“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”
Ad Andrea e a mia figlia Giulia per il tempo loro “rubato”
INDICE
CAPITOLO 1 SOGGETTO ECONOMICO, GOVERNO E STRATEGIA D’AZIENDA...4
1.1. Introduzione ...4
1.2. Il soggetto economico: considerazioni ...9
1.3 Il governo dell’azienda ...19
1.4. Evoluzione del concetto di pianificazione strategica ...25
1.5. Definizione di strategia ...36
CAPITOLO 2. STRATEGIE AZIENDALI E DINAMICHE ORGANIZZATIVE...49
2.1. La struttura organizzativa nella concezione classica...50
2.2. Superamento: la struttura organizzativa di tipo organico ...53
CAPITOLO 3. I PROFILI DELL’APPRENDIMENTO RISPETTO ALL’ORGANIZZAZIONE...59
3.1. Le risorse aziendali intangibili...59
3.2. Le competenze distintive e la conoscenza come risorse per la creazione del valore...65
3.3. Le competenze in azienda: il processo di generazione della conoscenza individuale e organizzativa....76
3.4. La Gestione della conoscenza: learning organization e knowledge management...91
3.4.1. La learning organization... 91
3.4.2 Knowledge governance...104
CAPITOLO 4. L’APPRENDIMENTO E LA CONOSCENZA: I CIRCUITI DI FEED-BACK NELLA FORMAZIONE DELLA STRATEGIA... 124
4.1. Rapporti fra strategia e struttura organizzativa...125
4.2. Competenze cognitive e intelligenza emotiva del soggetto economico...148
5. CONCLUSIONI... 154
CAPITOLO 1 SOGGETTO ECONOMICO, GOVERNO E STRATEGIA D’AZIENDA
La “connessione dei saperi” è la nuova bussola utilizzata dalle aziende alla ricerca della creatività e il nuovo strumento per la creazione della conoscenza.
1.1. INTRODUZIONE
Le aziende esistono per creare valore. La creazione di valore sta diventando una regola del gioco nella competizione internazionale a cui nessuna impresa può permettersi di sottrarsi.
La competitività di un’impresa sta nella sua capacità di soddisfare, meglio o almeno al pari delle altre, le attese di tutti gli interlocutori di cui ha bisogno per operare1. L’azienda deve realizzare “qualche cosa” che meriti gli sforzi, le energie, le risorse impiegate per ottenerla.
Appare evidente che le aziende si trovano al centro di una complessa catena di giudizi di valore2.
Tutte le imprese, di qualsiasi dimensione, settore, forma giuridica, ordinamento, per poter sopravvivere nel tempo e svilupparsi, devono perseguire condizioni di equilibrio economico creando valore per gli interlocutori interni ed esterni ad essa. Clienti, azionisti, dipendenti, fornitori, istituzioni, comunità sociale manifestano nei confronti dell’impresa istanze a cui questa non può sottrarsi senza mettere in crisi la propria stessa possibilità di operare e, quindi, alla lunga di esistere.
Al pari dell’ambiente competitivo, anche l’ambiente sociale ha assunto caratteristiche complesse e sfaccettate. Il governo dell’azienda deve affrontare le sfide sociali nello stesso modo anticipatorio, metodico e deliberato utilizzato per le sfide commerciali, in modo da trasformare, nella percezione comune, il concetto che l’impresa non è solo uno strumento puramente economico ma è diventato uno strumento socio-economico.
1 «… il punto di partenza del nostro discorso è costituito da quella che ci pare essere una fondamentale e
incontestabile istanza morale: cioè, che gli istituti d’impresa siano amministrati per tutti coloro i cui interessi sono preminenti per intensità e immediatezza .... Orbene gli interessi che, nell’impresa privata, di norma, si presentano con caratteri di netta preminenza sugli altri sono quelli del capitale e del lavoro». Coda V., “Proprietà, lavoro e potere di governo dell’impresa”, Milano, Giuffré, 1967.
In altre parole, si sostiene che tutte le imprese perseguono un insieme di obiettivi, di natura socio-economica - quali il profitto, lo sviluppo, la soddisfazione degli stakeholders - che trovano sintesi nel conseguimento del vantaggio competitivo e nella creazione del valore.
Il ruolo della strategia dell’impresa consiste nel coniugare e integrare creativamente i bisogni del mercato con le attese sociali, all’interno di una strategia con intrinseca validità economica, ossia, realizzando una “offerta” che sia competitiva sul piano concorrenziale ma che utilizzi le risorse in modo “corretto”.
L’attuale tendenza è quella di un sistema organizzativo aperto e di un soggetto economico sociale. La logica di un’apertura dell’azienda verso l’ambiente circostante, in un’ottica continua di dinamico e reciproco influente mutamento, significa incidere profondamente nella cultura di impresa.
L’apertura all’interscambio comunicativo di informazioni coinvolge prima di tutto le risorse umane dell’organizzazione permettendo il confronto delle idee e delle conoscenze delle persone che fanno parte del sistema economico. Le aziende non sono costituite solo da norme e da strutture ma anche da stati d’animo, da emozioni, relazioni interpersonali e da esperienze diverse: sono, cioè, anche un fatto psicologico soggettivo, composto da una quantità di emozioni, percezioni, motivazioni e aspettative3.
E’ necessario, allora, un complesso processo di analisi, di sintesi e di mediazioni, in cui il governo dell’impresa, nella formulazione della strategia aziendale, deve ricercare una coerenza fra le risorse e le competenze interne, la struttura e i sistemi organizzativi, l’ambiente esterno e la cultura aziendale, i suoi obiettivi e i valori imprenditoriali, in modo da concepire una visione che abbia un orizzonte di lungo termine e che coinvolge tutta la struttura organizzativa aziendale.
Occorre, a tal proposito, sottolineare come gli studi di strategia abbiano concentrato l’attenzione sulle risorse d’impresa come base per la costruzione di posizioni sostenibili di vantaggio competitivo.
3 Su questo argomento: Spaltro E., de Vito Piscicelli P., “Psicologia per le organizzazioni. Teoria e pratica del
Partendo dall’idea che la competitività di lungo periodo di un’impresa dipenda dalla sua abilità di creare conoscenza, apprendere continuamente e acquisire capacità, si sostiene che le risorse interne aziendali abbiano, a loro fondamento, la continua costruzione di risorse e competenze scarse, distintive, difficili da imitare e, quindi, non trasferibili4.
La conoscenza è l'asset più importante delle imprese: è il differenziale competitivo di maggior valore, perché da essa discendono i prodotti e i servizi eccellenti e innovativi, le migliori pratiche organizzative, le più adeguate e lungimiranti strategie, l'ottimale utilizzo delle risorse umane, delle risorse economico-finanziarie, di quelle tangibili ed intangibili, il migliore rapporto con il cliente e la loro più elevata soddisfazione.
