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Il delitto di tortura: profili storici, dogmatici e politico criminali

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(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

I

L DELITTO DI TORTURA

P

ROFILI STORICI

,

DOGMATICI E POLITICO CRIMINALI

Relatore:

Chiar.mo Prof. Alberto Gargani

Candidata:

Sofia Beatrice Marrali

(2)

INDICE

INTRODUZIONE ………. 7

CAPITOLO I

TORTURA: EVOLUZIONE STORICA

1. Cenni storici sull’evoluzione della tortura nell’antichità e nei popoli

barbarici. ... 9

1.1. Dall’antica Roma alla caduta dell’impero romano ... 9

1.2 Scomparsa della tortura a seguito delle invasioni barbariche ... 12

2. Riscoperta dell’istituto e il suo sviluppo fino alla messa in crisi nel

Seicento ... 14

2.1. Riscoperta del diritto e del pensiero antico e conseguente riemersione dell’istituto

della tortura ... 14

2.2. Messa in crisi dell’istituto tra Cinquecento e Seicento ... 18

3. La tortura e la rivoluzione illuministica ... 24

3.1. Premessa ... 24

3.2. Cesare Beccaria e l’origine della diatriba relativa alla quaestio in caput sociorum

... 26

3.2.1. Abolizionisti relativi ... 28

3.2.2. Abolizionisti totali ... 30

CAPITOLO II

LA TORTURA NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

CONTEMPORANEO

(3)

1. La tortura nell’Ottocento, tra abolizione formale e permanenza

sostanziale ... 33

1.1. Cenni introduttivi ... 33

1.2. Passaggio dalla tortura inquisitoria all’obbligo di rispondere ... 34

1.3. La c.d. inquisizione soave ... 36

1.4. Tortura come prassi politica e poliziesca ... 38

1.5 Il codice penale per il Regno d’Italia del 1889 ... 39

2. Il regime fascista e la sua innata vocazione violenza ... 41

2.1. La persecuzione degli Ebrei ... 45

3. Repressione della violenza fisica e morale nella Costituzione ... 47

3.1. Cenni sul dibattito in assemblea costituente sull’art 13 comma 4 ... 47

3.2 Esame del quarto comma dell’articolo 13 Costituzione ... 50

4. L’assenza di disciplina nel periodo post costituzionale ... 52

5. La necessità di introdurre il divieto di tortura nell’ordinamento

italiano ... 55

5.1 Premessa ... 55

5.2 La violenza da parte delle forze di polizia negli anni della lotta al terrorismo ... 56

5.3 Trattamenti inumani e degradanti nelle carceri ... 61

5.3.1 Il sovraffollamento carcerario ... 63

5.3.2 Il regime penitenziario del c.d. “carcere duro” ... 65

CAPITOLO III

IL REATO DI TORTURA NEGLI ORDINAMENTI

EUROPEI

1. Premessa ... 71

2. La disciplina della tortura in Spagna ... 72

(4)

4. La duplice natura del reato di tortura nel Code pénal Français del

1994 ... 85

5. La peculiare vicenda belga ... 91

6. La lacunosa ed inadempiente legislazione tedesca ... 93

CAPITOLO IV

IL DIVIETO DI CORTURA NELLA CONVENZIONE

EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E NELLA

GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EDU

1. Il divieto di tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti

nell’art 3 CEDU ... 100

1.1. Obblighi di protezione ... 105

1.2 Obblighi di repressione penale ... 106

1.3 Obblighi procedurali ... 107

2. Il divieto di tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti nella

giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ... 109

2.1 I c.d. ill-treatment in policy custody ... 109

2.2. Divieto di pene inumani o degradanti ... 113

2.2.1. L’ergastolo ... 114

2.2.2. L’isolamento e sorveglianza particolare ... 116

2.2.3. Il sovraffollamento carcerario ... 119

2.2.4. Le condizioni igieniche ... 120

2.2.5. L’adeguatezza delle cure mediche apprestate all’interno delle carceri ... 121

2.3. Le pratiche di espulsione e di estradizione ... 123

3. Giurisprudenza europea in tema di tortura e trattamenti o pene

inumane o degradanti, in riferimento al caso italiano ... 126

(5)

3.1.1. Le vicende del G8 di Genova del 2001 ... 129

3.2. Divieto di pene inumane o degradanti ... 137

3.2.1 La questione ancora irrisolta del c.d. ergastolo ostativo ... 137

3.2.2. Il regime detentivo speciale dell’art 41 bis ord. penit. ... 141

3.2.3. Il sovraffollamento carcerario ... 146

3.2.4. L’adeguatezza delle cure apprestate in carcere e il problema della compatibilità

della detenzione con lo stato di salute del detenuto ... 149

3.3. L’espulsione e l’estradizione ... 158

3.3.1 l’extraordinary rendition ... 163

CAPITOLO V

L’INTRODUZIONE DEL DELITTO DI TORTURA

NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

1. I progetti di legge finalizzati all’introduzione del delitto di tortura

susseguitesi dalla X alla XVI legislatura ... 168

2. Il lungo iter parlamentare dalla proposta del Sen. Manconi alla legge

n. 110 del 2017 ... 174

3. Il delitto di tortura ... 181

3.1. Il soggetto attivo ... 183

3.2. Il soggetto passivo ... 187

3.3. Il fatto tipico ... 189

3.3.1 La condotta ... 190

3.3.2. L’evento ... 196

3.4. L’elemento soggettivo ... 201

3.5. Il trattamento sanzionatorio ... 204

3.6. La tortura del pubblico agente e le altre circostanze aggravanti ... 206

3.7. L’istigazione del pubblico ufficiale ... 212

4. Tortura e cause di giustificazione ... 214

4.1. Adempimento di un dovere ... 214

(6)

4.3. Uso legittimo delle armi ... 216

4.4. Stato di necessità ... 216

5. I limiti di effettività del delitto di tortura ... 219

5.1. Gli esiti dell’ipotetica applicazione della nuova disciplina ai leading case in tema

di abusi delle forze dell’ordine. ... 219

BIBLIOGRAFIA ………... 226

GIURISPRUDENZA ………. 232

(7)

INTRODUZIONE

La tortura, nell’immaginario collettivo evoca pratiche appartenenti ad un passato che sembrerebbe non riguardare più le nostre vite.

Gli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, insieme a numerosi altri episodi, ci pongono difronte ad una realtà differente, confermando, invece, l’attualità di tale pratica.

Un crimine antico la tortura, che dall’antica Roma fino alla rivoluzione illuministica, è stata considerata la pratica migliore per poter raggiungere il c.d. locus veritatis.

Gli esiti della caccia alle streghe avvenuta tra il Cinquecento e il Seicento hanno ampiamento dimostrato l’assoluta inaffidabilità della tortura.

Da un punto di vista teorico, fin dal 1764 quando Beccaria pubblicò il “Dei delitti e delle pene”, è unanime l’opinione secondo cui la tortura sia uno strumento irrazionale ed iniquo, utilizzato al solo fine di condannare e punire colui il quale si assume essere responsabile di un reato.

Ma, nonostante tale diffusa convinzione, la tortura permane tutt’oggi, in maniera sostanziale, negli Stati di diritto: essa viene perpetrata in forme notevolmente più evolute ed occulte rispetto a quelle da essa assunte nel passato. Nei moderni e legalizzati sistemi di coercizione della volontà degli imputati e/o dei condannati, la tortura si manifesta in termini di c.d. “carcere duro” e di “ergastolo ostativo”.

Negli ultimi decenni, la tortura si è nuovamente vestita di un velo di legalità: numerosi sono in dottrina coloro che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si sono persuasi del fatto che la tortura sia un efficace strumento di contrasto alle minacce terroristiche; si è giunti al punto di teorizzare la “tortura di salvezza”, ritenendo che in determinate circostanze particolari, il ricorso a tale pratica sia opportuno se non necessario.

