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Il modello peculiare dell’impresa familiare, introdotto nell’ordinamento giuridico italiano dalla novella n. 151, si inserisce appieno nello spirito della riforma del diritto di famiglia, dettata dall’esigenza di armonizzare i rapporti patrimoniali all’interno del nucleo familiare.

Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che il riformatore italiano del ‘75 ha tratto ispirazione dalla riforma del diritto di famiglia francese, attuata con la l. 13 luglio 1965, n. 570, nella quale, però, un istituto analogo all’impresa familiare non è previsto98.

Sotto il profilo della disciplina del lavoro familiare, l’esperienza francese offre una codificazione della società fra coniugi e prevede l’istituto del “salaire différé”, a tutela del figlio di età superiore ai 18 anni che presti il suo lavoro nella famiglia

96 C. Cassazione, 9 gennaio 1995, n. 594, in Massimario Foro Italiano, 1995, secondo cui nella famiglia coltivatrice, retta dalle norme sulla società semplice, “ciascun componente ha la rappresentanza della stessa”.

97 V. COLUSSI, voce Impresa familiare, op. ult. cit., pag. 175.

98 M.C. ANDRINI, Azienda coniugale e impresa familiare, in Trattato di Diritto Commerciale e Pubblico e dell’Economia, F. Galgano, op. cit., pag. 63.

coltivatrice, ma non presenta, appunto, alcun fenomeno riconducibile al nuovo istituto familiare di cui all’art. 230 bis c.c., in quanto le forme associative in agricoltura hanno tutte una propria regolamentazione.

La situazione in cui si trovava il lavoratore familiare negli anni Settanta, situazione di grave e sostanziale ingiustizia, e che si manifestava non solo nei rapporti di lavoro inteso in senso stretto, ma anche, e soprattutto, in sede ereditaria, hanno indotto i legislatori europei a disciplinare in diritto forme di collaborazione che si esaurivano nell’ambito familiare e davano vita a situazioni di sfruttamento. Il familiare-lavoratore, in altre parole, prestava gratuitamente la sua opera e arricchiva, di fatto, dei risultati della sua prestazione il familiare-datore di lavoro, e questo arricchimento si concretava, materialmente, in beni che figuravano di proprietà di quest’ultimo o in avviamento dell’impresa eventualmente esercitata. In occasione della morte del titolare, però, sorgevano ulteriori ipotesi di trattamento ingiusto nei confronti del collaboratore, in quanto tutti i successori legittimi del primo venivano a beneficiare dei profitti realizzati, senza che di alcuna preferenza potesse godere chi vi aveva contribuito. Poteva quindi accadere che il familiare-lavoratore si trovasse addirittura escluso da ogni partecipazione a quelli che in definitiva erano anche frutti del suo lavoro (nel caso esistessero eredi legittimi di grado più prossimo), o, nella migliore delle ipotesi, che egli dovesse assistere a che su quei frutti partecipasse, in misura eguale alla sua, anche chi nulla aveva fatto per permettere che il patrimonio si formasse e accumulasse.

La considerazione di tutto ciò e l’opportunità di ovviare a questa disparità ingiustificata di trattamento soprattutto fra figli, hanno costituito i motivi per cui in Francia è stato introdotto l’istituto del “salaire différé”, la cui disciplina originaria risale al décret 29 luglio 1939, dedicato à la famille et à la natalité française (artt. 63-74), ma che è stata successivamente modificata da due leggi, l’una del 1960 e l’altra del 1967 e da un décret del 1984. Questa figura si basa sostanzialmente su una finzione legale per cui i discendenti di un imprenditore (exploitant) agricolo che partecipino direttamente ed effettivamente all’impresa (exploitation), senza essere associati agli utili e senza ricevere salario in denaro, sono considerati legalmente beneficiari di un “contratto di lavoro a salaire différé”. Ciò comporta che alla morte dell’imprenditore i discendenti in questione possono ottenere una somma pari alla metà del salario annuale spettante a un lavoratore agricolo (“salaire annuel soit de l’ouvrier agricole logé et nourri, soit de la servante de ferme également logée et nourrie”), moltiplicata per il numero di anni in cui essi hanno partecipato all’attività, fino al massimo di dieci (art. 67, I comma). Questa disciplina è stata pertanto sottratta ai principi del diritto successorio, in quanto il diritto al salario differito si acquista a titolo originario in forza di un’attività effettivamente prestata, ancorché in mancanza di un rapporto di lavoro formale.