Si tratta di un complesso processo di integrazione di una pluralità di conoscenze specialistiche e di risorse elementari, di un processo di apprendimento imprenditoriale, un orientamento condiviso, che coinvolge e impegna il management e il personale tutto insieme, capace di dare un senso al lavoro e all’impegno di tutti, nel corso del quale si sviluppa una conoscenza che si incorpora nei prodotti, nelle tecnologie di processo, nei meccanismi operativi e a partire dal quale si attivano e si costruiscono le competenze distintive dell’azienda. Tale processo di integrazione determina la formazione di capacità e competenze, funzionali ed interfunzionali. Quando la conoscenza diventa organizzativa si può parlare di organizzazione che apprende.
In quest’ottica, centrale diventa la figura dell’uomo in azienda, il Knowledge worker5, in una
prospettiva che esula da considerazioni etiche o socialmente corrette - seppure apprezzabili - ma deriva dalla constatazione che le persone in azienda sono i potenziali portatori di conoscenza perché producono idee, informazioni, concetti e anche legami sociali che, a loro volta, permettono la comunicazione, la diffusione del sapere, la condivisione delle esperienze e facilitano l’accesso alle informazioni.
Il presente lavoro, a partire dall’identificazione degli elementi costitutivi del patrimonio intellettuale, quale insieme delle informazioni, conoscenze, esperienze, relazioni, idee e innovazioni delle persone presenti in azienda, indaga sui processi di formazione della conoscenza e sulle leve più efficaci per creare, organizzare e rendere disponibile un
4 Cfr. Antonelli V., D’Alessio R, De Luca P “Sapere o essere? Cognizione ed emozione nella strategia aziendale”,
Milano, Ipsoa, 2007.
ambiente capace di contribuire alla formazione delle competenze distintive, la cui formazione, evoluzione e difesa consente di garantire l’equilibrio e lo sviluppo dell’impresa. Fondamentale si rivela, infatti, la capacità dell’azienda di rinnovare le sue competenze esclusive, rappresentate da competenze individuali, comportamenti collettivi e relazioni interpersonali.
In contesti turbolenti come quelli attuali, inoltre, si impone l’attenzione anche agli aspetti dinamici della conoscenza, ai conseguenti cambiamenti evolutivi e alla necessaria rivisitazione dei modelli di business aziendali. Ne consegue che, per assicurarsi il vantaggio competitivo, sia necessario anche velocizzare l’attuazione delle idee in concrete azioni competitive e riesaminare criticamente costantemente la propria strategia per adeguarla a nuove istanze. Il tutto in modo sincronizzato rispetto alla variabilità ambientale. L’impresa che per prima riesce a monopolizzare la conoscenza, cogliendo tempestivamente i segnali provenienti dal mercato e a tradurla più velocemente dei concorrenti in una business idea e una strategia per realizzarla, crea delle asimmetrie di conoscenza dalle quali deriva potere competitivo rispetto ai rivali. Inoltre, l’impresa che non rivisita costantemente il proprio progetto strategico rischia di diventare obsoleta rispetto ai cambiamenti ambientali.
Si sostiene che il mutamento nella gestione strategica dell’azienda avvenga per l’accumulo graduale di cambiamenti incrementali interni alla struttura organizzativa che, alla lunga, contribuiscono alla trasformazione di cultura, struttura di potere, competenze formando una strategia cd. emergente potenzialmente in grado di modificare quella in atto, e, a volte di comportare una revisione dei modelli mentali e delle intuizioni iniziali del soggetto economico, anche per adeguarsi al frequente dinamismo ambientale che spesso cambia le regole.
In questo senso, si parla di una conoscenza che investe e coinvolge anche l’organo di governo, il quale, artefice della strategia aziendale e del sistema delle idee, del livello di conoscenza e dei processi di apprendimento aziendali, a sua volta, ne è influenzato nel processo di ideazione, elaborazione e formazione della strategia.
In tale prospettiva, il soggetto economico riveste un ruolo fondamentale nella costruzione delle conoscenze e in quanto apporta conoscenze tacite, difficilmente codificabili e
trasferibili, determina i processi di acquisizione di nuove risorse ed il livello gerarchico al quale si inseriscono, indirizza la costruzione di competenze e capacità aziendali6.
Se, in particolare, si considerano i numerosi e rilevanti contributi della dottrina economico aziendale, l’interpretazione dei sistemi di governo e delle strategie aziendali prende le mosse dall’analisi della figura del soggetto economico uno dei capisaldi degli studi fin dalle origini delle nostre discipline.
La teoria economico – aziendale, fin dalle sue origini, ha affrontato le problematiche inerenti l’individuazione del soggetto economico e la sua legittimazione all’esercizio del potere.
6 Cfr. Antonelli V., D’Alessio R., De Luca P., “Sapere o essere? Cognizione ed emozione nella strategia aziendale”, op.
1.2. IL SOGGETTO ECONOMICO: CONSIDERAZIONI
L’individuazione del soggetto economico, l’analisi delle funzioni che gli spettano, dei criteri di valutazione delle sue scelte, delle relazioni che lo legano all’azienda e agli attori coinvolti nella vicenda produttiva, hanno conosciuto, negli studi di economia aziendale, numerose interpretazioni teoriche, a motivo della complessità e mutevolezza della realtà aziendale7.
Nelle discipline economiche classiche, la figura centrale dell’impresa è l’imprenditore - che in questa fase si confonde con la figura del soggetto economico - al quale sono state attribuite, nel corso del tempo, funzioni piuttosto differenti fra loro, alcune non del tutto collegate all’attività di governo.
Cantillon8 è stato indicato9 come il primo studioso ad aver definito la funzione
dell’imprenditore, come colui che cerca di sfruttare le opportunità del mercato create dalla discrepanza fra domanda e offerta e, cioè, come “il vero organizzatore di tutto ciò che si produce con il fine di generare nuova ricchezza”.
Il primo a concepire il ruolo manageriale dell’imprenditore, è stato Say10, il quale distinguendo fra la funzione di fornire il capitale e quella di sovraintendere, dirigere, coordinare e controllare la produzione, distinse l’imprenditore dai proprietari del capitale e dai lavoratori dipendenti. Secondo questa prospettiva, un imprenditore è la persona che coordina tutti i fattori produttivi (capitale, lavoro, etc.) per raggiungere un obiettivo che consenta di valorizzarli pienamente.
Nella scuola economica classica d’oltre Manica, la funzione imprenditoriale risultò, invece, trascurata, almeno fino alla metà del XIX secolo. Adam Smith, ad esempio, non colse l’imprenditore quale figura autonoma, identificando, invece, in un solo soggetto, il capitalista e l’imprenditore.
7 Sull’evoluzione della concezione di soggetto economico, sui modelli interpretativi dei rapporti tra proprietà e
management, dati gli scopi del presente lavoro, si farà solo un breve excursus,. Ci si limiterà, pertanto, a rinviare alla vasta bibliografia sul tema. Per tutti si possono citare: Coda V., “Proprietà lavoro e potere di governo dell’impresa”, op. cit.; Giannessi E., “Le aziende di produzione originaria. Le aziende agricole”, Pisa, Cursi, 1960; Zappa G., “Le produzioni nell’economia delle imprese”, Vol. I, Milano, Giuffrè, 1956-57; Masini C., “Lavoro e risparmio”, Torino, Utet, 1970; Onida P., “Le dimensioni del capitale di impresa”, Milano, Giuffrè, 1960.