(8)

Nel XXI secolo, la pratica della tortura assume, dunque, una sinistra attualità, soprattutto alla luce dell’odierna necessità, determinata dalla presenza di armi e tecnologie in grado di colpire una moltitudine di persone contemporaneamente, di bilanciare da un lato, l’uso della forza a salvaguardia della sicurezza e dell’incolumità pubblica, dall’altro, la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

L’Italia, in estremo ritardo rispetto al resto d’Europa, ha introdotto, solo nel 2017, il delitto di tortura.

Parte della dottrina ha rilevato che il ritardo del nostro ordinamento fosse dovuta al timore della classe politica di suscitare il malcontento degli operatori delle forze dell’ordine, tradizionalmente ostili all’idea di reprimere simili abusi.

A seguito delle violenze perpetrate nel corso del G8 di Genova del 2001, definite da Amnesty International: “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia

europea”, e, soprattutto, delle condanne pervenute da parte della Corte europea dei diritti

dell’uomo, l’inadempimento - da parte del nostro ordinamento - dell’obbligo di incriminare la tortura è divenuto evidente e insostenibile.

Con la legge 14 luglio 2017 n. 110 sono stati introdotti nel codice penale gli artt. 613 bis e 613 ter, che incriminano la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commetterla.

La criminalizzazione della tortura segna solo in senso formale un passo in avanti del nostro ordinamento: in realtà, come vedremo, la disciplina delle figure delittuose di rivela inadeguata allo scopo sotto molteplici profili.

Dopo una sincretica riorganizzazione storica, sarà analizzata la giurisprudenza europea in tema di tortura, al fine di meglio comprendere le ragioni alla base delle sollecitazioni provenienti dagli organi sovranazionali, per poi esaminare la struttura e i limiti funzionali della nuova disciplina.

(9)

CAPITOLO I

TORTURA: EVOLUZIONE STORICA

SOMMARIO: 1. Cenni storici sull’evoluzione della tortura nell’antichità e nei popoli barbarici –

1.1. Dall’antica Roma alla caduta dell’impero romano – 1.2. Scomparsa della tortura a seguito delle invasioni barbariche – 2. Riscoperta dell’istituto e suo sviluppo fino alla messa in crisi nel Seicento – 2.1. Riscoperta del diritto e del pensiero antico e conseguente riemersione dell’istituto della tortura – 2.2 Messa in crisi dell’istituto tra Cinquecento e Seicento – 3. La tortura e la rivoluzione illuministica – 3.1 Premessa – 3.2 Cesare Beccaria e l’origine della diatriba relativa alla quaestio in

caput sociorum – 3.2.1 Abolizionisti relativi – 3.2.2 Abolizionisti totali

1. Cenni storici sull’evoluzione della tortura nell’antichità e nei popoli

barbarici.

1.1. Dall’antica Roma alla caduta dell’impero romano

Il termine tortura deriva dal latino torquere1: letteralmente torsione delle membra, pratica utilizzata in ambito medico, e successivamente estesasi anche a quello giudiziale al fine di estorcere confessioni agli imputati.

La tortura a Roma era il mezzo con il quale il pater familias costringeva gli schiavi a confessare i fatti delittuosi dei quali si fossero macchiati2.

1 E. SCAROINA, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico 2018 2 Nuovo digesto italiano, a cura di Mariano D’Amelio, 1937-1940, p. 260

(10)

Con il passaggio all’età repubblicana, si assistette alla trasmissione della potestà inquirente, dal padre di famiglia al giudice dello Stato3; rimanendo però un mezzo di istruzione processuale riservato esclusivamente agli schiavi: sia nel caso in cui fossero stati ritenuti responsabili della commissione di un qualche reato, sia nel caso in cui fossero stati semplicemente testimoni di un fatto di cui avrebbero dovuto riferire, a meno che questo fatto non fosse stato imputato al loro padrone, perché in quel caso avrebbero dovuto essere esentati sia dalla tortura, sia dalla testimonianza tout court.

Nel periodo Imperiale la tortura venne estesa anche agli uomini liberi nell’ipotesi in cui si fossero macchiati dei delitti più gravi, quali la lesa maestà4, i reati di magia, il falso nummario e il veneficio. Rimanevano in ogni caso esclusi da questa pratica le classi più elevate della società, e cioè: Senatori, Cavalieri e Militi. Negli ultimi anni dell’Impero la tortura venne estesa ai proditores

et transfugae5, come pena aggiuntiva ai condannati a morte. Già in epoca romana la tortura non era esclusivamente giudiziaria ed esistevano diverse tipologie di tortura: una prima tipologia era quella dei condannati, di rado utilizzata come pena supplementare, più spesso invece al fine di venire a conoscenza dell’identità dei complici, questa pratica prese il nome di quaestio in caput sociorum. Una seconda tipologia riguardava invece la tortura degli accusatori che era applicata in tutte le ipotesi in cui, non sussistendo sufficienti prove a sostegno dell’accusa e mancando la confessione dell’imputato, si riteneva che l’unica strada percorribile per ricostruire i fatti fosse di sottoporre ai tormenti lo stesso accusatore. Una terza tipologia particolare di tortura, tipica dell’Impero romano era quella nei confronti dei cristiani che si volevano costringere alla conversione. Il reato di cui i cristiani venivano accusati era quello di lesa maestà

3 Nuovo digesto italiano, p. 260

4 Cospirando contro l’Imperatore, l’uomo libero perdeva questa sua qualifica, e doveva essere trattato come

un hostis, e ai nemici era riservato il medesimo trattamento dei servi. Nuovo digesto italiano, p. 260

(11)

espressa6.

La censura della tortura in quanto inumana e crudele si cercherebbe inutilmente negli scritti degli antichi7, ma molti filosofi e giuristi consideravano, già allora, la tortura uno strumento non idoneo allo scopo per il quale veniva utilizzato, cioè la scoperta della verità tramite confessione. Perciò non ammettevano la tortura se non quando sussistessero gravi indizi di colpevolezza, stabilendo inoltre numerose limitazioni relativamente all’età e alle condizioni fisiche dell’imputato, ma anche alla necessaria moderazione dei tormenti, e alla non genericità delle domande8.

Cicerone riconosceva l’inaffidabilità dello strumento della tortura: era consapevole del fatto che il dolore fosse in grado di far confessare a chiunque qualsiasi cosa, ma allo stesso tempo, riferendosi ai concetti platonici, lo considerava uno strumento indispensabile, l’unico in grado di scoprire la verità9; Quintiliano sottolineava l’inaffidabilità della tortura come strumento di ricerca della verità in quanto ciò che realmente differenziava chi avrebbe confessato e chi no era la sola resistenza fisica10; l’Imperatore Ottaviano Augusto in un editto, riportato nel Digesto, da un lato si dichiarava contrario all’applicazione incondizionata dei tormenti, in omnia causa et persona, ma dall’altro ne riconosceva l’efficacia quando la gravità del fatto e la mancanza di prove li rendessero necessari11; Ulpiano era contrario alla tortura considerandola uno strumento molto più condizionato dalla natura del soggetto sottopostovi che non dalla sua colpevolezza.

6 T. PADOVANI Tortura. Giustizia Criminale. Radici, sentieri, dintorni, periferie di un sistema assente, Pisa

2015, p.44, la lesa maestà poteva realizzarsi semplicemente tramite la manifestazione di un pensiero differente rispetto a quello dell’Imperatore, indipendentemente dalla commissione di azioni qualificabili come crimini. Nel caso di specie dei Cristiani il reato commesso era di particolare gravità in virtù del fatto che L’Imperatore era considerato una divinità, e questi si rifiutavano di considerarlo e onorarlo come tale.

7 Piero Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Giuffrè 1954, p.210 8 Nuovo digesto italiano, p. 260

9 A.M. Nervi, La tortura ieri oggi e domani? , Universite Europeenne Jean Monnet, Bruxelles 2013, p. 18 10 A.M. Nervi, La tortura ieri oggi e domani? , p. 18

(12)

1.2 Scomparsa della tortura a seguito delle invasioni barbariche

Con la caduta dell’Impero romano (476 d.c.) e per circa i sette secoli successivi la tortura scomparve quasi completamente dal panorama europeo, a seguito delle invasioni barbariche: i popoli barbari possedevano un sistema giuridico primitivo rispetto a quello romano, in cui non trovava spazio l’istituto della tortura. Il mancato ricorso alla tortura dipendeva da una concezione privatistica del diritto penale. Si riteneva che laddove fosse sorta una controversia sarebbe stato più opportuno, anche per mantenere la pace sociale e non dar luogo a guerre e faide intestine, risolvere i conflitti in maniera privata tra le famiglie per mezzo del guidrigildo12: raggiunto l’accordo, la

controversia doveva considerarsi conclusa.