Ipotesi analoga, quanto alle eccezioni portate alla disciplina delle successioni, è forse ravvisabile nell’ordinamento italiano nella l. 3 maggio 1982, n. 203 sui contratti agrari:

come già sottolineato, l’art. 48 prevede infatti che il diritto a continuare l’impresa agraria del de cuius spetti soltanto al coerede che ha la professionalità per condurre il fondo.

Sempre in Francia, in tema di lavoro prestato dai familiari, degna di menzione é anche la l. 73-650 del 13 luglio 1973, relativa allo “Statut des associés d’exploitation et à la modification de l’assurance vieillesse de personnes non salariées agricoles”: qui, all’art.

1, la figura dell’ “associé d’exploitation” è definita come la persona non salariata di età compresa fra i diciotto e i trentacinque anni, che sia legata da determinati vincoli di parentela con il capo dell’impresa agricola o con il suo coniuge, e che abbia per attività principale la partecipazione à la mise en valeur de l’exploitation. Importante è la

precisazione, da parte della stessa legge, che questa posizione non è incompatibile con il contratto di lavoro à salaire différé99.

Più di recente, l’istanza manifestata dalle donne francesi mogli di lavoratori autonomi, agricoltori od artigiani, di un ulteriore riconoscimento del loro lavoro svolto nell’ambito dell’attività familiare è stata soddisfatta da due leggi speciali: la legge sull’orientamento agricolo del 4 luglio 1980 e la legge del 10 luglio 1982 relativa ai congiunti degli artigiani o dei commercianti che prestino la loro attività di lavoro nell’ambito dell’impresa di famiglia100.

Si può quindi concludere che l’intervento della legge 151/75 in Italia rientra in un movimento più ampio, di dimensioni europee, preordinato alla tutela di situazioni ingiustificatamente trascurate ma rilevanti sul piano sociale, ed, anzi, la disciplina dell’impresa familiare, quale primo intervento diretto nella delicata materia del lavoro familiare, è comparsa sulla scena del diritto italiano solo quarant’anni dopo il primo tentativo francese.

99 V. COLUSSI, Voce Impresa Familiare, in Novissimo Digesto Italiano, op. cit., pag. 50.

100 V. nota 93.

Capitolo 2 Natura giuridica e fondamento dell’istituto Paragrafo 1 L’art. 230 bis c.c. e il modello imprenditoriale

Con la riforma del diritto di famiglia, nel 1975, il legislatore ha dato avvio ad una nuova fase per i modelli di impresa a spiccata caratterizzazione familiare, cosicché a quello proprio del codice del 1942, improntato ad una concezione gerarchica, è stato sostituito uno nuovo, l’impresa familiare. Con l’introduzione dell’art. 230 bis c.c. nella legislazione codiciale è stato così rovesciato quel principio che aveva dominato fino ad allora, secondo il quale nelle organizzazioni imprenditoriali a valenza familiare i componenti del nucleo partecipanti all’attività produttiva venivano estromessi da ogni potere decisorio e da ogni garanzia sul piano patrimoniale. L’inversione di tendenza, in seguito alle istanze emerse soprattutto nel settore agricolo per la disciplina, e la conseguente tutela, del lavoro familiare, ha così determinato la tipizzazione di una nuova ipotesi imprenditoriale, quella familiare, nella quale si è cercato di risolvere problemi inerenti aspetti interni alla struttura stessa, ovvero i rapporti intercorrenti fra il titolare e i collaboratori.

Si è già sottolineato come, in precedenza, la disciplina delle imprese a necessaria caratterizzazione familiare fosse limitata al profilo esterno del fenomeno, ai rapporti con i terzi, ignorando invece l’organizzazione dei rapporti interni fra i partecipanti, lasciati al diritto comune oppure tenuti addirittura sul piano della più assoluta irrilevanza giuridica. Ne deriva che il modello di organizzazione interna dell’impresa cui collabora il nucleo familiare era, nel codice del 1942, nient’altro che quello generale disciplinato dall’art. 2086, in cui il titolare é il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i collaboratori, legati o meno da un rapporto di lavoro, ma comunque privi di alcun titolo da far valere.

“Evoluzione” non significa, però, necessariamente, distacco definitivo da quanto ha preceduto, ovvero dalla disciplina generale del fenomeno imprenditoriale contenuta negli articoli del codice civile: l’impresa familiare è pur sempre un’impresa e nella sua disciplina si rintracciano elementi di consonanza, uniti ad elementi di antinomia, rispetto alle previsioni generali.

