konkubinat” (che però qui non presentava valenza negativa) ad espressioni particolarmente icastiche e significative, che la lingua offre per indicare la fattispecie: nichteheliche Lebensgemeinschaft, che si potrebbe tradurre in “comunità di

310 QUADRI, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Famiglia e Diritto, 1999, n. 5, 502.

311 L. PALAZZANI, La famiglia “di fatto” è giustificabile giuridicamente?, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 2000, I , pag. 245.

vita fuori dal matrimonio”, Ehe ohne ring, “matrimonio senza anello”, fino ad un’espressione coniata appositamente, e che indica come una certa dottrina intenda ormai tale organismo, ovvero ehehnliche Lebensgemeinschaft, intraducibile alla lettera, ma corrispondente a “comunità di vita, assimilabile al matrimonio”.

Ma senza soffermarsi troppo sulle scelte linguistiche, che potrebbe risultare fuorviante, è opportuno analizzare, senza pretese di esaustività, l’atteggiamento dei legislatori stranieri. Come già sottolineato in apertura, non esiste in genere una disciplina della famiglia di fatto, salvo qualche norma regolante effetti particolari (come nell’ordinamento italiano). E l’attività degli studiosi e dei giudici non si discosta molto, almeno per gli ordinamenti più vicini al nostro, da quella italiana, anche se talora ci si è spinti più innanzi nell’assimilazione della famiglia di fatto a quella fondata sul matrimonio.

La famiglia di fatto in Francia…

In Francia l’agnosticismo dell’ordinamento era stato affermato dallo stesso Napoleone:

“Les concubins se passent de la loi, la loi se désintéresse d’eux”.

Uno dei riferimenti alla famiglia di fatto si trova nell’art. 340 c.c., che indica nel concubinato una delle ipotesi di azionabilità della ricerca di paternità. Norma analoga era contenuta nella lettera originaria del nostro codice civile del 1942, eliminata dalla riforma del ’75 che ha escluso ogni limite alla ricerca. Vi è tuttavia un’altra disposizione assai significativa che non trova riscontro nel nostro ordinamento (anche se al medesimo risultato è pervenuta la nostra giurisprudenza): il diritto all’assegno alimentare del coniuge divorziato viene meno se questi passa a nuove nozze o se è “ en état de concubinat”. E anche la legislazione sociale e fiscale accenna variamente al fenomeno, a “ceux qui vivent maritalement”, e in modo assai più incisivo di quanto faccia il nostro diritto: così è assicurato il capital-décés, una sorta di assegno alimentare alla persona che si trovava a carico totale e permanente dell’assicurato al momento del decesso (art. 364 c.s.s.). Ed ancora, equiparazioni fra convivente e coniuge sono previste dalla legge in materia di assicurazione sociale per malattie e maternità, nonché di pensioni di guerra. In materia di successione nel rapporto di locazione, si tutelano i conviventi non legati da rapporti di parentela con il conduttore. Infatti con la l. 9 luglio 1970, n. 598 il diritto a succedere è stato ristretto a favore del coniuge, dei discendenti e degli ascendenti, nonché dei soggetti a carico del conduttore, purché tutti conviventi effettivamente da un anno. Ciò a differenza di quanto previsto dalla l. 392/78 (equo canone) vigente in Italia.

Per quanto attiene al rapporto con i figli, il codice civile all’art. 374 prevede che l’autorità parentale venga esercitata dalla sola madre verso i figli naturali, ma il tribunale può decidere che essa sia esercitata congiuntamente o “comme si l’enfant était légitime”.

La dottrina e la giurisprudenza francese, per definire la famiglia di fatto, pongono maggiormente l’accento sul carattere stabile e continuato della relazione, più che sulla mera coabitazione. Talora peraltro si distingue (diversamente da quanto accade da noi) se la famiglia di fatto sia “adulterina” o meno, se cioè un convivente sia o no unito in matrimonio: nel primo caso sono state, ad esempio, annullate “pour cause immorale” le donazioni tra i conviventi di fatto, anche se la giurisprudenza è incerta sul punto.