8 Cantillon R., “Essai sur la nature du commerce en général”, 1755.
9 Corno F., “Lo sviluppo del sapere imprenditoriale nel governo dell’impresa”, Milano, Egea, 1989, p.22. 10 Say G.B., “Traité d’économie politique”, Paris, 1803.
Un primordiale contributo alla definizione del concetto di imprenditore è fornito successivamente, da Schumpeter11, il quale enfatizzò il ruolo di imprenditore come
innovatore definendolo come la persona che, disponendo di un’idea o di un’invenzione, crea qualcosa di nuovo: un’azienda, un’attività produttiva, un prodotto, un metodo di produzione. L’innovazione è per Schumpeter l’anima del processo capitalista e trova la sua massima espressione nell’imprenditore innovatore. Infatti, offrendo un prodotto innovativo che, per almeno un certo periodo di tempo, le altre unità non sono in grado di realizzare, l’imprenditore può spuntare un prezzo ben più alto del costo sostenuto per realizzarlo. In cambio l’imprenditore ottiene il profitto che è la differenza fra i costi e ricavi, che, nella società capitalistica, rappresenta il premio dell’“idea vincente”.
Per Knight12, invece, l’aspetto peculiare che identifica l’imprenditore non è l’innovazione,
quanto piuttosto il rischio e l’incertezza. Mentre, il rischio è qualcosa di misurabile e valutabile ex-ante, l’incertezza fa riferimento a qualcosa che non lo è perché implica situazioni nuove e sconosciute. L’imprenditore deve dominare l’incertezza operando scelte circa la produzione da attuare e i fattori produttivi da combinare, remunerandoli adeguatamente e assumendosi il “rischio” del residuo che conseguirà, e cioè, un profitto o una perdita:
Alcune decine di anni più tardi Cole13 tentò di sintetizzare i contributi sopra evidenziati,
focalizzando la figura dell’imprenditore non solo quale coordinatore, innovatore e come colui che assume i rischi, ma anche come “chi” adotta le decisioni. Egli distinse tre principali tipologie di attività imprenditoriali: innovativa, imitativa e “manageriale”, enfatizzando con quest’ultima il momento decisionale.
Le concezioni di imprenditore sommariamente ricordate sono, essenzialmente, riferite alle aziende che hanno operato nelle fasi iniziali del capitalismo industriale. Un tempo, a fronte della modestia delle dimensioni dell’azienda e della ristretta base societaria, il soggetto economico era fondamentalmente il proprietario che, spesso, svolgeva funzioni amministrative.
11 Schumpeter J.A., “The Theory of Economic Development”, Harvard University Press, Boston, 1933. 12 Knight F., “Risk, Uncertainty and Profit”, Houghton Miffin, 1921.
13 Cole A., “An approach to the Study of Entrepreneurship: A tribute to Edwin F. Gay”, in the Journal of Economic
Con la crescita della concorrenza associata all’aumento della complessità aziendale, gli studi sul soggetto economico si sono evoluti, evidenziando la presenza di aziende in cui la base di azionariato diffuso comporta la separazione fra imprenditorialità e managerialità. A partire da questa constatazione, la dottrina economico-aziendale italiana, da un lato, e le teorie manageriali d’oltre oceano, dall’altro lato, hanno sottolineato l’evanescenza del concetto di imprenditore, in quanto il suo ruolo dovrebbe pervadere tutta l’azienda e non, invece, uno o pochi soggetti.
Gino Zappa14, quale fondatore della disciplina dell’economia aziendale, ha evidenziato
come la definizione di imprenditore corrisponda ad un concetto astratto, poiché le funzioni di coordinamento dei fattori di produzione e il processo decisionale sono generalmente assunte da soggetti diversi preposti alle differenti aree gestionali dell’azienda15. Inoltre, egli
stesso ha sottolineato “come imprenditore è, non di rado, qualificato il soggetto economico d’impresa, ossia la persona o il gruppo di persone che nell’impresa esercita il controllo o almeno colui nel preminente interesse del quale sarebbero compiute le funzioni di controllo16.
Le teorie manageriali d’oltre oceano, dall’altro lato, hanno mostrato come, in un contesto nel quale la proprietà è frazionata fra numerosi, piccoli azionisti, le funzioni di governo siano interamente demandate ai manager, individuando i processi decisionali che i manager realizzano, grazie al potere che hanno conquistato e consolidato, e hanno studiato le scelte e le attività che devono essere messe in atto per far funzionare in senso economico l’impresa17.
Pertanto, sia negli studi di economia aziendale - che nel nostro paese ha una solida tradizione derivante dagli studi di alcuni grandi maestri, fra i quali spicca, come si è detto, la
14 Zappa G., “Le produzioni nell’economia delle imprese”, op. cit., pp. 419-428.
15 In linea con questo pensiero, fra gli altri, anche Bertini e Masini. Bertini U., “Il Governo dell’impresa tra
managerialità e imprenditorialità”, in Banca Toscana Studi e informazioni, anno VII n. 4., 1984. Masini C., “Lavoro e risparmio”, op. cit..
16 Zappa G., “Le produzioni nell’economia delle imprese”, op. cit., p. 424. Infine, anche nel pensiero dell’Amaduzzi,
«l’imprenditore è … chi promuove e formula i piani dell’impresa, dettandone le linee generali di svolgimento nei vari aspetti amministrativi». Amaduzzi A., “L’azienda nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni”, Torino, Utet, 1969, p. 68.
17 In realtà, nelle concezioni di Baumol, Williamson e Marris, i manager, godendo di una certa discrezionalità
nel perseguire le politiche aziendali, spesso massimizzano la loro utilità professionale anziché quella degli azionisti, includendo, oltre alla remunerazione personale, variabili quali la sicurezza il prestigio, il potere, l’eccellenza professionale.
figura di Gino Zappa18 - che si propone di studiare i principi e le leggi di funzionamento delle aziende, a carattere più squisitamente descrittivo, che negli studi di management - con origine in prevalenza statunitensi - che hanno come obiettivo lo studio delle scelte e delle attività che devono essere messe in atto per ottenere il funzionamento delle imprese, di carattere tendenzialmente normativo, si nota sempre una tensione nell’indagare il processo gestionale e decisionale e nell’individuare l’attore principale delle strategie aziendali.
Di recente, si ritiene che il problema, per essere risolto, debba essere ricondotto ad uno schema teorico interpretativo di ampia portata e di tipo sistematico19. Si potranno
individuare, cioè, concetti generali attinenti la struttura e il funzionamento di tale figura, validi per le unità produttive di ogni dimensione e settore produttivo, e altri, a questi complementari, di tipo particolare, applicabili a specifiche classi di aziende.
Al di là delle differenze esistenti tra le concezioni proposte in dottrina, sono stati evidenziati due aspetti essenziali e costitutivi della nozione di soggetto economico, che lo caratterizzano rispetto all’altro soggetto - quello giuridico - individuabile in ogni impresa: esso, innanzitutto, è necessariamente formato da persone fisiche, e, in secondo luogo ad esso compete la funzione di indirizzo strategico.