Più che creare un nuovo tipo di impresa, mediato fra la famiglia, intesa come società intermedia, e la gestione collettiva di un attività, il riformatore inserendo l’art. 230 bis c.c. nell’ordinamento italiano ha inteso proteggere e disciplinare un particolare tipo di fattispecie lavorativa: quella svolta da un familiare a favore di un altro familiare a titolo volontario ma non negoziale. Nell’impresa familiare, difatti, coesiste una comunione ideale di interessi che preesiste a qualunque forma contrattuale e deriva da quella societas naturale che è la famiglia, alla quale, però, si affianca una comunione materiale di interessi basata su un fattore comportamentale (il lavoro prestato nell’impresa o nella famiglia) da cui discende, automaticamente, per il familiare che liberi energie nell’ambito di questa formazione sociale, quel diritto di partecipazione di cui al comma 1 dell’art. 230 bis c.c..101

La sibillina e contorta formulazione della norma, la stessa denominazione “impresa familiare”, molto suggestiva in apparenza, pone all’interprete molte difficoltà e

101 M.C. ANDRINI, L’impresa familiare, in Trattato di Diritto Commerciale e Pubblico dell’Economia, F. Galgano, XI, Cedam, 1989, pag. 189.

perplessità, soprattutto per quel che concerne l’inquadramento dell’istituto e la possibilità di riportarlo nell’ambito dei principi generali relativi all’impresa e all’imprenditore (artt. 2082ss c.c.).

Queste difficoltà hanno indotto qualcuno a tentare di superare quei principi e la disciplina codiciale, attribuendo alla nuova figura una dimensione del tutto nuova che la allontani dall’impresa tradizionale e la porti ad esorbitare anche dai limiti concettuali di questa, avviandola a nuove conseguenze giuridiche della partecipazione all’esercizio di attività produttive. Fra questi, R. Costi102, il quale nota che l’impresa familiare, come impresa, non esiste, e non esiste nel senso che non esistono effetti giuridici che si riconnettano ad essa come attività, non esiste cioè uno statuto dell’impresa familiare, e la denominazione stessa dell’istituto indica soltanto l’esistenza di un’attività d’impresa attuata con la collaborazione di familiari e il conseguente rapporto che intercorre tra i collaboratori e il titolare. Altri103 esclude ci si debba riferire col termine “impresa”

all’attività economica organizzata e svolta professionalmente secondo quanto all’art.

2082 c.c., in quanto quell’espressione si riferirebbe, invece, alla dislocazione materiale,

“topografica” come la definisce V. Panuccio104, dell’attività lavorativa del familiare, che può svolgersi sia nella famiglia, sia nell’organizzazione produttiva diretta da un altro familiare. Il termine “impresa” contenuto nell’art. 230 bis comma 1 c.c. andrebbe inteso, insomma, come esercizio di un’attività da parte di un imprenditore nella quale si inserisce quella svolta dai collaboratori, secondo una valenza propria.

Questo orientamento, disgregante, è stato contrastato, in quanto, pur riconoscendo l’assoluta novità ed evoluzione rappresentata dalla norma, si ritiene dai più che l’impresa familiare attinga comunque la sua essenza dai principi e dalla disciplina generale dell’impresa, venendone condizionata, ma introducendovi, allo stesso modo, elementi innovativi.

Il nostro codice identifica nell’imprenditore il soggetto, nell’impresa l’attività economica e professionale organizzata per la produzione e lo scambio, nell’azienda il complesso di beni organizzati per tutto questo: da questi profili emerge la realtà giuridica dell’“impresa”.

L’art. 230 bis c.c. rispetta questa sistematica là dove imputa alla fattispecie “impresa familiare” una serie di situazioni giuridiche in favore dei suoi partecipanti, situazioni che si pongono come innovative rispetto a quelle, ad esempio, derivanti dai rapporti associativi o societari, ma che non potrebbero non esserlo, in quanto la norma tende a coprire quell’area residuale nella quale “non sia configurabile un diverso rapporto”.

Ciò non toglie, però, che la nuova previsione, quanto a contenuti, si ponga come un quid novi: accanto al nuovo modello di famiglia, quale quello emerso dagli articoli della riforma del ‘75, basata sui valori dell’eguaglianza e della solidarietà, non poteva non corrispondere un nuovo modello di impresa, contrapposto alle grandi imprese delle coeve riforme societarie. Un modello di impresa che esula dall’ambito tradizionale del diritto commerciale e del diritto agrario, ponendosi come tipo sociale, ancorché legislativamente tipizzato, intermedio fra l’attività di famiglia e quella d’impresa, senza alcuna unità normativa di raccordo: mentre, infatti, il modello organizzativo “impresa”

si caratterizza per l’utilizzazione sia a fini interni che esterni di quel tipico strumento che è il negozio giuridico, l’impresa familiare si fonda su una prestazione di lavoro che, a seconda della teoria cui si aderisca in tema di fondamento della fattispecie, può