Nel caso in cui non fosse stato possibile trovare una soluzione, sarebbe stato necessario ricorrere ad un processo pubblico orale e rituale difronte ad un giudice che avrebbe svolto le funzioni di arbitro. Il giudice non doveva essere un esperto di diritto: non ci si affidava a lui e alla sua conoscenza del diritto per risolvere la controversia, ma da questi ci si aspettava semplicemente che vigilasse sullo svolgimento dell’ordalia, che prendesse atto delle risultanze delle prove e alla luce delle stesse emettesse una sentenza. La decisione vera e propria era affidata alla divinità.

Le prove ordaliche utilizzate erano di tre tipi: il giuramento, il duello e il giudizio di Dio in senso stretto. Quest’ultima era una prova in cui una o entrambe le parti, a seconda dei casi, dovevano affrontare una situazione di rischio, tramite la quale sarebbe stato possibile stabilire chi tra loro avesse il favore della divinità.

Le prove ordaliche si componevano di una pluralità di fasi: preparatoria, esecutiva e di accertamento dei risultati delle prove; era necessario molto tempo per poterle eseguire. Le ordalie

12 Era il prezzo prestabilito, tradizionalmente in bestiame e successivamente sostituito dal denaro, che

l’offensore doveva pagare all’offeso o alla sua famiglia per riscattarsi dalla vendetta; esso consisteva quindi in un equo indennizzo valutato sulla base del valore economico da dare alla vita o ad altro bene che fosse stato leso.

(13)

non erano semplicemente dei processi, ma dei veri e propri riti religiosi, eseguiti da un chierico, il quale, prima di dare inizio alle prove, aveva il compito di evocare la divinità, di chiederle aiuto per la risoluzione della controversia; solo la divinità sarebbe stata in grado di indicare quale delle parti avesse ragione e quale torto. Se si esaminano alcune delle prove al tempo praticate, risulta evidente che non solo le ordalie non avessero alcuna base giuridica, ma anche come fossero totalmente lasciate al caso13.

Questi processi erano incentrati sullo stretto legame con la divinità al punto che l’unico modo per fare appello contro la sentenza emessa era quello di accusare il giudice di aver manipolato l’esito dell’ordalia, instaurando quindi un conflitto personale con il giudice.

Originariamente il sistema ordalico vigeva per i soli uomini liberi, per gli schiavi invece, le norme romane sulla tortura furono accolte sia dalle leggi romano-germaniche sia dalle leggi germaniche. Quest’ultime registrarono nel corso del tempo un movimento abolizionista, iniziato con una semplice richiesta di esercizio non temerario dell’istituto, fino a quando i longobardi, entrando nell’asse imperiale, equipararono il trattamento processuale di liberi e servi14.

13 L’ordalia aquae ferventis: dell’acqua bollente, dove un anello veniva messo in una pentola di acqua

bollente nella quale le parti avrebbero dovuto mettere la mano per recuperarlo, chi si fosse ustionato sarebbe stato considerato soccombente; l’ordalia della croce: le parti dovevano tenere le braccia sollevate difronte ad una croce, chi avesse resistito più a lungo avrebbe vinto; l’ordalia delle sorti: utilizzata per scoprire l’autore di un omicidio nel corso di una rissa, in questi casi la decisione veniva letteralmente lasciata al caso tramite delle estrazioni a sorte. Per un maggior approfondimento in materia si veda H.C. Lea, L’ingiustizia della

giustizia. Storia delle torture e delle violenze legali in Europa, pp. 249 ss. 14 Nuovo digesto italiano, p. 261

(14)

2. Riscoperta dell’istituto e il suo sviluppo fino alla messa in crisi nel

Seicento

2.1. Riscoperta del diritto e del pensiero antico e conseguente riemersione dell’istituto

della tortura

Nei secoli immediatamente successivi all’anno mille vennero riscoperte la scolastica, la filosofia greca e il diritto romano, portatori di valori e principi profondamente in contrasto con la logica alla base delle ordalie.

A fianco del pensiero romano, i giuristi medievali ricevettero anche l’eredità della Patristica, che aveva assunto un atteggiamento profondamente critico nei confronti della tortura. Sant’Agostino nel “De civitate dei” (413 – 426), ne denunciò la pericolosità, nonché l’ingiustizia che risiedeva nell’applicare una pena certa ai danni di una persona della cui colpevolezza non vi era certezza15.

La rigida presa di posizione che la Chiesa aveva coerentemente assunto per un millennio, rimase tale fino a che questa si rivolse alle sole coscienze dei fedeli; ma dal momento in cui iniziò ad avere anche un potere temporale, la tortura, che fino ad allora era stata oggetto di dure critiche, cominciò ad essere tollerata e qualificata come un male necessario16.

Il sistema di risoluzione delle controversie invalso in Europa per diversi secoli, iniziò a venir meno ad opera di Papa Innocenzo III con il quarto Concilio Lateranense del 1215, con il quale si vietò ai chierici di praticare le ordalie; privandole, in tal modo, delle fondamenta sulle quali si reggevano,

15 Piero Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Giuffrè 1954

16 Un esempio di questo cambio di rotta, può essere rappresentato dalla Bolla Ad Extirpanda del 1252,

emanata da Innocenzo IV, nella quale si permetteva la sottoposizione ad una lieve tortura degli imputati di eresia; successivamente seguirono la bolla Ut negotiorum fidei del 1256 di Alessandro IV e una decretale di Clemente V Multorum querela, dei primi del 1300, per mezzo delle quali si permise, progressivamente, anche ai rappresentanti del clero di prendere parte attivamente alle pratiche di tortura. P. Fiorelli, La tortura

(15)

poiché, in assenza di un esponente del clero che le celebrasse, non avrebbero più potuto beneficiare dell’aspetto pregnante del rito rappresentato dall’invocazione delle divinità, venendo a perdere la loro ragione d’essere.

Nel 1322 Papa Giovanni XXII, a seguito del Concilio di Valladolid, pose il divieto espresso della pratica delle ordalie, minacciando la scomunica automatica nei confronti di chiunque avesse preso parte a questi giudizi. Il Concilio era espressione di una mentalità moderna e razionale che condannava i riti magici, come le ordalie. Il Concilio Lateranense e quello di Valladolid non furono il frutto di un risveglio improvviso della ragione, bensì di un contesto culturale che, nel corso del tempo, si era andato profondamente modificando17.

La nascita e lo sviluppo dei comuni condussero alla necessità di gestire delle complesse organizzazioni sociali, organizzazioni che avevano bisogno di una giustizia che fosse chiara e definita, non lasciata al caso, una giustizia in grado di individuare quelli che fossero i reali responsabili dei delitti. In questo contesto, lo scopo della punizione doveva essere quello di garantire la pace pubblica e, affinché questo fosse possibile, era necessario che la popolazione fosse intimamente convinta della giustizia dei processi: in caso contrario - se si fossero persuasi del fatto che l’individuazione del colpevole fosse stata lasciata al caso - le condanne avrebbero perso ogni forma di autorità e soprattutto la loro funzione general preventiva.

Il legislatore comunale teneva nei confronti della tortura un atteggiamento volto ad evitare il più possibile l’arbitrio di giudici ed esecutori; a tal fine, le norme statutarie della maggior parte dei comuni, avevano ad oggetto la determinazione dei casi in cui la tortura fosse stata lecita e di tutte le condizioni che necessariamente avrebbero dovuto essere presenti18.