Assai più avanzata, rispetto al modello italiano, è tuttavia la giurisprudenza nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra conviventi e per l’ipotesi di cessazione della famiglia di fatto. Il codice civile (art. 220) precisa che i coniugi sono solidalmente responsabili per

le obbligazioni assunte “pour l’entretien du ménage et l’éducation des enfants” (norma senza riscontro in Italia), e tale disposizione viene da molto tempo applicata anche ai familiari di fatto. Quanto alla cessazione dell’”union libre”, talora si è ritenuto sussistente una società di fatto fra i conviventi, per cui il patrimonio è stato suddiviso proporzionalmente ai loro rispettivi apporti (e in tale prospettiva è stato rettamente valutato anche il lavoro domestico), talaltra si è giustificato anche il ricorso all’azione di arricchimento senza causa. A volte è stato riconosciuto il diritto al risarcimento al convivente abbandonato quando tale abbandono dovesse ritenersi in qualche modo

“delictueux”, cioè quando il partner che ha fatto cessare l’unione l’aveva costituita con la promessa di matrimonio, ovvero ha impedito all’altro di trovare lavoro o comunque quest’ultimo era a suo carico esclusivo; in altre occasioni si è parlato di obbligazione naturale verso il partner, caratterizzata dalla “soluti retentio” e dalla possibilità di trasformazione in obbligazione civile, se vi è stata promessa di adempimento. Numerose sentenze affrontano, infine, il tema del risarcimento per morte del convivente: dopo alterne oscillazioni un arrt della “Chambre mixte” ha ammesso tale risarcimento, ma solo quando la convivenza non sia stata, appunto, “delictueuse” (adulterina).

nei Paesi di Common Law…

Nei paesi anglosassoni, fino ad una decina di anni fa, dottrina e giurisprudenza erano sostanzialmente concordi nel negare ogni diritto ai familiari di fatto, considerati

“strangers to each other”, anzi a volte guardavano a tale convivenza come ad una vera e propria condizione di peccato, fino a ritenere i contratti stipulati fra quelli (ad es. gli agreements che regolano i rapporti fra loro, con i figli e gli effetti della cessazione della relazione) nulli per “immoral consideration”. Si noti, fra l’altro, che fino al 1975 un

“penal code” come quello dello Stato della California considerava reato la coabitazione adulterina.

Gradualmente i giuristi e i giudici hanno mutato atteggiamento. Le prime indicazioni vengono dalle corti inglesi: si riconosce un “ownership interest” nella casa familiare, fino ad equiparare i diritti dei familiari di fatto sulla casa a quelli degli sposi. E diritti patrimoniali vengono ammessi, soprattutto dalle corti americane, sull’intero patrimonio del partner deceduto o comunque in caso di interruzione della convivenza, se il richiedente abbia contribuito alla sua formazione.

Assai celebre il caso Marvin c. Marvin312, tanto da parlarsi in termini di “prima e dopo Marvin”: diritti patrimoniali sono stati riconosciuti alla fine del rapporto sul patrimonio dell’altro partner anche in assenza di un contratto (che comunque dovrebbe ritenersi valido), in forza di un “tacit understatement”, l’identificazione di una aspettativa (“resulting or constructive trust”) o la prova di aver fornito “household services”

all’altro. Anche in mancanza di ciò il giudice dovrebbe comunque individuare rimedi equitativi equilibrati.

Non mancano pronunce in cui si affermano diritti al risarcimento per morte del partner o per la cessazione della relazione dovuta al fatto di un terzo, ora premiando un’aspettativa di matrimonio, ora riferendosi all’interruzione di un flusso di denaro a favore del superstite. Tuttavia, forse un po’ paradossalmente, proprio nei Paesi di common law, è la legislazione che fornisce la maggior tutela alla famiglia di fatto. Così,

312 Tra gli autori italiani E. ROPPO, Sul trattamento giuridico delle coppie che convivono fuori dal matrimonio (uno sguardo dalla California), in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1982, pag. 1066.

nel diritto inglese, in un Act del 1976313 ne compare una definizione: un uomo e una donna che vivono l’uno con l’altra “in the same household as husband and wife”. Lo stesso attribuisce ai conviventi i medesimi diritti dei coniugi, con la possibilità di ottenere una “injunction” per molestia contro il partner e l’allontanamento dalla casa familiare.