Se, il soggetto giuridico consiste nella persona, gruppo di persone o ente nel cui nome l’attività imprenditoriale viene esercitata e rappresenta il responsabile giuridico dell’attività a cui fanno capo i diritti e gli obblighi che da questa derivano, il soggetto economico è il responsabile delle scelte economiche che muovono l’attività di impresa, è l’organo volitivo della gestione aziendale, rappresenta il centro decisionale della gestione, è il soggetto nel cui prevalente interesse viene svolta l'attività economica.
18 Gino Zappa ha per primo ha proposto esplicitamente il concetto di “azienda”, dapprima come
coordinazione di operazioni, poi (più compiutamente) come «istituto in seno al quale si realizza in forma collettiva e organizzata la componente economica dell’attività umana».
19 «Questo richiede di elaborare uno schema concettuale aperto ed articolato che preveda una griglia di
variabili in base alla quale possono essere ordinate le varie tipologie di soluzioni che le single aziende adottano per l’attuazione della funzione di governo, e i funzione della quale possono essere interpretate situazioni fisiologiche e patologiche che formano la base empirica di una teoria generalizzante». Ferraris Franceschi R., “L’azienda: caratteri discriminanti, criteri di gestione, strutture e problemi di governo economico”, in “Economia Aziendale. Vol. I. Attività aziendale e processi produttivi”, Torino, Giappichelli, 2000.
In dottrina si afferma che il soggetto economico, anche se composto da un gruppo di persone, è unico e unitario20, in quanto sintetizza interessi e valori in un sistema di obiettivi
e di decisioni coerenti con le condizioni finalistiche e di funzionamento dell’unità produttiva.
Il soggetto economico detiene il supremo potere volitivo in azienda e, determinando gli indirizzi di fondo della gestione e le decisioni strategiche, individua gli obiettivi generali e le attività per realizzarli nell'ambito dei mezzi “limitati” di cui dispone.
Se si assume come criterio quello che fa riferimento alla “prevalenza degli interessi degli attori” coinvolti nella attività produttiva, taluni individuano nella detenzione del pacchetto di maggioranza la legittimazione all’esercizio del supremo potere decisionale21, altri, per
contro, ritengono che l’azienda dovrebbe perseguire l’interesse delle differenti categorie di soggetti che a vario titolo entrano in rapporto con essa22. Come afferma lo Zappa il soggetto economico è “colui nell’interesse del quale si svolge l’attività di impresa23” oppure come
dice il Masini, “il soggetto economico dell’azienda è l’insieme delle persone fisiche nell’interesse delle quali l’azienda è posta in essere e governata. Sono membri del soggetto economico le persone fisiche cui pertengono gli interessi istituzionali economici”24.
La principale fonte di legittimazione del potere di governo in azienda dovrebbe ritenersi, alla luce degli istituti giuridici prevalenti nel capitalismo occidentale, e delle funzioni di “agente razionale” incaricato di allocare in modo efficiente la risorsa capitale, la proprietà.
Il soggetto economico deve essere associato con i portatori di interessi istituzionali volendo sottolineare, con questo, la prevalenza del fattore umano all’interno della combinazione economica, nelle sue due configurazioni di proprietà e di lavoro, ribadendo che è la variabile determinante dell’economicità d’azienda, seppur nel connubio con il capitale.
D’altro canto, è evidente la diversità dei ruoli e la difforme incidenza che esercitano le diverse categorie di soggetti aziendali. Infatti, solo distinguendo i “livelli” ai quali tali funzioni vengono svolte è possibile circoscrivere il soggetto guida dell’azienda, a ragione
20 «L’unità e l’unicità del soggetto economico consentono che nell’azienda siano attuate le unità di direttiva
generale e l’unità di comando generale». Masini C., “Lavoro e risparmio”, op. cit.
21 Giannessi E., “Le aziende di produzione originaria. Le aziende agricole”, op. cit. 22 Masini C., “Lavoro e risparmio”, op. cit.
del fatto che non tutte assumono la medesima importanza e, cioè, sono capaci di impattare allo stesso modo sulla performance aziendale. Distinguendo fra la funzione di governo di gestione operativa, di gestione strategica e ad indirizzo strategico, si individua nell’esercizio di quest’ultima l’area del soggetto economico.
Tuttavia, nella letteratura più recente, si afferma che i diritti di proprietà non rappresentano più l’unica modalità di controllo delle unità produttive. Anzi, se la titolarità del pacchetto azionario di controllo costituisce una delle condizioni per essere legittimati ad esercitare le funzioni di governo, essa, oggi, appare agli studiosi delle nostre discipline non più sufficiente come, invece, si poteva ritenere in passato.
Pur condividendo, è necessario altresì considerare che anche altre “situazioni soggettive” che appartengono a chi detiene il controllo della proprietà si sono aggiunte alla fonte di legittimazione all’esercizio del potere in azienda. Così i contatti personali, la fiducia di cui gode chi assume il ruolo di guida, le competenze sviluppate sul campo possono essere risorse intangibili strettamente collegate alla proprietà non tanto perché questa sia legittimata di diritto a svolgere funzioni imprenditoriali quanto perché la continua presenza in azienda, che da essa deriva, ha catalizzato e fatto sedimentare, nel tempo, tale patrimonio di conoscenza e di consenso sociale. Chi si trova in tali “situazioni” viene in vario modo, legittimato ad intervenire nel processo decisionale strategico.
Tuttavia, è stato di recente sottolineato come lo schema concettuale che fa perno “esclusivamente” sull’interesse prevalente, in funzione del quale si svolge l’attività di impresa, si dimostra inadeguato per definire e circoscrivere figura del soggetto economico, in quanto troppo generico, perciò incapace di “cogliere gli aspetti attuali della realtà dinamica del nostro tempo e del nostro sistema economico25”.
La dottrina ha elaborato nel tempo numerosi criteri, utili da applicare alle situazioni concrete, per individuare chi fa parte dell’area del soggetto economico e chi dovrebbe farne parte.
24 Masini C., “Lavoro e risparmio”, op. cit., pp. 41-42.
25 Ferraris Franceschi R., (a cura di) “Processi evolutivi dei sistemi al governo aziendale. Tre aziende che hanno attraversato
Si ritiene che la figura del soggetto economico debba essere necessariamente astratta, che non si identifica in uno specifico attore (imprenditore, proprietario, manager), che circoscriva l’area che presidia l’azione di governo e che prevalentemente svolga funzioni di indirizzo strategico.
In questo senso, il criterio che individua il soggetto economico in colui che, nei fatti, esercita funzioni di governo, rovescia l’angolo visuale del problema rispetto al criterio della prevalenza degli interessi.
In un primo momento, questo approccio comporta una certa difficoltà di identificare precisamente i soggetti che compongono l’area del soggetto economico, coloro, cioè, che, di fatto, determinano il volere dell’azienda senza tenere conto della complessa rete di rapporti di natura soggettiva, emotiva e relazionale che sovraintendono la presa delle decisioni.
Nel corso del tempo, l’attenzione è stata posta sulla identificazione dei soggetti che di fatto detengono ed esercitano il potere decisionale o di coloro che dovrebbero esercitare le funzioni di indirizzo strategico (organi aziendali), differenziando, in tal modo, il soggetto economico “proprio” da quello “improprio” che influisce sulla direzione strategica dall’esterno, senza una diretta investitura istituzionale.