Il sistema giudiziale che nacque in questo periodo e che rimarrà in vigore per secoli fino quasi ai giorni nostri fu quello inquisitorio, il quale era per definizione un processo scritto, al fine di evitare

17 T. Padovani, Tortura, p. 48 ss.

(16)

che i giudici potessero essere accusati di comportamenti arbitrari o illegali; e segreto, per evitare che il giudice subisse influenze dall’esterno. La difesa assumeva un ruolo estremamente marginale, e per certi reati di particolare gravità, era addirittura vietata. L’idea che si sviluppò in questo periodo era quella per cui la verità non era un qualcosa di conoscibile, bensì sarebbe esistito un

locus veritatis, un luogo nel quale la verità risiedeva. Lo scopo doveva essere, perciò, quello di

raggiungere la verità e nessun prezzo poteva essere considerato troppo alto, per questo fine. Nell’ottica di ricerca della verità ad ogni costo, venne reintrodotta la tortura, quale strumento più idoneo alla ricerca della verità.19 Si posero, però, problemi di ammissibilità relativamente alle prove indiziarie e alle testimonianze: le prime, non essendo prove certe, rendevano necessaria un’opera intellettiva e di connessione logica da parte del giudice, non di sua competenza, dovendo egli andare alla ricerca della verità, non essendone il depositario; le testimonianze ponevano problemi in relazione alla non affidabilità assoluta dei testimoni rendendo necessaria quindi la presenza di una pluralità di testimoni, che riferissero circostanze identiche e non singulares, cioè simili.

L’imputato veniva ad essere identificato con il locus veritatis, poiché unico depositario della verità; in questi casi la tortura emergeva quasi come logica conseguenza, come unica via percorribile per poter raggiungere la verità. Essendo la verità un bene prezioso, essa doveva essere ottenuto in maniera genuina; la tortura non poteva, dunque, essere impiegata in ogni circostanza, per mano di chiunque; necessitava di una minuziosa regolamentazione destinata ad assicurare l’idoneità dello strumento probatorio agli scopi processuali.20

L’imputato, essendo locus veritatis, era il soggetto passivo per antonomasia della tortura, in quanto investito da un obbligo di verità. I giuristi medievali erano già consapevoli che la tortura non potesse essere impiegata indistintamente per qualunque reato; e necessitasse di limiti. Si operò una

19 T. Padovani, Tortura, p. 51 20 T. Padovani, Tortura, p. 51 – 52

(17)

distinzione tra: reati gravi21, rispetto ai quali la tortura poteva essere esperita; reati lievi22, per i quali invece era vietata. Problematica era l’individuazione di un confine tra le due tipologie poiché piuttosto labile23.

Nell’ambito delle cause penali era prevista la possibilità di torturare anche il testimone, gravato di un obbligo di verità ancora più pregnante di quello posto in capo all’imputato; il silenzio o la mancata collaborazione dell’imputato poteva essere giustificata con la volontà di quest’ultimo di tutelare sé stesso, mentre in capo al testimone questa giustificazione non poteva essere rinvenuta.

Per poter assoggettare un testimone a tortura era necessario che si verificassero alcune circostanze alternative: che il testimone fosse renitente, si fosse cioè rifiutato di rispondere o di giurare; che il testimone fosse falso, non era necessaria la condanna per mendacio, bastava essere colpiti dall’accusa; che il teste fosse considerato vacillante24. Un ulteriore caso in cui era possibile torturare un testimone, era quello del testimone infame25.

21 Lesa maestà, eresia, magia, falsa moneta. 22 Delitti colposi puniti con pena pecuniaria lieve.

23 T. PADOVANI, Tortura, p. 68, indica come tra due fasce estreme di crimini, per le quali la tortura era

sempre ammissibile, ovvero non lo era mai; esisteva una vasta fascia intermedia, che veniva variamente trattata all’interno delle legislazioni comunali o statali. Quindi, in rapporto alle varie realtà locali si trovavano confini diversi.

24 Un testimone poteva essere qualificato come vacillante in tre differenti ipotesi: nel caso in cui in giudizio

riportasse fatti diversi da quelli dichiarati in sede extragiudiziale; nel caso in cui si trattasse di un teste

contrarius, cioè di un teste contraddittorio; oppure infine nel caso di un teste varius, un testimone che

rilasciava versioni diverse della medesima vicenda, con particolari significativi diversi. T. Padovani, Tortura, p. 71

25 T. PADOVANI, Tortura, p. 71, quella di infame era una condizione personale definita status lesae dignitatis – stato di dignità ferita –, che poteva derivare da una condizione di fatto e quindi per esempio dalla

fama di quel particolare soggetto, oppure da una condizione di diritto come l’aver subito una condanna penale.

(18)

Anche l’accusatore26 poteva andare incontro a tortura, specialmente nell’ipotesi in cui le sue accuse non avessero trovato riscontro probatorio; in tali circostanze avrebbe dovuto fornire lui stesso le prove della colpevolezza, venendo sottoposto a tortura.

Alla tortura poteva infine farsi ricorso, sconfinando così in un’ipotesi di tortura punitiva, nel caso in cui la persona offesa dal reato non avesse denunciato il crimine subito. Il non-denunciante veniva sottoposto a tortura al fine di forzarlo a rivelare il nome dell’autore del crimine.27

2.2. Messa in crisi dell’istituto tra Cinquecento e Seicento

A partire dalla seconda metà del secolo XIII, nel momento in cui la tortura venne reintrodotta stabilmente nei giudizi penali, le riflessioni sulla stessa diedero luogo a dubbi che, nel corso del Cinquecento e del Seicento, si concretizzarono nella realizzazione di numerosi scritti, fortemente critici, ispirati per la maggior parte dagli orrori dell’Inquisizione28.

Notevolmente anteriore, avanguardista dei critici della tortura, ma comunque degno di nota, fu Giovanni Boccaccio. In una delle novelle del “Decamerone” (1349 – 1351), nello specifico quella in cui si narrava la vicenda di Tedaldo Degli Elisei, prese posizione contro la tortura. Il racconto si concludeva con una riflessione del protagonista sulla fallacia dello strumento, sulla facilità con cui era possibile ottenere una confessione da un innocente29.

26 T. PADOVANI, Tortura, p. 74, ricorda le parole del glossatore Ugaccione “a iudice quandoque torqueur testis quandoque reus quandoque accusator”.

27 T. Padovani, Tortura, p. 67 ss.

28 Tribunali speciali istituiti dalla Santa Sede, tra XII e XIII secolo, originariamente con lo scopo di reprimere

l’eresia; in un secondo momento i processi si estesero anche alla ricerca e alla repressione della stregoneria e della magia.

29 “… lo innocente per falsa suspizione accusato e con testimoni non veri averlo condotto a dover morie. Oltre a ciò la cieca severità delle leggi dei rettori, li quali assai volte, quasi solleciti investigatori degli

(19)

Juan Louis Vives, scrisse “De anima et vita” (1538), un commento al “De civitate dei” di Sant’Agostino, in cui si soffermò in special modo sui brani relativi alla tortura. Vives si diceva meravigliato del fatto che una società cristiana avesse conservato, con tale attenzione e cura, istituti pagani, contrari non solo agli insegnamenti cristiani, ma all’umanità stessa30. L’opera venne conclusa osservando come fosse sì possibile addurre argomentazioni sia a favore sia contrarie alla tortura, ma la differenza tra queste fosse profonda: fortissima sunt quaequmque contra tormenta

dicitur, quae vero pro tormentis futilia et imbecilia31.

Giovanni Wier, nei sei libri del suo “De praestigiis daemonum” (1563), ebbe come obbiettivo quello di combattere le condanne per magia qualificandole come prive di oggetto. Fu il primo ad intuire la strada da percorrere per salvare degli innocenti da torture e condanne, ritenendo che avrebbero dovuto essere lasciate da parte le astrattezze toriche per concentrarsi sui numerosi casi concreti, la cui assurdità era facilmente rinvenibile con i mezzi già al tempo offerti dalla scienza.