In materia di successione nel rapporto locatizio, questa è concessa al superstite purché la “cohabitation” sia durata più di un anno314, mentre, al fine di valutare l’opportunità di vari interventi sociali, i conviventi sono considerati un’unica famiglia con risorse e patrimonio comuni.

Se gli Stati Uniti non hanno compiuto molti progressi nella legislazione (vari progetti presentati nei singoli Stati non sono stati approvati), ancor più avanzate della Gran Bretagna sono le legislazioni di alcuni Stati del Commonwealth, dove si equiparano coniuge e convivente nel momento della cessazione del rapporto, anche ai fini ereditari, e durante lo svolgimento si permette di stipulare contratti alle medesime condizioni. Ma altri diritti, assai vicini a quelli del coniuge, sono riconosciuti in numerosi settori:

mantenimento, regime patrimoniale, adozione di minore ecc..

Degna di nota, in conclusione, la posizione dei Pesi dell’America Latina, dove vi sono stati interventi legislativi, ma solo di natura straordinaria e contingente, che hanno attribuito rilevanza alla famiglia di fatto.

…in Germania

Al contrario dei Paesi anglosassoni, nel diritto tedesco (R.F.T.) sono assai rari i riferimenti del legislatore alla famiglia di fatto (che finora è stata individuata dalla giurisprudenza, a livello di autoregolamento, essenzialmente per gli aspetti patrimoniali). Uno dei pochi, e senza dubbio, il più noto e maggiormente richiamato dai commentatori è contenuto nel § 122 B.S.H.G. del 1976, una sorta di norma di chiusura dettata in materia di sussidi sociali (Sozialhilfe), dove si legge “i soggetti che vivono in una situazione comunitaria analoga a quella di un familiare legale, non possono ricevere, per quanto riguarda sia i presupposti che la misura dei sussidi di carattere sociale, un trattamento più favorevole rispetto alla famiglia legale”: ciò significa che, in caso di convivenza o, meglio (traducendo letteralmente l’espressione “ehehnliche Gemeinschaft” usata qui per la prima volta, poi ripresa da una parte della dottrina), di comunità di tipo familiare, sarà rilevante, così come per le famiglie legittime, l’eventuale reddito da capitale o da lavoro del convivente di colui che chiede il sussidio.

La ratio della norma è stata chiarita dalla stessa C. Costituzionale Tedesca che ha messo in evidenza la correttezza dell’operato del legislatore nel trattare in maniera analoga situazioni che, dal punto di vista patrimoniale, sono assimilabili.

Se dunque raramente la normativa contempla il fenomeno, più significativa è l’opera della giurisprudenza che ha subito, e tuttora subisce, notevoli oscillazioni. Si è sostenuta, ad esempio, una radicale differenziazione fra famiglia legittima e famiglia di fatto, non ammettendosi la revoca delle donazioni fra conviventi in caso di infedeltà; in prospettiva capovolta, si è invece escluso l’arricchimento senza causa del familiare di fatto superstite che aveva accudito il defunto, argomentandosi che per il coniuge non sarebbe previsto alcun compenso.

313 “Domestic violence and matrimonial Proceeding Act”, 1976.

314 “The housing Act” 1980.

Altre pronunce ammettono la successione nel rapporto di locazione, ovvero la perdita del diritto all’assegno per il convivente separato o divorziato (ma esigendo la sua corresponsione in ogni caso, con intento sanzionatorio, dal convivente “colpevole”), riconoscono una responsabilità solidale per le obbligazioni assunte individualmente nell’interesse del nucleo familiare con azione di regresso, nonché l’esistenza di un diritto su una quota del patrimonio dell’altra parte quando sia stato prestato lavoro professionale o casalingo a suo favore.