102 R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, 6, Mi, 1976, pag.77.

103 V. nota 101.

104 V. PANUCCIO, L’impresa familiare, Giuffré, Mi, 1981, pag. 27.

costituire o meno oggetto di un contratto. L’inciso iniziale dell’articolo, “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”, limita inoltre l’ambito di operatività della norma ad ogni ipotesi atipica, al di fuori quindi dei tipi usualmente riconosciuti (comunione tacita familiare, piccola impresa, associazione non riconosciuta, società di persone, ecc.), in nome del comune denominatore costituito dal lavoro individuale sfruttato.

Sebbene sui generis, l’impresa familiare appartiene al genus “impresa” ex art. 2082 c.c.:

la legge ha infatti inteso tutelare il familiare la cui prestazione di fare avvenga in relazione ad un organismo produttivo, con un’attività organizzata di produzione o di scambio di beni o servizi.

Presupposto per l’applicazione della disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. è quindi l’esistenza di un’impresa: é in questo preciso ambito, difatti, che si crea ricchezza con il lavoro altrui organizzato, ed è solo in questo contesto che sorge la necessità di proteggere il familiare collaboratore dallo sfruttamento e da un ingiusto arricchimento del familiare imprenditore. Solo così, del resto, si giustifica il trattamento di favor riconosciuto in capo ai prestatori di lavoro legati da rapporti di parentela o affinità o coniugio con il titolare di un’impresa.

L’impresa familiare è contraddistinta da tutta una serie di caratteristiche, in positivo e a contrariis, che ne delimitano la figura e l’applicabilità e che pongono agli interpreti problemi non facili e soprattutto non risolvibili in modo univoco.

Fra i profili cui si accennava prima e che si ritiene riconducano chiaramente il nuovo istituto nell’alveo della disciplina prevista dagli artt. 2086ss c.c. vi è quello qualitativo.

L’impresa familiare non è un nuovo tipo qualitativo di impresa: quanto al campo di attività che essa è ammessa a svolgere, nel silenzio dell’art. 230 bis c.c., la dottrina e la giurisprudenza pressoché unanimi105 non pongono limitazioni. Solo isolate posizioni106 ritengono l’impresa familiare possa essere solo e sempre piccola impresa, per alcuni limitata addirittura ai soli familiari, con impossibilità di adibire lavoratori subordinati estranei. Ma l’intento del legislatore di non distinguere la nuova figura in base al suo oggetto risulta abbastanza chiaramente dai lavori preparatori: di conseguenza, tutte le attività economiche di cui all’art. 2082 c.c., specificate dai successivi artt. 2135 e 2195 c.c., commerciali, agricole e, per chi le riconosce, civili possono essere esercitate dall’imprenditore familiare, e a seconda del caso si applicherà lo statuto dell’impresa corrispondente. Vi possono così essere imprese familiari commerciali o industriali, dirette alla produzione o allo scambio di beni o servizi, anche se normalmente, secondo quanto ci insegnano la tradizione e la prassi, si tratta di imprese artigianali. Gli unici limiti sono rappresentati, e non potrebbe avvenire diversamente, dalle ipotesi in cui la legge stessa richiede determinate forme giuridiche per l’esercizio di determinate attività:

in questi casi le imprese, proprio per il loro oggetto, non possono costituirsi come

“familiari” (ad esempio, nel settore creditizio e assicurativo)107.

105 G. OPPO, L’impresa familiare, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia sub art. 89, a cura di L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, I , 1, Cedam, 1977, pag. 492. Così anche G. TAMBURRINO,

Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Utet, 1978, pag. 255; F. MATTIUZZO,

A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, L’impresa familiare. Aspetti di diritto commerciale, finanziario e previdenziale, Giuffrè, 1990, pag. 16.

106 P. RESCIGNO, Manuale d i Diritto Privato Italiano, Na, 1975, pag. 775. Così anche G. FERRI, Manuale di Diritto Commerciale, To, 1976, pag. 52.

107 G. GHEZZI, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro , in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1976, pag. 1383ss.

Portando all’estremo questa concezione “liberalizzante” dell’impresa familiare, alcuni autori108 hanno sostenuto l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. a qualsiasi fattispecie che abbia ad oggetto “un’attività economica che richieda un’organizzazione di lavoro e di beni per il suo svolgimento”, ivi compresa l’attività professionale. L’ipotesi, quindi, che il libero professionista utilizzi il lavoro dei familiari nell’esercizio della propria attività professionale sarebbe riconducibile all’impresa intesa in senso atecnico, svincolata cioè dalla dicotomia di cui all’art. 2082 c.c..