Cornelio Loos, teologo e polemista, dichiarò essere dovute esclusivamente alla tortura le confessioni delle streghe; arrestato dall’Inquisizione, dopo mesi di carcere venne costretto a firmare una ritrattazione32 (15 marzo 1592); ciò non lo fermò dal riprendere appena poté la sua dottrina33, che lo portò ad una condanna a morte sul rogo, alla quale riuscì però a sfuggire poco prima grazie a morte naturale.

errori, incrudelendo fanno il falso provare. E sé ministri dicono della giustizia di Dio, dove sono della iniquità e del diavolo esecutori” T. Padovani, Tortura, p. 122

30 P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 222

31 Così forti sono le argomentazioni di coloro che sono contrari alla tortura, quanto stupide e futili quelle di

coloro che sono a favore.

32 La sua ritrattazione venne aggiunta da Martin Delrio in appendice al V libro della sua opera

“Disquisitiones magicae”.

33 Il libro “De vera et falsa magia”, all’interno del quale si trovava la maggior parte della dottrina di Loos, fu

sequestrato dalle tipografie, e non venne mai pubblicato; se ne conservo semplicemente in parte il manoscritto. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune.

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Sempre in ambito extragiudiziale è opportuno ricordare Michel De Montaigne, pensatore francese cinquecentesco: la sua fu una critica radicale contro la tortura. Nel capitolo V libro II dei suoi “Saggi” (1580) scrisse che la tortura che era un’invenzione pericolosa, espressione più che di verità, di resistenza fisica. Secondo l’autore il fondamento della tortura avrebbe dovuto essere rinvenuto nella forza della coscienza: ragion per cui avrebbe dovuto spingere il colpevole a confessare e l’innocente a resistere; ma in realtà il sistema era incerto e pericoloso, mettendo in evidenza come per far cessare i tormenti, si confesserebbe qualsiasi cosa34.

La critica di De Montaigne nei confronti della tortura si allargò giungendo a ritenere ingiusta la tortura anche quando avesse raggiunto la verità, utilizzando il concetto di condanna istruttoria: la tortura non avrebbe mai trovato giustificazione, nemmeno nell’ipotesi in cui avesse ottenuto la verità, poiché i mezzi impiegati per ottenerla avrebbero dovuto essere considerati intrinsecamente incompatibili con il senso della ricerca probatoria.

Della prima metà del seicento (1631) è la pubblicazione di “Cautio criminalis”35 di Padre Von Spee, il quale, a seguito della sua esperienza di assistenza spirituale alle streghe, si convinse dell’innocenza delle stesse36. Pur rimanendo convinto dell’esistenza della stregoneria, era dell’opinione che le diffuse convinzioni sulla stessa, fino ad allora spacciate come granitiche certezze, fossero errate. Rispose ad un’obiezione che sapeva gli sarebbe stata mossa, cioè il fatto

34 De Montagne cita Sant’Agostino “Etiam innocentes cogit mentiri dolor”. Da questo deriva che colui che il

giudice ha torturato per non farlo morire innocente lo faccia morire innocente e torturato”. Cit T. Padovani,

Tortura, p.123

35 Pubblicata anonima non solo nella prima edizione, ma anche in molte delle edizioni successive.

36 Von Spee descrisse la terribile condizione rivestita, in quanto padre spirituale e confessore; pur essendo

persuaso dell’innocenza di queste donne, dovette rimanere inerte, essendo suo dovere conservare il segreto confessionale ad ogni costo; per di più un suo intervento avrebbe potuto danneggiare le stesse, rischiando di essere nuovamente sottoposte a tortura al fine di scoprire se la precedente confessione fosse stata falsa. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune.

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che le streghe fossero ree confesse, ricordando come Nerone tramite tortura avesse costretto i cristiani a confessare di aver bruciato Roma.

Degna di nota è anche un’opera di qualche anno anteriore a quella di Von Spee; “Tribunal

reformatum” (1624) di Graefe, ministro della setta Arminiana, perseguitato dai Calvinisti. Nel suo

scritto sostenne che nessuna autorità umana o dottrina giuridica avesse il potere di disattendere la legge divina, la quale condannava la violenza. A suo parere la tortura al pari delle ordalie, era un’assurdità e alla stregua di queste avrebbe dovuto sparire37.

Uno dei primi giuristi che merita di essere ricordato, e che mise in dubbio la validità della tortura come mezzo probatorio, fu il criminalista Francesco Casoni, autore nel 1557 del “Tractatus de

tormentis”. Casoni sviluppò una serie di considerazioni in grado di privare di validità l’istituto:

“Sottoporre a tortura ripugna alle ragioni dell’umanità, della religione e della stessa scienza

giuridica”38. Ripugnerebbe le ragioni dell’umanità in quanto la tortura altro non era che una condanna nei confronti di una persona della cui colpevolezza non vi era certezza. Ripugnerebbe la religione volendo questa il rispetto della dignità, e, infine, ripugnerebbe anche la scienza giuridica, costruita, avendo l’uomo come scopo e non come strumento.

Un’altra considerazione che sviluppò Casoni riguardava i danni che la tortura era in grado di provocare, dal momento che era molto più frequente la condanna di innocenti rispetto alla punizione dei colpevoli; questo lo portò a concludere che, per quanto puntuali e ben costruite, le garanzie relative all’utilizzo di uno strumento a tal punto insidioso non sarebbero mai state sufficienti.

In linea con il pensiero di Casoni, si mossero Giovanni Antonio Zavattari e Vincenzo Mancini: il primo nel 1548 scrisse “De fori mediolanensi praxi” nel quale, appellandosi ai principi cristiani di umanità e misericordia, auspicava la soppressione dell’istituto; il secondo, autore nel 1604

37 P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 234 38 Cit. T. Padovani, Tortura, p. 128

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dell’opera “De confessionibus”, all’interno della quale effettuò una disamina di tutte le tipologie di confessione, ed una volta arrivato a quella estorta, oltre alle critiche già espresse da Casoni e Zavattari, aggiunse l’innovativa considerazione che la tortura non poteva essere ammessa perché in contrasto con il principio nemo tenetur se detergere39. Ciò apparve rivoluzionario perché il processo inquisitorio fino ad allora era stato sostenuto da un principio opposto, cioè l’obbligo di dire la verità in capo all’imputato.

Mancini criticò anche l’istituto della ratifica40, mettendo in luce il suo carattere fittizio: l’imputato, qualora avesse negato la precedente dichiarazione, sarebbe stato esposto al rischio della ripetizione dei tormenti, dal momento che la mancata ratifica era qualificabile come elemento di contraddizione.

Di grande importanza fu Anton Mattei, autore di un commentario ai libri XLVII e XLVIII del

Digesto, dedicati alla parte penalistica. Effettuò un’analisi degli argomenti favorevoli e contrari alla

tortura mettendoli a confronto tra loro e giungendo alla conclusione che la debolezza dei primi non potesse che soccombere difronte ai secondi41: ciò lo condusse a condannare l’utilizzo dei tormenti.

Il titolo XVI del commentario era dedicato al de quaestionibus, suddiviso in cinque capitoli: I: de

confessione spontanea; II: de confessione extorta; III: quae sint iustae torquendi causae; IV: de modo torturae et eius effectus; e V: an tormenta legitimus veritatis indagande modus. Nel quinto

capitolo vennero esposti ed analizzati i tre principali argomenti a favore della tortura: il primo era

39 Principio in virtù del quale nessuno è tenuto a rendere dichiarazioni a sé sfavorevoli.

40 La ratifica era il meccanismo in forza del quale le dichiarazioni rilasciate sotto tortura non sarebbero state

di per sé rilevanti, occorreva lasciar passare un intervallo di tempo, oltre il quale sottoporre nuovamente il soggetto ad interrogatorio in condizioni di neutralità. T. Padovani, Tortura, p. 129

41 La crudeltà di una pena inflitta, in virtù dell’incertezza del crimine, prima di una condanna; l’inidoneità del

mezzo, che agevolava i forti e svantaggiava i più fragili, indipendentemente dalla colpevolezza degli stessi; la frequenza con cui si verificavano eccessi da parte degli esecutori; l’aleatorietà delle condanne che seguivano le confessioni estorte. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 240

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quello per cui la tortura era necessaria per il giudizio, per evitare di assolvere un sospettato. A questo Mattei replicò sottolineando come fosse possibile usufruire di uno strumento alternativo:

absolvere ad instantia, l’odierno proscioglimento, in attesa di nuove prove. Il secondo argomento

era quello secondo cui i tormenti costringevano a dire la verità: a ciò obiettò facendo notare come nella maggior parte dei casi fosse vero il contrario: innumerevoli erano stati i casi di confessioni da parte di innocenti; sottolineando la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tra una reale confessione, e quella resa al solo fine di far cessare i tormenti. Il terzo ed ultimo argomento era basato sull’autorità del diritto romano: l’istituto della tortura era stato tramandato per secoli per mezzo del diritto degli antichi, e questo lo dotava di un’autorità tale per cui non potesse essere disatteso. Mattei, invece, era persuaso del fatto che non tutto ciò che discendesse dal diritto romano fosse per ciò solo giusto, ma anzi spesso erano stati ereditati gravi errori che sarebbe stato opportuno correggere invece che perpetuare.