Pur tuttavia, se si ritiene che l’area del soggetto economico possa essere individuata facendo riferimento a chi assolve compiti di “guida”, è necessario indicare specificamente quali funzioni di governo devono essere incluse per l’individuazione del soggetto economico, a ragione del fatto che le funzioni di governo economico sono molteplici e spettano ad una molteplicità di attori. Come la dottrina ha già chiarito26, tali funzioni sono strettamente
collegate tra loro poiché obiettivi, decisioni, operazioni e risultati sono gli elementi che si compongono a sistema nell’azienda e le conferiscono l’inconfondibile carattere dinamico. Nella stessa misura, il formarsi degli ideali di fondo dell’azienda segue percorsi spesso indefinibili, riconducibili, a volte, ai soggetti precipuamente preposti all’azione di governo, abbastanza agevolmente individuabili, altre volte, a soggetti diversi per natura e caratteri, che esercitano un’influenza rilevante sugli individui specificamente incaricati di ricoprire
26 Si vedano, ad esempio, gli schemi interpretativi proposti in Coda V., “L’orientamento strategico dell’impresa”, op.
cit., p. 24 e ss.; Ferrero G., “Impresa e management”, 2° ediz., Milano, Giuffrè, 1987; Miolo Vitali P., “Il sistema delle decisioni aziendali. Analisi introduttiva”, Torino, Giappichelli, 1993.
cariche istituzionali di governo (così, ad esempio, i consulenti esterni, gli amici, i familiari, i clienti chiave, gli operatori finanziari, i conferenti capitale di rischio e di prestito, ecc.)27.
Sulla base di questo ragionamento, occorre a questo punto considerare anche un terzo piano di indagine, una “terza teoria” per la quale il soggetto economico sarebbe da identificarsi solo in coloro che sono “istituzionalmente” demandati alle funzioni di governo. Tale equivalenza appare riduttiva. L’analisi della disciplina, di origine normativa, tuttavia, non è inutile ma fornisce il quadro nel quale le unità produttive si trovano ad operare. L’azienda, quale istituto economico sociale, è stato oggetto di una rigorosa disciplina giuridica, in quanto alla determinazione e regolamentazione dei meccanismi di governo e delle responsabilità correlate. L’identificazione dei soggetti facenti parte il soggetto economico deve confrontarsi con la disciplina del diritto societario, secondo la quale, soprattutto con riferimento al nostro Paese, l’autorità di governo così come la responsabilità è affidata agli amministratori, che esercitano nei limiti della delega attribuita28.
Il compito istituzionale di guidare l’azienda spetta, giuridicamente, agli amministratori che fanno parte a pieno titolo nell’area del soggetto economico. Accanto ad essi, l’organo di controllo, un insieme di attori esterni, composto da consulenti altamente qualificati, che, grazie al loro ruolo istituzionale, influenzano in modo indiretto ma puntuale la gestione, con indicazioni, consigli, raccomandazioni. Peraltro, anche il capitale di rischio, che per le grandi aziende va individuato nel solo capitale di comando, si collega all’area del soggetto economico, non solo perchè ad esso spetta la nomina e la revoca degli amministratori, ma anche perché spesso la sua volontà, seppure condivisa con gli amministratori, influenza la gestione strategica aziendale
Infine, un ulteriore componente dell’area del soggetto economico - soprattutto nelle imprese di maggiori dimensioni – è il management, al quale, nei suoi vari livelli, spetta il compito di diffondere in modo sistemico e di tradurre in reali indicazioni tecnico-operative, le linee di sviluppo indicate dagli amministratori. Il management organizza e permette la circolazione delle informazioni non solo dall’alto ma, anche, dal basso, recependo e
27 La Ferraris Franceschi parla a tal proposito di «teoria del soggetto economico basata su di uno schema
concettuale aperto». attribuendo la struttura di governo in via formale o informale «ai conferenti di capitale di rischio, ai manager, ai conferenti il capitale di prestito, ai dipendenti, ad altri soggetti esterni». Ferraris Franceschi, in Cavalieri E. - Ferraris Franceschi R., “Economia aziendale”, Giappichelli, Torino, 2000.
facendosi portatore degli interessi specifici degli individui impegnati nella realtà operativa e conferendo, in questo modo, sistematicità alla combinazione aziendale. In quest’ottica allargata, proprio perché artefici operativi della struttura dell’azienda, anche il management entra a far parte del soggetto economico29.
Nello schema logico della figura del soggetto economico, alla costruzione del quale hanno contribuito numerosi autori, si possono riconoscere sia asserzioni di tipo “esplicativo”, con le quali si cerca di spiegare il motivo e le modalità con cui le strutture e i processi di governo si manifestano nella realtà aziendale, che asserzioni di tipo “normativo e pragmatico”, con le quali la dottrina cerca di offrire strumenti per intervenire sulla realtà aziendale, indicando gli assetti societari e manageriali che dovrebbero essere applicati30.
In definitiva, ricomponendo le diverse tesi, risulta di estremo interesse definire il soggetto economico all’interno di uno “schema concettuale aperto”, nel quale l’organo di governo è determinato in relazione alle funzioni di indirizzo strategico ed è composto dai soggetti e dalle relazioni tra gli stessi. Ne consegue che soggetti, relazioni fra questi e funzione di indirizzo strategico, costituiscono gli elementi essenziali per l’individuazione della struttura e del funzionamento dell’organo di governo delle aziende. In questo senso, il soggetto economico definisce la missione aziendale, le idee, il ruolo e i modelli di comportamento, l’impostazione organizzativa, gestionale e amministrativa dell’azienda.
A ragione del fatto che l’assetto di soggetto economico ritenuto desiderabile, non trova concreta realizzazione nella prassi, la definizione della figura deve essere di tipo “astratto” anche se definito da alcuni caratteri e comportamenti che, nella realtà sono comuni.
E’ chiaro che, la credibilità degli esponenti del soggetto economico e la fiducia che essi sanno ispirare - grazie ai valori e alle idee imprenditoriali di cui sono portatori, ai mezzi propri che impegnano nell’impresa e alle energie personali che vi profondono - sono la fondamentale forza coesiva che consente di aggregare intorno all’impresa le altre risorse, volontà e i consensi che le occorrono.
29 Cfr. Garzella S., “Il sistema d’azienda e la valorizzazione delle potenzialità inespresse”, Torino, Giappichelli, 2005. 30 Cfr. Antonelli V., “Introduzione allo studio del sistema d’azienda”, Torino, Giappichelli, 2002.
Per fare ciò il soggetto economico deve disporre del potere sufficiente per imporre la propria volontà, avere le competenze manageriali (capacità di programmazione, organizzazione, controllo, leadership), avere la volontà di governare l’azienda.
L’aver legato l’individuazione dell’area di governo alle funzioni di indirizzo strategico sollecita un’analisi degli assetti di governo a partire dal capitale intellettuale e dalle competenze aziendali distintive.
1.3 IL GOVERNO DELL’AZIENDA
La semplice osservazione della realtà aziendale testimonia inequivocabilmente la presenza nelle imprese di un organo di governo che, seppure con finalità e tratti comuni, è peculiare in ogni azienda e si manifesta nella specifica strategia aziendale adottata.
