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La filosofia del marchese de Sade, a cura di Natale Sansone, Mimesis, Milano, 2014, 132 pp.

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La filosofia del marchese de Sade, a cura di Natale Sansone, Mimesis, Milano, 2014, 132 pp.

L’opera del marchese de Sade ha avuto un destino per certi versi beffardo. Annoverata ormai da anni tra i capolavori della letteratura francese settecentesca – la consacrazione in tal senso si può considerare la sua pubblicazione nella prestigiosa «Bibliothèque de la Pléiade» dell’editore Gallimard nel 1990 – essa è tuttavia ampiamente trascurata in ambito filosofico. L’idea che Sade sia un narratore più che un filosofo, avvalorata più o meno apertamente da alcuni tra i più celebri studiosi contemporanei dell’età dei Lumi (basti pensare a Michel Onfray o a Jonathan Israel), stride violentemente con l’inesausta rivendicazione del valore intrinsecamente filosofico dei suoi scritti che il “divin marchese” non si stancò mai di ribadire: «Nonostante tutto io sono un philosophe; tutti quelli che mi conoscono non hanno dubbi sul fatto che io faccio della filosofia la mia gloria e la mia professione» (Sade, Notes littéraires).

Dalla constatazione di questo contrasto prende le mosse il volume collettivo La filosofia del marchese de Sade, edito da Mimesis nella collezione «Il caffè dei filosofi», a cura di Natale Sansone. L’ambizione del lavoro è quella di offrire una lettura autenticamente “filosofica” dell’opera di Sade, incentrata cioè sulla convinzione che – al di là di qualsiasi interesse letterario, pornografico o persino patologico – essa sia caratterizzata da contenuti teorici precisi e originali. Il saggio dello stesso Sansone (Una filosofia sperimentale, pp. 49-80) e quello di Pietro Emanuele (Perché recuperare Sade, pp. 11-30) si possono considerare una sorta di illustrazione programmatica di tale ipotesi. Oltre a ricostruire utilmente le vicende della modesta e ormai datata fortuna filosofica di Sade in Italia (riconducibile al periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta) e a deprecare il fatto che «il suo nome sia tuttora ignorato nella maggior parte delle storie della filosofia» (p. 11), entrambi gli studiosi mettono in luce l’opportunità di adottare una prospettiva storiografica “neutrale”, scevra dalle troppe incrostazioni ideologiche che hanno segnato (e segnano) la recezione di Sade. Solo questo lavoro di ricollocazione dell’opera sadiana nel contesto del pensiero dei Lumi sembra consentire di metterne in luce l’originalità, che risiede nella consapevole radicalizzazione di molti temi e atteggiamenti cari ai philosophes, quali l’irriverenza di Voltaire, l’ateismo di La Mettrie e Holbach, l’egoismo antropologico di Helvétius o l’esaltazione della naturalezza di Rousseau. Un interessante esempio della fecondità di una simile operazione è offerto dal serrato dialogo che Sade intavola con lo stesso Rousseau sullo spinoso tema della teodicea morale (p. 56 e ss.)

Queste premesse metodologiche, del tutto condivisibili, non paiono purtroppo trovare piena applicazione in tutti i contributi del volume che, nel suo insieme, risulta alquanto frammentario e privo di una coesione argomentativa. Il breve saggio di Anna Longo (Sade, animalità e materialismo, pp. 31-48), pur avendo il merito d’instaurare un confronto tra l’antropologia sadiana e alcune teorie biologiche settecentesche (quali quelle di Fréret, Robinet e Buffon) pare viziato dalla volontà di fare di Sade un precursore dell’«egalitarismo tra animali umani e non umani» (p. 31) e dell’antispecismo, problematiche tanto à la mode oggi quanto estranee al pensiero settecentesco. Il contributo di Paolo Mottana (Una pedagogia sadiana?, pp. 81-94) si propone di ricostruire alcuni aspetti dell’«antipedagogia» (p. 84) di Sade e della logica passionale che ne è alla base, attraverso una lettura incrociata di Les 120 journées de Sodome e della Philosophie dans le boudoir. Mentre il primo romanzo, che porta il significativo sottotitolo di Gli istitutori immorali, sarebbe interpretabile come il disegno complessivo di una «educazione strutturale, radicale e enciclopedica» (p. 85), il secondo scritto – a sua volta contraddistinto da un sottotitolo dal sapore apertamente pedagogico: La scuola del libertinaggio – ne rappresenterebbe un’applicazione specifica, attraverso la descrizione dell’“iniziazione” filosofico-sessuale della giovane Eugénie. Nonostante l’ipotesi di fondo del saggio appaia legittima, stupisce sia la completa assenza di riferimenti alle teorie filosofiche contemporanee concernenti l’educazione (Rousseau in primis), sia l’arbitraria esclusione di altri scritti di Sade in cui il disegno pedagogico è altrettanto evidente, come Juliette o, soprattutto, Eugénie de Franval. È tuttavia il lungo saggio di Silvia Capodivacca che chiude il volume (Dilettuoso Sade, ovvero: l’amorale della favola, pp. 95-132) a destare le maggiori perplessità. L’autrice sostituisce a quella ricostruzione storiografica puntuale e neutrale giustamente auspicata in altre sezioni del libro, una linea argomentativa sostenuta da concetti retorici confusi (quali le nozioni di «Karne wal (sic)» o «improduzione creativa», pp. 103 e 114) accompagnati da riferimenti estemporanei alla storia dell’arte e del cinema. La conclusione di questo volo pindarico – che spazia da Eschilo a Pasolini, da Golding alle Upaniṣad, passando per Jack lo squartatore – è che «il nucleo teorico sadiano sembra custodire la ricetta di una nuova umanità, un modello esistenziale decisamente differente da quello a cui siamo stati finora abituati e che in un certo modo eredita l’esortazione del pensiero contemporaneo verso un ‘nuovo umanesimo’» (p. 129).

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La filosofia del marchese De Sade, in conclusione, si rivela un volumetto potenzialmente interessante per l’approfondimento del dibattito – assente nel panorama di studi italiano – sull’effettivo statuto di Sade philosophe, ma che lascia tuttavia in bocca al lettore lo sgradevole sapore di un’occasione mancata [M. Me.]

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