Tuttavia, non essendo un abolizionista, individuò due ipotesi rispetto alle quali la tortura poteva considerarsi lecita: crimen maiestatis e quaestio in caput sociorum 42.

Nel 1681 il francese Agostino Nicolas, alto magistrato e consigliere regio, indirizzò al suo sovrano una dissertazione morale e giuridica relativa alla tortura. Dopo averne dimostrato l’ingiustizia e le terribili conseguenze, trattando in primo luogo dei processi ai danni delle supposte streghe, concluse lo scritto auspicando per un’abolizione totale della tortura dall’ordinamento43.

42 Relativamente alla lesa maestà, Mattei, riteneva che l’eccezionalità del crimine fosse in grado di

giustificare l’uso della tortura - licet ex iniquo aliquid trahat -. La quaestio in caput sociorum poteva trovare giustificazione nella sola ipotesi in cui il crimine fosse stato atroce e tale da non poter essere stato realizzato che da una pluralità di persone. T. Padovani, Tortura, p. 133

43 “Une entière abolition d’un moyen d’erreur, d’injustice, et d’iniquité si reconnu.” Cit. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 237

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3. La tortura e la rivoluzione illuministica

3.1. Premessa

Le isolate posizioni di critica venutesi formando tra Cinquecento e Seicento, nel Settecento si trasformarono in una più massiccia presa di posizione. Nel corso di questo secolo, in tutta Europa, si sviluppò un ampio e vivace dibattito in materia di tortura; dibattito che condusse i grandi sovrani illuminati a comprendere la necessità di abolire l’istituto44.

Per gli illuministi il diritto penale doveva essere uno strumento utile per la società, la pena doveva essere giusta, certa e utile; la pena detentiva era la pena per eccellenza, in quanto attraverso il controllo del tempo del detenuto, e con la limitazione della sua libertà personale era possibile intraprendere dei percorsi di recupero, di rieducazione in vista del reinserimento45.

Ciò che realmente differenziò gli illuministi dai critici delle epoche precedenti non furono le argomentazioni innovative, quanto piuttosto la capacità di risvegliare le coscienze dei consociati, nonché il diverso contesto storico e culturale nel quale si trovarono ad operare.

Le trattazioni illuministiche, diverse tra loro in relazioni al tipo di argomentazioni utilizzate per le proprie tesi, partivano tutte dalle medesime critiche all’istituto. Critiche incentrate sul fatto che la tortura fosse un residuo barbaro di un’epoca antica, oramai superata, da lasciarsi completamente alle spalle; che fosse una pratica inutile poiché una confessione estorta non poteva essere considerata, da una mente razionale, sinonimo di verità; che fosse ingiusta, dal momento che altro

44 La tortura fu abolita nel 1740 nella Prussia di Federico II; nel 1776 nell’Austria di Maria Teresa e pochi

anni più tardi (1784) da Giuseppe II nel Ducato di Milano; nel 1780 nella Francia di Luigi XVI; nel 1765 Caterina II di Russia aveva raccomandato la cancellazione dell’istituto per l’elaborazione di un nuovo codice. M. P. Paternò, La critica alla tortura nell’illuminismo, in A. Giannelli, M. P. Paternò, Tortura di Stato, p. 19.

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non era che l’espiazione di una pena, senza che vi fosse stato un processo, men che meno una condanna46.

Una questione rispetto alla quale non vi fu uniformità tra gli illuministi fu rappresentata dall’estensione che quest’abolizione avrebbe dovuto assumere: se tutti furono d’accordo sull’abolizione della tortura finalizzata all’estorsione di una confessione, la medesima univocità di opinioni non vi fu rispetto alla chiamata in correità.

Questo accadde, principalmente, a causa della presa di coscienza di alcuni del fatto che in realtà la tortura era ancora profondamente radicata nella società in cui vivevano, e soprattutto che non potesse essere istantanea la transizione da un ordinamento che poggiava tutto il suo sistema processuale penale sulla tortura ad un ordinamento che ne fosse stato completamente privo. Alcuni ritennero necessario operare una sorta di bilanciamento tra i valori in gioco: da un lato, il processo di civilizzazione della società, dall’altro, il mantenimento e protezione della sicurezza dei cittadini. Quest’operazione condusse alcuni, come ad esempio Voltaire, Diderot e Sonnenfels, a concludere per la necessità del mantenimento in vigore della tortura nella sua forma di chiamata in correità, limitatamente ai casi di maggiore gravità47; mentre altri, come ad esempio Beccaria48, il cui pensiero non ebbe mai ripensamenti, a continuare a criticare e condannare l’ingiustizia e la barbarie di ogni forma di tortura.

46 M. P. Paternò, La critica alla tortura nell’illuminismo, in A. Giannelli, M. P. Paternò, Tortura di Stato, p.

21 ss.

47 Lesa maestà, alto tradimento, delinquenza organizzata. M. P. Paternò, La critica alla tortura nell’illuminismo, in A. Giannelli, M. P. Paternò, Tortura di Stato, p. 30

48 La cui opera, il “Dei delitti e delle pene”, svolse la funzione di apri pista di questo dibattito, in quanto la

maggior parte delle posizioni, fossero esse a favore o contro la quaestio in caput sociorum, partivano tutte dalle tesi espresse da Beccaria.

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3.2. Cesare Beccaria e l’origine della diatriba relativa alla quaestio in caput sociorum

Cesare Beccaria dedicò alla tortura tre paragrafi del suo “Dei delitti e delle pene”49 (1764), opera di importanza e diffusione universale, rappresentativa del pensiero illuminista in questo campo. Le parole che Beccaria utilizzò risuonarono, ai suoi tempi, come rivoluzionarie: “Una crudeltà

consacrata all’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per la scoperta dei complici o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia” 50.

La tortura era vissuta da Beccaria come uno strumento irrazionale ed ingiusto, utilizzato in teoria per la ricerca della verità, mentre di fatto altro non era che una sanzione nei confronti di un soggetto la cui colpevolezza non era certa51.

Di poco successivi, ed affini in numerosi punti - fatto non sorprendente, frequentando i due i medesimi salotti milanesi -, furono gli scritti di Pietro Verri. L’opera ai nostri fini più interessante è “Osservazioni sulla tortura”, pubblicata postuma52, che si apriva esaminando il processo agli

49 Aveva ad oggetto la riforma dell’intera legislazione criminale; colpendo con forza le crudeltà inutili ed

inique, tortura e pena di morte, che snaturavano la giustizia criminale e ne facevano un pericolo per gli stessi cittadini. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 247.

50 Cit. E. Scaroina, Il delitto di tortura, p. 37

51 “un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica

protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti, coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà a un giudice di dare una pena a un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?” Cit. M. P. Paternò, La critica alla tortura nell’illuminismo, in A. Giannelli, M. P. Paternò, Tortura di Stato, p.25

52 Verri decise di non pubblicare questo suo lavoro, nato per criticare una decisione del Senato milanese

contrario all’abolizione della tortura, in quanto questi tornò sui suoi passi, ed eliminò l’istituto dal Ducato, prima che l’opera fosse pronta per la pubblicazione. T. Padovani, Tortura.