Se la giurisprudenza è dunque sufficientemente significativa, rimarchevole è soprattutto l’atteggiamento della dottrina, che ha approfondito più di chiunque altro le caratteristiche del fenomeno. Numerose le opere di ampio respiro in materia, le monografie, ma anche studi comparatistici, di storia e sociologia del diritto. Talora gli autori tedeschi si sono soffermati su alcuni aspetti particolari, ma più spesso hanno tentato di individuare natura, fondamento, elementi e scopo della famiglia di fatto, o meglio, della comunità non familiare (“nichteheliche Lebensgemeinschaft”) o di tipo familiare (“ehehnliche Lebensgemsinschaft”). La dottrina ha posto l’accento sulla durata e stabilità del rapporto, ma si è chiesta, in un’ottica più generale, quale sia il metodo di approccio al fenomeno: utilizzazione del procedimento analogico rispetto alla disciplina familiare, o piuttosto esaltazione delle differenze, propugnando una legislazione ad hoc?

A questo riguardo si è richiamata l’autonomia privata dei conviventi, che potrebbero regolare sotto ogni profilo il loro ménage similmente a quanto possono fare i coniugi, altre volte si è ipotizzata una comunione dei beni o magari una società di fatto a scopo non di lucro o, più semplicemente, si è ammessa a posteriori la validità delle prestazioni tra i familiari di fatto a causa, appunto, della convivenza. Infine, si è delineata con particolare forza un’ipotesi di comunità familiare personale di fatto: dalla convivenza sorgerebbe una sorta di contratto “personale”, fonte di diritti e doveri non soltanto morali o sociali.

Non si è molto lontani, considerando le diversità di esperienze e cultura, dai riferimenti all’art. 2 Cost. e alle formazioni sociali in cui si svolge e arricchisce la personalità dell’individuo.

Paragrafo 2 La questione dell’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. alla famiglia di fatto

Come già accennato sopra, in giurisprudenza e dottrina è sorto l’interrogativo sulla posizione da riconoscere a chi presti la propria attività a favore del convivente more uxorio nell’esercizio dell’impresa di cui questi sia titolare e, in particolare, se sia applicabile la disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. sull’impresa familiare. Si è discusso sulla configurabilità di quest’ultima quando ci si trovi di fronte ad una famiglia di fatto, ovvero se il comma 3 dell’articolo sia passibile di un’interpretazione che comprenda nel

“coniugio” e nella “parentela” sia l’ipotesi della famiglia fondata sul matrimonio, sia l’ipotesi della comunità fondata sulla sola “stabilità dell’affectio” e solidarietà tra un uomo e una donna che collaborano alla gestione di un’azienda familiare, in assenza di crismi formali.

La nozione di “familiare” che la norma fornisce non lascia dubbi, almeno ad una prima considerazione, su quali siano i soggetti che possono far parte della fattispecie.

I problemi interpretativi che tuttavia nascono derivano, non tanto dalle espressioni utilizzate, espressioni che sotto il profilo tecnico-formale appaiono inequivocabili, quanto piuttosto dall’esigenza, oggi sentita più che mai, di apprestare strumenti di tutela

minima alle unioni libere, non formalizzate, cioè, attraverso il vincolo del matrimonio315. Questo interrogativo, affrontato de iure condendo in alcuni progetti di legge316, viene risolto positivamente già de iure condito da una schiera di autori. Esso, inoltre, ha costituito oggetto di esame da parte dei giudici in diverse occasioni, sebbene spesso solo in conclusione (e con trattazione marginale) dell’indagine volta a stabilire la rilevanza giuridica delle prestazioni lavorative effettuate da un soggetto a favore del convivente.

L’indifferenza del legislatore verso le libere unioni, mai disciplinate direttamente dall’ordinamento ma valutate volta per volta dai giudici in relazione ad una particolare prospettazione, ha ridotto la funzione del diritto a mera supplenza in questa materia. Il dominio della regolamentazione della fattispecie non può spettare, a queste condizioni, che all’analogia. Ma appunto per questo, le soluzioni non possono essere tranquillanti e si incontrano divergenti conclusioni nella letteratura giuridica.

L’unico punto certo è soltanto quello suggerito dall’esperienza nell’evoluzione dei tempi.