Le idee del sistema umano, sempre diverse nel tempo e nello spazio, si concretizzano mediante il sistema delle decisioni, qualificando la combinazione produttiva come realtà unica. Le azioni e le operazioni aziendali altro non sono che l’ “oggettivazione” delle intuizioni e delle idee delle persone che, a vario titolo, sono impegnate nella guida dell’azienda. Dalle idee del soggetto economico scaturiscono le prospettive economiche e nelle sue azioni trovano sistematicità le diverse manifestazioni della combinazione produttiva. Nel suo atteggiamento strategico, che si esprime nella ricerca di sempre nuove posizioni di vantaggio competitivo, risiedono le radici di uno sviluppo durevole ed autoalimentantesi31.
Il ruolo del soggetto economico deve essere quello di salvaguardare l’attitudine dell’azienda a perseguire con efficienza ed efficacia il suo fine principale che consiste nella sua sopravvivenza e nello sviluppo, a valere nel tempo, al fine di meglio soddisfare le aspettative dei suoi diversi interlocutori interni e esterni. Il modo in cui questa funzione fondamentale viene esplicata si ritrova nella strategia aziendale che deve tenere armonicamente conto del sistema delle idee imprenditoriali, dei suoi valori, degli obiettivi di fondo che l’azienda deve perseguire e della cultura e struttura organizzativa dell’impresa, insieme alle persone che la compongono.
Con l'espressione “corporate governance”, in dottrina, si comprende l'insieme di regole e strutture organizzative che presiedono ad un corretto ed efficiente governo societario, inteso come sistema di compensazione fra gli interessi - potenzialmente divergenti - dei soci di minoranza, dei soci di controllo e degli amministratori di una società. Una corretta governance porta alla massimizzazione degli interessi di tutti gli attori coinvolti nell’azienda, ne supporta il successo garantendo sempre la massima efficienza del processo gestionale e decisionale.
La corporate governance, ovvero le modalità i cui si organizzano le strutture dirigenziali e manageriali delle aziende, persegue come fine ultimo il raggiungimento di risultati di successo proteggendo gli interessi degli azionisti e creando valore sia per loro che per tutti gli stakeholders.
Le funzioni che tipicamente sono attribuite all’organo di governo sono quelle di indirizzo e di coesione, di integrazione, interrelazione delle risorse fra di loro e di controllo, in modo da conferire al sistema una direzione unitaria e una visione condivisa, sostituendo alle finalità di ogni singola individualità coinvolta una logica di aggregazione che garantisca una condivisione di finalità, il tutto allo scopo di assicurare, non solo, la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda, ma altresì la creazione di valore per tutti gli interlocutori.
In ragione di specifici obiettivi, l’organo di governo caratterizza il sistema per un indirizzo univoco, certamente suscettibile di variazioni e correzioni, ma pur sempre fondato su una propria vision complessiva dell’ambiente circostante tradotta in una mission altrettanto generale e capace di coinvolgere tutte le parti della struttura al fine di perseguire condizioni di coesione, integrazione e coordinamento delle componenti aziendali32.
È importante che la direzione e il management sviluppino un modello di governance che allinei i valori dei vari partecipanti della società, e che contenga principi come onestà, fiducia, apertura mentale, orientamento ai risultati, responsabilità, rispetto reciproco e impegno nella società.
Al fine di imprimere alla dinamica del sistema una direzione unitaria ed un indirizzo univoco, all’organo di governo dell’impresa sono altresì riconducibili una serie di specifiche attività:
• acquisire i segnali provenienti dal proprio contesto, traducendoli, sulla base del livello di consonanza che si vuole conseguire, in progetti e traiettorie implementati dalla struttura operativa (modelli top-down);
32 Cfr. Golinelli G. M., Barile S., “Riduzionismo vs olismo nelle decisioni di governo dell’impresa: una rilettura del
marketing management” in Congresso Internazionale “Le tendenze del Marketing”, Università, Cà Foscari Venezia, 28 – 29 novembre 2003.
• recepire gli stimoli provenienti dalla struttura operativa, selezionando, nella varietà che li caratterizza, quelli che maggiormente sono in grado di garantire all’impresa la più elevata probabilità di sopravvivenza (modelli bottom-up)33.
Al fine di realizzare, nei modi più opportuni e coerenti, tali intenti, “all’organo di governo è affidato il compito di istituire, secondo criteri di economicità e di efficienza, adeguate connessioni con la struttura operativa e tra le varie componenti della stessa, in modo tale che le informazioni fluiscano rapidamente, che gli obiettivi delle azioni da compiere siano resi noti velocemente e chiaramente e, soprattutto, che i fatti esterni ed interni che esercitano particolare influenza sull’andamento dell’impresa siano prontamente recepiti e correttamente interpretati”34.
Ciò detto l’attività decisionale dell’organo di governo è suscettibile di analisi riconducibili ad aspetti e prospettive diverse. Alcuni studi di governance si sono soffermati sul contenuto della decisione di governo, altri si sono focalizzati sulle modalità e sui processi che conducono alla formulazione delle decisioni, analizzando i vincoli, le opportunità e gli effetti che le decisioni possono comportare.
In sintesi, il processo decisorio dell’organo di governo si manifesta nella coordinazione sinergica di vincoli, aspettative e pressioni dall’ambiente circostante con le capacità e le competenze presenti nell’impresa. L’organo di governo deve avere la capacità di dare delle risposte coerenti, sia sotto l’aspetto spaziale, e cioè, con le risorse interne e le competenze che possiede o che potrà acquisire e le istanze e le attese degli stakeholders di cui ha bisogno per operare, che sotto quello temporale, cercando di dare delle risposte adeguate, anticipando e, laddove necessario, posticipando talune decisioni.
In altri termini, la natura delle decisioni di governo va ricondotta all’insieme di azioni adeguate volte a monitorare i fattori esterni, traducendoli in opportunità, e, se necessario, modificandoli, e a progettare la combinazione di capacità e competenze interne alla struttura operativa al fine di produrre un vantaggio competitivo.
Tutto ciò al fine di costituire dei percorsi evolutivi di produzione del valore che si inseriscano nel contesto generale dell’impresa che è fatto non solo di opportunità ma anche
33 Golinelli G.M., “L’approccio sistemico al governo delle imprese”, Vol. I, Padova, Cedam, 1999. 34 Golinelli G.M., “L’approccio sistemico…”, op. cit.
di vincoli, regole, obblighi, impegni, minacce desunti da un processo di lettura dei fenomeni afferenti il contesto esterno ed interno all’impresa. In altre parole, in ragione di una valutazione del rischio d’impresa.
Come afferma Golinelli, si sostiene che tra il momento del governo e quello della gestione operativa sussiste la stessa relazione c’è tra le fasi della percezione-conoscenza-pensiero e quelle del comportamento; tra l’astratto e il concerto; tra il metodo e lo strumento. Ciò a dire che tra qualunque area funzionale e la strategia di impresa, complessivamente intesa, viene sempre a sussistere un rapporto di “mezzo a fine”35.