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untori53 milanesi del 1630: Verri collegò la tortura alla pratica disumana e irrazionale come la persecuzione delle streghe, a meglio evidenziare la fallacia di questo strumento probatorio e la sua incapacità di individuare la verità. Come Beccaria anche Verri attribuiva interamente la colpa dell’esistenza e della permanenza in vigore di una barbarie come la tortura alla dottrina, che nel corso del tempo aveva perpetrato questo abominevole errore dell’antichità, mantenendolo in vigore nelle varie legislazioni.

“Dei delitti e delle pene”, fece da spartiacque tra due correnti di pensiero interne all’illuminismo: coloro che, seguendo il pensiero di Beccaria, ritenevano necessaria l’abolizione totale di ogni forma di tortura, come ad esempio Filangeri o Pagano; e coloro che, invece, ritenevano opportuna una critica all’istituto della tortura complessivamente considerato, ma allo stesso tempo erano convinti della necessità della stessa per poter giungere all’identificazione dei complici, a seguito della commissione di reati di particolare gravità, come la lesa maestà.

Argomentando a favore dell’abolizione della quaestio in caput sociorum, Beccaria fece riferimento al fatto che lo scopo di prevenzione generale sarebbe stato raggiunto anche senza la punizione dei complici, a patto che la collettività non fosse stata a conoscenza dell’esistenza degli stessi. Un’argomentazione questa piuttosto debole e facilmente confutabile, come fece Diderot, al quale questa pena non pareva meno giusta delle altre54, ma soprattutto questi ricordò come, oltre alla prevenzione generale, fosse compito dello Stato realizzare anche gli scopi di prevenzione speciale, che in questo modo sarebbero stati disattesi completamente55.

53 Epiteto attribuito a coloro che durante l’epidemia di peste del Seicento vennero sospettati di aver diffuso la

malattia, ungendo appunto, persone e cose, con oli infetti.

54 Cit. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, p. 253

55 “Se lasciamo che i complici siano impuniti può darsi che la prevenzione generale non ne soffra se nessuno

sa che quel delitto ha avuto complici. Ma la prevenzione speciale certamente ne soffre perché quei delinquenti in libertà saranno rassicurati e direi incentivati dalla mancata punizione a continuare nelle loro

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3.2.1. Abolizionisti relativi

Voltaire dedicò alla tortura il capitolo XXIV della sua opera “Prix de la justice de l’umanité” nel quale condannò senza eccezioni la tortura finalizzata alla confessione dell’imputato, tenendo invece un atteggiamento più morbido nei confronti della quaestio in caput sociorum, da considerare legittima in una ipotesi soltanto: l’omicidio del padre della patria56.

Joseph Von Sonnenfels, autorevole giurista e professore presso l’università di Vienna, nel corso delle sue lezioni espose con forza le sue tesi e le sue proposte per la realizzazione di un ordinamento all’interno del quale fossero abolite sia la tortura, sia la pena di morte. Nel 1765 l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria gli vietò di occuparsi ancora di questi temi, considerati pericolosi per l’ordine pubblico; Sonnenfels, rispose rivolgendole una supplica apologetica57. L’imperatrice rimase impressionata da questo scritto al punto non solo di revocare la censura, ma addirittura di sollecitarlo a sviluppare ulteriormente le proprie argomentazioni.

imprese delittuose.” Questa era l’obiezione mossa da Diderot a Beccaria, ma che poteva essere estesa anche alle argomentazioni di Verri. T. Padovani, Tortura, p. 238

56 T. Padovani, Tortura, p. 221 l’autore ricorda l’esempio richiamato da Voltaire relativo al caso di Ravaillac,

fanatico ecclesiastico, assassino di Enrico IV nel 1610. A causa della morte di Ravaillac fu impossibile scoprire se avesse dei complici. In un caso di questo calibro, in un caso di tale gravità, a parere d Voltai a tortura, al fine di conoscere l’identità dei complici, sarebbe stata ampiamente giustificata.

57 Rivendicava la propria funzione di professore, sostenendo che questi temi, non solo non fossero pericolosi,

ma che anzi necessitassero di essere discussi ed affrontati. Propose l’istituzione di una commissione composta da esponenti a favore, ed esponenti contrari, così che l’Imperatrice fosse messa nella condizione di prendere una decisione informata a riguardo. Per concludere del suo scritto, citò un brano dello “Ius

civitatis”, del consigliere imperiale Carlo Antonio de Martini, nel quale questi sottolineava come la tortura

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Nel 1775, Sonnenfels, prese le distanze dalla politica della sovrana in materia di tortura, per mezzo dell’opera “Intorno all’abolizione della tortura” in cui fece proprie le posizioni di Beccaria, sottolineando il rischio che il ricorso, da parte dello stato, alla tortura potesse ingenerare nei consociati una sensazione di insicurezza, determinata dalla compromissione della certezza del diritto58.

Come molti suoi contemporanei affrontò il tema della tortura distinguendo tra quella finalizzata alla confessione di crimini propri da quella in caput sociorum. Relativamente alla prima assunse una posizione irremovibile, propendendo per l’abolizione totale; le argomentazioni che utilizzò non erano in niente diverse da quelle dei suoi contemporanei, o dei critici di epoche precedenti59. Rispetto, invece, alla quaestio in caput sociorum, adottò un approccio differente, la considerava legittima a patto che sussistessero due presupposti: certezza rispetto alla colpevolezza del reo e certezza rispetto alla presenza di complici.

La motivazione addotta, al fine di giustificare la permanenza della tortura per chiamata in correità, consisteva nella constatazione che la tutela della collettività poteva legittimare la commissione di maltrattamenti ai danni di coloro che risultassero inadempienti al dovere di rispondere alle domande, dopo aver assunto l’ufficio di testimoni60.

58 E. Scaroina, il delitto di tortura, p. 36

59 Anche Sonnenfels criticava alla tortura il fatto di non essere altro che una pena antecedente ad una

condanna, rispetto alla quale non si aveva certezza; l’altra obiezione classica alla tortura e che venne ripresa anche da Sonnenfels riguardava il fatto che quello della tortura non era un mezzo certo per raggiungere la verità, il fatto che a seguito di tortura l’imputato confessasse un crimine o non lo confessasse, non poteva essere considerato come dimostrazione certa di colpevolezza o non colpevolezza.

60 “egli è tormentato allora non pe’ delitti altrui, ma pel proprio colpevole silenzio; silenzio, che è nuovo

attentato contro la pubblica sicurezza, la quale, a cagion di esso, non può difendersi e punirsi contro de malvagi che ancora non conosce”. M. P. Paternò, La critica alla tortura nell’illuminismo, in A. Giannelli, M. P. Paternò, Tortura di Stato, p. 31

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3.2.2. Abolizionisti totali

Gaetano Filangeri, uno dei massimi giuristi vissuti sotto il regno Borbone di Napoli, assunse una posizione di critica radicale nei confronti di ogni forma di tortura. Si prefisse l’obbiettivo di redigere un’opera: “La scelta della legislazione”61 (1780 – 1788), che delineasse il dover essere della legislazione, quello cioè che avrebbe dovuto essere il comportamento di un legislatore razionale che avesse avuto come obbiettivo quello di conservare e tutelare la sicurezza dei suoi cittadini.

Nell’opera di Filangeri il tema della tortura venne trattato nell’ambito delle questioni relative alla riforma della procedura penale62.

Trattò distintamente le due tipologie di tortura: quella finalizzata ad ottenere una confessione e quella diretta a conoscere i nomi dei complici.

Rispetto alla prima tipologia, ciò che a suo avviso era necessario chiedersi era se il magistrato avesse il diritto di pretendere una confessione dall’imputato; giacché i diritti presuppongono dei doveri, ritenere che vi fosse un dovere in capo all’imputato di confessare il crimine commesso, sarebbe stato contrario alla sua stessa natura, contrario alla prima legge di natura. In riferimento invece, alla quaestio in caput sociorum, egli riteneva che, nonostante l’oggetto potesse essere considerato lecito, il mezzo permanesse ingiusto, e che quindi in ogni caso dovesse essere abolito,

61 Opera in cinque volumi, ultimo dei quali pubblicato postumo: libro I regole generali della scienza

legislativa; libro II leggi politiche ed economiche; libro III leggi criminali, diviso in tre parti: rispettivamente sulla procedura penale, sui delitti e sulle pene; libro IV leggi sull’educazione, istruzione, costumi e sull’istruzione pubblica; libro V leggi sulla religione.