Di fronte a questa constatazione, l’illustre Giuseppe Ragusa-Maggiore317 propone un interessante, ed utile, esame storico della posizione dei conviventi e delle loro prestazioni economiche: la risalente giurisprudenza, nel solco della dottrina più accreditata, era incline a definire l’obbligo del concubino di riparare il pregiudizio arrecato dalla relazione al partner come dovere derivante da una ricevuta prestazione, per cui il corrispettivo elargito veniva inquadrato tra le donazioni remuneratorie.

Bisogna ricordare che questa tesi, indiscussa fino al 1954, si inserisce in un’epoca ancora legata ad una concezione arcaica della convivenza, alla quale si negava realtà giuridica. Il contrario avviso di un annotatore di una sentenza di questo tipo, in forza della sua autorità, si é posto, però, a base delle successive elaborazioni giurisprudenziali in tema di acquisti e della natura del rapporto definito di “convivenza parafamiliare”.

Ma le cose non sono mutate sostanzialmente: alla tesi della donazione remuneratoria si è solo sostituita quella dell’obbligazione naturale, poiché il dovere giuridico verso il partner è stato circoscritto alla fase finale dell’obbligazione, che è quella dell’adempimento, o meglio, quella dell’irripetibilità dello stesso.

Entrambe le interpretazioni, sebbene divise da un netto iato, hanno una connotazione etica che precede la giuridicità.

Ed ecco emergere l’ultima fase evolutiva, quella attuale, in cui l’acquisto in comune dei conviventi si assume nello schema di “una sostanziale collaborazione economica”.

Al giorno d’oggi non è più possibile discutere di doveri di prestazione di un partner verso l’altro nel senso di una donazione remuneratoria: la prestazione in questi casi “ha assunto tutti gli aspetti della rilevanza giuridica”.

Ma si può perfino giungere ad ammettere un’impresa familiare di fatto ad instar dell’impresa familiare legittima?

315 L. BALESTRA, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare, in nota a C. Cassazione, 18 ottobre 1976, n. 3585, Giurisprudenza Italiana, 1995, I , 1, 845.

316 Si ricorda la proposta di legge Magnani Noja presentata alla Camera dei Deputati il 30 ottobre 1979, n.892, la quale prevedeva che il III comma dell’art. 230 bis c.c. venisse modificato come segue: “Ai fini della disposizione di cui al presente articolo si intenda per famiglia anche quella di fatto e per familiari il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella in cui collaborano il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo”.

317 G. RAGUSA- MAGGIORE, Famiglia di fatto e impresa familiare, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1982, I , pag. 18ss.

Ripercorrendo le posizioni assunte dalla giurisprudenza, di Cassazione e di merito, riguardo il problema della configurazione giuridica della prestazione del convivente, non si può non accennare ad una sentenza della Suprema Corte, del lontano 1976318, che si inserisce nell’orientamento generale di negazione dell’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. al fenomeno de qua. La Consulta ha assimilato le prestazioni di lavoro svolte dal convivente more uxorio a quelle espletate nell’ambito della comunità familiare legale, che si presume svolta a titolo gratuito, in base ad un rapporto personale fondato sulla benevolentia e l’affectio fere coniugalis. Questa presunzione, circoscritta in termini precisi (coabitazione contraddistinta da comunione spirituale ed effettiva partecipazione alle risorse della famiglia di fatto)319 ha, peraltro, rappresentato un ostacolo sulla via del riconoscimento del contributo personale ed economico del convivente a favore dell’altro nell’elaborazione successiva non solo dei giudici, ma anche della dottrina.

Essa era ritenuta superabile con una prova precisa e rigorosa della volontà delle parti di assumere reciproche obbligazioni sinallagmatiche, in condizioni di subordinazione e dietro compenso. Si escludeva, così, la configurabilità di un’impresa familiare che si riteneva presupponesse l’esistenza della famiglia legittima.

Conferma nel merito di queste affermazioni è venuta anche dal Tribunale di Milano320.

Agli inizi degli anni Ottanta un pronuncia del Tribunale di Ivrea321 ha affrontato e risolto, questa volta positivamente, il problema dell’applicabilità diretta dell’art. 230 bis

Agli inizi degli anni Ottanta un pronuncia del Tribunale di Ivrea321 ha affrontato e risolto, questa volta positivamente, il problema dell’applicabilità diretta dell’art. 230 bis