Ci sono diverse varietà di modelli di corporate governance nel mondo. I vari modelli si distinguono in base al grado di capitalismo in cui l'azienda opera. Il modello liberale, tipico degli stati anglo-americani, dà priorità agli interessi degli azionisti. Il modello coordinato dell’Europa continentale e Giappone riconosce anche gli interessi di lavoratori, managers, fornitori, clienti e società. Entrambi i modelli godono di diversi vantaggi competitivi, ma in maniera diversa. Il modello liberale incoraggia l'innovazione totale e la concorrenza sui costi, mentre il modello coordinato favorisce l'innovazione qualitativa e la concorrenza di qualità.
Gli assetti di governo, che appaiono vincenti per l’azienda del nostro tempo, distribuiscono il potere di guida del sistema produttivo verso la periferia, cioè, verso chi ha le competenze tecniche, verso il manager che lavora nel quotidiano a contatto con la realtà operativa. In questo modo aumentano il decentramento decisionale strategico e le funzioni di governo, del quale l’imprenditorialità e la managerialità costituiscono i tratti caratterizzanti.
Appare opportuno che un organo di governo efficace debba anzitutto contemperare le due componenti di proprietà e di managerialità in maniera proficua, traducendone le tendenze che non sempre sono ben allineate, in comportamenti sistemici e finalizzati.
Il processo di governo si compone di una fase politico-volitiva, che ne qualifica il momento propositivo, e di una fase esecutiva-operativa che è la fase attuativa delle decisioni. L’aspetto volitivo e strategico del governo incarna i caratteri imprenditoriali e manageriali36.
Una corretta corporate governance ricerca un equilibrio ideale tra spirito imprenditoriale, e controllo manageriale, e supporta il successo dell’azienda garantendo sempre la massima efficienza del processo decisionale.
Per “imprenditorialità”, si intende, la capacità dell’azienda di innovare i suoi processi e i suoi prodotti, di rinnovarsi continuamente, di essere creativa e al tempo stesso flessibile ai cambiamenti, di proiettarsi nel futuro per individuare nuove prospettive, nuove leve per la creazione di valore. L’imprenditorialità è soprattutto un atteggiamento mentale rivolto al cambiamento, una fiducia piena, “quasi romantica”, per la propria idea innovativa che comporta, di conseguenza, l’accettazione dei rischi ad essa connessi.
La “managerialità”, d’altro canto, si compone di caratteristiche tecnico-organizzative, di schemi formali di procedure di controllo oltre che di gestione e organizzazione del lavoro in grado di poter dare corso alle intuizioni imprenditoriali. Una leadership capace, ossia è vitale sul terreno dell’imprenditorialità e professionale su quello della managerialità.
In realtà, imprenditorialità e managerialità non devono essere visti quali modelli gestionali alternativi, in cui la prima appartiene alla proprietà mentre la seconda all’area direzionale, ma come due componenti della gestione d’impresa. Di fatto, sia l’una che l’altra rappresentano le diverse attitudini del pensiero umano per cui i caratteri tipici dell’una sconfinano continuamente nell’altra.
Si può sostenere che le piccole imprese, in cui la componente delle idee, innovativa, cioè di stampo imprenditoriale, è più forte, siano caratterizzate da una “imprenditorialità manageriale”, cioè, una gestione creativa, flessibile e adattabile alle variazioni e allo stesso tempo professionale nella formulazione della strategia, nell’organizzazione delle risorse e nei sistemi di controllo, e che, invece, nelle realtà più complesse e di corporate, sia
36 Garzella S., “Il sistema d’azienda…”, op. cit.. Su questo tema anche il Bertini, «Come l’imprenditorialità
rappresenta l’anima politica dell’azienda, la managerialità ne rappresenta l’anima tecnica. (…) Imprenditorialità e managerialità sono particolari ‘qualità’ del ruolo svolto dal soggetto economico per il governo dell’azienda, con una ‘matrice’ ben individuabile che si riconduce a due distinte, e un tempo nettamente separate, funzioni
necessario uno stile di governo caratterizzato da una managerialità imprenditoriale, in cui le istanze di flessibilità e innovazione sono introdotte in un impianto più controllato e uniformato, mediante la creazione di business unit autonome, di divisioni create su idee di dipendenti e gestite dagli stessi.
Di fatto, questi caratteri, vanno sempre riconciliati nell’istanza di determinare un governo con caratteri di unitarietà e di realizzare una strategia capace di conseguire gli obiettivi aziendali.
amministrative: quella volitiva, riconducibile agli imprenditori, e quella direttiva, riconducibile ai dirigenti». Bertini U., “Scritti di politica aziendale”, Torino, Giappichelli, 1995.
1.4. EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PIANIFICAZIONE STRATEGICA
L’impostazione strategica, o strategia di un’impresa, è un concetto variamente definito nella letteratura. Alcuni autori vi includono sia i fondamentali fini perseguiti che le politiche intese a realizzarli, “enunciati in modo tale da definire in quale business l’impresa è o vuole essere e che tipo di impresa è o vuole essere37”. Altri, invece, assumono fini e obiettivi di
fondo come dati e fanno della strategia un concetto evocativo dei modi in cui l’impresa reagisce al suo ambiente e dispiega le sue risorse in vista dei suoi fini38.
La mentalità strategica si esprime nella ricerca di un “posizionamento vincente” sui mercati e di un’armonia durevole con gli individui che operano dentro e fuori l’azienda39. Tale visione deve essere propria di chi assume le funzioni di indirizzo e di gestione e deve portare ad assumere le decisioni e a predisporre le operazioni secondo uno schema integrato nel tempo e nello spazio.
La necessità per le direzioni aziendali di migliorare l’efficacia e l’efficienza della funzione di governo, in un ambiente sempre più complesso, ha spinto il mondo operativo e la dottrina ad approfondire l’analisi strategica e a formulare schemi e definizioni sul concetto di “fare strategia”.
Senza voler essere esaustivo, ma anzi solo allo scopo di fare una breve panoramica di insieme, il paragrafo che segue illustra come il concetto di pianificazione strategica ha subito, nel tempo, un’evoluzione di concezioni, di strumenti utilizzati e di applicazioni pratiche. Ci si basa sulla divisione delle scuole data da Mintzberg, cogliendo gli aspetti solo delle principali.
La letteratura sulla pianificazione strategica, prendendo avvio, se non prima, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, ha offerto una numerosa serie di modelli del processo attraverso il quale si pensava che la strategia venisse formalmente sviluppata e resa operativa.
37 Andrews K. R., “The Concept of Corporate Strategy”, USA, R. Irwin, 1971, p.28.
38 Ansoff H.I., “Corporate Strategy”, New York, McGraw Hill Book Co., 1965, trad. ital.: “Strategia aziendale”,
Milano, Etas Libri, 1974.
39 «Il successo aziendale si fonda sulla ‘consonanza’ dinamica sia sulla struttura dell’impresa ed il sistema
economico-sociale di riferimento (consonanza esterna), sia tra i diversi sub-sistemi che definiscono i processi operativi propri dell’azienda (consonanza interna)». Galeotti M., “Governo dell’azienda e indicatori di performance”, Torino, Giappichelli, 2006.