(31)

sottolineando inoltre l’inaffidabilità dello strumento, espressione esclusivamente di robustezza fisica63.

Francesco Mario Pagano, insigne penalista napoletano di fine Settecento, si occupò non solo della pratica forense, ma anche di dottrina. Pubblicò alcuni volumi in materia di diritto penale, e come molti, se non tutti, i suoi contemporanei, si occupò di tortura, anche se con un approccio differente rispetto a quello utilizzato ad inizio secolo. Nella “Teoria delle prove o logica dei probabili” (1787), egli trattò della tortura non come di un argomento a sé stante, ma nell’ambito della trattazione della confessione, strettamente inerente al tema in esame.

Una confessione poteva essere utilizzata in un processo se: era sostenuta dalla prova del delitto, in quanto in mancanza del corpus delicti64, non poteva essere considerata valida; era spontanea, non influenzata, quindi, da agenti esterni; ed era resa in sede giudiziale, in presenza di un giudice competente a decidere sulla questione. La presenza di questi requisiti era da considerare come condizione necessaria ma non sufficiente, per poter ritenere una confessione prova della commissione di un reato. Laddove la confessione fosse stata estorta, questa oltre ad essere invalida, doveva essere considerata doppiamente contro natura65.

Per quanto riguardava invece la chiamata in causa dei complici, egli liquidò il tema con estrema semplicità: dal suo punto di vista gli stessi vizi che investivano la tortura utilizzata ai fini di estorcere una confessione all’imputato riguardante la sua propria responsabilità sarebbero stati rinvenibili anche nella quaestio in caput sociorum. La spiegazione di un così superficiale esame di

63 T. Padovani, Tortura, p. 258 ss

64 Corpo del reato, espressione che si utilizza per identificare un oggetto suscettibile di essere considerato

quale prova della commissione di un reato

65 In primo luogo, la confessione anche quando spontanea, era da considerare di per se contro natura, in

quanto contro se stesso; in secondo luogo, perché estorta con la sofferenza; questo tipo di confessione non avrebbe dovuto nemmeno essere presa in considerazione come indizio, non avrebbe dovuto poter avere alcun tipo di rilevanza a livello giuridico. T. Padovani, Tortura, p. 275

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un tema, che negli anni precedenti aveva attirato molte attenzioni, risiedeva nel fatto che nel momento in cui Pagano scriveva la quaestio in caput sociorum non aveva più la rilevanza del passato, perché si stava aprendo la strada un nuovo indirizzo politico criminale, con una diversa tipologia di pressioni66.

66 Invece che torturare si promettevano sconti di pena o altri vantaggi al fine di invogliare l’imputato a

rivelare i nomi dei complici. Questo diverso approccio se sicuramente più rispettoso della dignità umana, poneva e pone tutt’ora problemi non molto differenti. T. Padovani, Tortura, p. 279

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CAPITOLO II

LA TORTURA NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

CONTEMPORANEO

SOMMARIO: 1. La tortura nell’Ottocento, tra abolizione formale e permanenza sostanziale – 1.1

Cenni introduttivi – 1.2 Dalla tortura all’obbligo di rispondere – 1.3 La c.d. inquisizione soave – 1.4 Tortura come prassi politica e poliziesca – 1.5 Il codice penale per il Regno d’Italia – 2. Il regime fascista e la sua innata vocazione violenza – 2.1 La persecuzione degli Ebrei – 3. Repressione della violenza fisica e morale nella Costituzione – 3.1 Cenni sul dibattito in assemblea costituente sull’art 13 comma 4 – 3.2 Esame del quarto comma dell’art 13 Costituzione – 4 L’assenza di una disciplina nel Codice Penale post costituzionale – 5 La necessità del divieto di tortura nell’ordinamento italiano – 5.1 Premessa – 5.2 La violenza da parte delle forze di polizia negli anni della lotta al terrorismo – 5.3 Trattamenti inumani e degradanti nelle carceri – 5.3.1 Il sovraffollamento carcerario – 5.3.2 Il regime penitenziario del c.d. “carcere duro”

1. La tortura nell’Ottocento, tra abolizione formale e permanenza

sostanziale

1.1. Cenni introduttivi

Il congresso di Vienna (1814-1815) e la conseguente instaurazione dell’ancient regime, non riuscirono ad eliminare tutti i progressi raggiunti nel corso del secolo precedente: fu impossibile

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tornare allo status quo ante. Tra la fine del Settecento e l’Ottocento molti stati, non solo europei1, eliminarono la tortura dai propri codici, inserendo un divieto che, una volta cristallizzatosi, non trovò più disciplina diretta2 se non in poche eccezioni.

All’abolizione formale della tortura non seguì automaticamente, anche una sua abolizione sostanziale3; la sopravvivenza dell’istituto si espresse in tre diverse direzioni: sopravvivenza in positivo, consistente nell’introduzione di un obbligo di rispondere in capo all’imputato; dimensione sistematica in negativo, consistette nell’introduzione di una pratica opposta alla tortura ma che ugualmente dava luogo a risultati inaffidabili; i tormenti vennero, infatti, sostituiti dalla spes

premi, la quale agiva sulla volontà del soggetto in misura uguale e contraria alla tortura; infine, vi

era la sopravvivenza come prassi illecita, in forma occulta.

1.2. Passaggio dalla tortura inquisitoria all’obbligo di rispondere

La prima forma attraverso la quale la tortura sopravvisse, consistette nell’introduzione, a carico dell’imputato, di un obbligo penalmente sanzionato di rispondere alle autorità inquirenti; quest’incongruenza, per esempio, poteva essere rinvenuta all’interno del Codice austriaco del 1803,

1 Brasile nel 1824 e Turchia nel 1856.

2 Nella maggior parte dei paesi, infatti, il divieto doveva essere dedotto logicamente da norme di più ampia

portata, ovvero tutt’al più era possibile rinvenire una disciplina indiretta.

3 La battaglia combattuta dall’illuminismo ha relegato la tortura negli inferi dell’illecito ma, non potendo

estirparla dal mondo dei fatti, ne ha modificato in qualche misura la nozione. Cit. E. Scaroina, Il delitto di

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nei paragrafi 363-3644; la pratica fu abbandonata solo nel 1853 con l’introduzione del regolamento di procedura penale.

All’imputato non veniva chiesto di dire la verità, ma semplicemente di non rimanere in silenzio. Era considerato necessario che questi rilasciasse una dichiarazione perché, laddove quest’ultima non avesse collimato con le risultanze probatorie, avrebbe potuto essere utilizzata contro l’imputato stesso.

L’Italia si mantenne immune dalla permanenza di una forma indiretta di tortura. Il codice di procedura penale per il Regno d’Italia (1807) vietò di sottoporre l’imputato a giuramento, quando avesse il solo scopo di dare un valore maggiore alle sue dichiarazioni; e di rivolgere allo stesso domande suggestive5. Nel codice si stabiliva che, laddove l’imputato fosse rimasto in silenzio, il giudice avrebbe dovuto limitarsi ad avvertirlo che le indagini sarebbero proseguite in ogni caso. Medesima linea fu seguita dal Codice sardo del 1847 e da quelli per il Regno d’Italia del 1865 e 1913, rispettivamente agli articoli 236, 261 e 388.

4 Il codice stabiliva: in primo luogo un obbligo di rispondere; in secondo luogo un obbligo del giudice di

ammonirlo qualora il primo si fosse rifiutato di rispondere; ed infine ove l’ammonizione fosse caduta nel vuoto vi erano una serie di sanzioni.

5 Domande in cui si da per scontata una circostanza che in realtà dovrebbe essere provata, spingendo il

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