Se anche si concorda con l’idea che la categoria giuridica “impresa” è, concettualmente, un genus cui sono riconducibili varie species, ciò non significa che l’attività professionale possa essere inquadrata nel genus: ci si limita a ricordare qui la sentenza della Corte Costituzionale n. 42 del 26 marzo 1980 che, con estrema precisione, ha affermato che, alla luce dell’art. 2238 c.c., si ricava che il libero professionista non è un imprenditore. Parimenti, il carattere non imprenditoriale delle attività professionali intellettuali esclude possano considerarsi “aziende”, ai sensi

dell’art. 2555 c.c., gli studi professionali, ancorché dotati di organizzazione da grande impresa.

I tentativi di estendere l’operatività del regime dell’impresa familiare ai rapporti extraimprenditoriali sono confluiti, fra l’altro, in una proposta di legge (n. 1313 del 29 marzo 1977), nella quale, presosi atto della insufficiente ed incompleta tutela apprestata dall’art. 230 bis c.c. a tutta una serie di attività, ovvero l’attività impiegatizia, l’esercizio di libere professioni e le attività di carattere autonomo non imprenditoriale, era previsto l’inserimento nel codice civile dell’art. 230 ter intitolato “Attività familiare” il quale avrebbe esteso il concetto, moderno e giusto, contenuto nel primo comma della disposizione originaria a qualunque tipo di attività o collaborazione svolta nella famiglia.

Contrario ad una concezione lata di “attività nell’ambito della famiglia” si è dimostrato il Ministero delle Finanze, che in una sua Circolare109 ha escluso dalla portata delle norme sul nuovo istituto le attività diverse da quelle commerciali, in particolare le attività produttive di redditi di lavoro autonomo, “ancorché l’imprenditore si avvalga della collaborazione dei familiari”.

L’interesse e l’attenzione dimostrati verso la prestazione continuativa di lavoro a favore di un familiare che eserciti un’attività professionale o artistica sembra siano dovuti, più che al motivo di sottrarre i familiari a un ipotizzato sfruttamento, al desiderio della categorie interessate di usufruire dei vantaggi fiscali che la l. 2 dicembre 1975, n. 576 ha concesso alle impresa familiari. Con un sintomatico capovolgimento di situazione, l’applicazione di una norma, formulata per la tutela di una della parti del rapporto (il familiare-collaboratore), è stata invocata dalla controparte (il familiare-imprenditore). È indubbio che l’attività di un professionista, specie in alcuni settori, solo con difficoltà si distingue dall’attività di un imprenditore e che, soprattutto, non si distingue l’attività del collaboratore dell’uno e dell’altro. Restano, però, alcuni punti fermi ed insuperabili: la professione intellettuale è tenuta ben distinta dal nostro ordinamento da quella imprenditoriale (artt. 2082 e 2238 c.c.); l’attività del professionista si identifica con la persona più di quanto la (piccola) impresa si identifichi con la persona

108 F. MATTIUZZO, A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, op. cit., pag. 17. M. DAVANZO, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Pd, Cedam, 1981, pag. 17ss il quale, fra l’altro, considera l’attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare una forma specialissima di lavoro autonomo, anche se la legge assimila, agli effetti fiscali, il reddito di tale lavoro al reddito d’impresa. Contra Trib. Roma, 8 novembre 1978, in Giurisprudenza Commerciale, 1980, II , pag. 80.

109 Circ. Ministero delle Finanze n. 40 del 19 dicembre 1976.

dell’imprenditore; la normativa dell’art. 230 bis c.c. si dimostra inapplicabile alle attività non imprenditoriali in diversi punti qualificanti (v. la partecipazione alla gestione straordinaria, la prelazione sull’azienda…). Inoltre, emerge immediatamente l’incompatibilità fra le due fattispecie non appena si pone l’attenzione ai requisiti soggettivi e all’iscrizione in albi appositi cui in generale è subordinato l’esercizio di una professione intellettuale.

Si può quindi ammettere che il principio di onerosità del lavoro familiare consacrato nell’art. 230 bis c.c. operi anche nelle fattispecie di lavoro continuativo non comprese nella norma solo nel senso della prova, cioè sul piano meramente processuale.

Di fronte, poi, ad una prospettata censura di incostituzionalità dell’art. 230 bis c.c. ai

Di fronte, poi, ad una prospettata censura di incostituzionalità dell’art. 230 bis c.c. ai