In quegli anni, lo sviluppo della strategia è associato ai problemi dei manager nel coordinare le decisioni e nel mantenere il controllo di imprese sempre più grandi e complesse. Poiché le aziende ricercano efficienza e controllo del rischio, la pianificazione a lungo termine diventa un compito di primaria importanza per l’alta direzione. Nascono i fenomeni di delega, specializzazione e coordinamento. La politica economica abbandona progressivamente il “laissez faire” vs il “welfare state”.
Il formato tipico del processo di pianificazione strategica è un documento di pianificazione della durata di cinque anni atto a stabilire scopi e obiettivi, dove si prevedono gli andamenti delle variabili chiave, si stabiliscono le priorità per i diversi prodotti e le aree di attività e si allocano gli investimenti di capitale.
Le origini della gestione strategica come campo di studi possono farsi risalire ai contributi dei seguenti autori: Chandler (1962), Ansoff (1965), Andrews (1971), secondo i quali il processo di gestione strategica è di tipo “analitico-razionale” sia nella fase di formulazione che in quella di realizzazione.
Sulla base dello studio di realtà aziendali, Chandler (1962) ha scoperto come le decisioni del management di lungo periodo hanno effetti sulla struttura organizzative (rapporto tra strategia e struttura organizzativa) mentre Andrews (1971) che la strategia è l’adattamento ad un ambiente esterno dominato dall’incertezza e da minacce ed opportunità. Attraverso la strategia, l’impresa adatta le proprie forze e debolezze al fine di evitare le minacce e trarre vantaggio dalle opportunità.
Un unico insieme di concetti è virtualmente sotteso a tutte le proposte di formalizzazione del processo di formazione della strategia. Le idee di base si fondano sulla convinzione che la formazione della strategia sia un processo di concepimento e che debba esistere necessariamente una congruenza fra fattori esterni e fattori interni. Nello parole dello stesso Andrews si ritrovano questi concetti: “la strategia economica va vista come l’incontro fra competenze e opportunità che posizionano un’impresa nel proprio ambiente40”. Per questa impostazione dottrinale, chiamata Design School o “scuola
progettuale” da Henry Mintzberg, la formazione della strategia avviene mediante un processo strettamente controllato di elaborazione mentale consapevole. Le strategie non
sono sviluppate in modo intuitivo, né “emergono” dal basso, ma devono essere il più possibile “deliberate”. Andrews scriveva dell’esigenza di modificare le “competenze intuitive” in “competenze consapevoli”, contrapponendo l’intenzionalità all’improvvisazione rigettando così la “strategia emergente” come erosione di quella deliberata. La responsabilità del processo rimane in capo allo stratega, che è l’ideatore dei piani che vengono realizzati da altri, i quali sono, dunque, relegati in ruoli subordinati, nell’ambito del processo di definizione delle linee guida, in qualità di attori esterni.
Il modello della scuola progettuale, talvolta noto come Modello Swot (per punti di forza e di debolezza, opportunità e minacce), sta peraltro alla base della seconda scuola, quella della “pianificazione”, che dalla prima accoglie tutti gli assunti con alcune integrazioni e modifiche. Verso la fine degli anni sessanta, si sviluppa la cd. “letteratura della pianificazione” o Planning School con la pubblicazione del saggio “Corporate Strategy” di Igor Ansoff41. La pianificazione si focalizza sulla gestione della crescita attraverso la
diversificazione e la scelta della migliore combinazione “prodotto/mercato/tecnologia”. Igor Ansoff definisce la strategia in termini di decisioni di diversificazione: “le decisioni strategiche sono innanzitutto connesse ai problemi esterni dell’azienda piuttosto che a quelli interni e, in particolar modo, riguardano la scelta dell’assortimento dei prodotti che l’impresa produrrà e dei mercati dove li porrà in vendita”.
Secondo la concezione di tipo “analitico-razionale“ di Ansoff il metodo da utilizzare per gestire un’impresa deve seguire un paradigma seriale di soluzione dei problemi che prescrive che la pianificazione debba precedere l’attuazione. Le decisioni finali e l’attuazione sono rimandate fino al completamento della pianificazione che produrrà un mutamento nella strategia aziendale solo dopo aver attentamente vagliato tutte le alternative investigabili e aver selezionato la soluzione ottimale. E’ il vertice strategico quello che elabora la strategia dell’azienda e il sistema organizzativo non influenza minimamente la formulazione della strategia.
La pianificazione sistematica segue un percorso in cui il management svolge un ruolo energico e razionale, predeterminando le direzioni nelle quali l’azienda si svilupperà e poi guidando e controllando che l’esecuzione sia conforme ai piani stabiliti. Il cambiamento deve essere gestito e la raion d’être del management è proprio la gestione del cambiamento.
L’approccio razionalista alla strategia aziendale considera la formulazione delle decisioni strategiche come un processo logico nel quale la strategia è formulata attraverso un’analisi razionale dell’impresa, dei suoi risultati e del suo ambiente esterno.
La diffusione della pianificazione in questi anni va collocata nel clima di entusiasmo formatosi nelle aziende per le tecniche decisionali scientifiche (es. analisi costi – benefici, discounted cash flow, programmazione lineare, ecc). Molti economisti sostengono che tali metodi, attuati dalle aziende e dai governi, sono in grado di superare il funzionamento casuale dell’economia di mercato. Una volta fissati gli obiettivi, le due fasi successive consistono nella definizione delle condizioni esterne ed interne dell’organizzazione che, nello spirito di un approccio formalizzato e sistematico alla pianificazione, si connoterà come revisione. Coerentemente con lo spirito dell’approccio alla pianificazione, ancora una volta, l’analisi dei punti di forza e di debolezza, è stata oggetto di un’estesa azione di scomposizione. Possono annoverarsi fa questi gli sforzi promossi dalla Boston Consulting Group (BCG) e dalla McKinsey Company per rappresentare un posizionamento di un business su una matrice di punti di forza competitivi e caratteristiche di mercato, sfociando nella famosa “stalla” del BCG con “dog”, “cash caw”, “wildcat”, ecc.
Tale impostazione è stata ampiamente criticata dalla dottrina. Il più emblematico dei critici della pianificazione strategica è certamente Henry Mintzberg. Nel suo scritto “Ascesa e declino della pianificazione strategica”, Henry Mintzberg critica l’impostazione dell’intero processo pianificatorio strategico seguito in tutti quegli anni. “L’intero esercizio di pianificazione, come si è visto, veniva minuziosamente programmato: la delineazione degli stadi, l’applicazione a ciascuno di questi di checklist e tecniche, la sequenzialità del processo, il tutto ben considerato. Ad eccezione di un dettaglio minore: la formazione stessa della strategia. In qualche modo, l’oggetto apparente dell’intero esercizio è andato perduto nel corso del medesimo. Da nessuna parte si dice come creare la strategia; come raccogliere informazioni, sì; come valutare la strategia anche; come implementarla certamente. Ma non si dice innanzitutto come crearla. Ogni autore ha letteralmente girato intorno a questo stadio. (…) Naturalmente, ci si sarebbe dovuti occupare di tutto ciò nello stadio cosiddetto di formulazione della strategia, ma gli autori hanno dimenticato di specificare tale stadio: nessuna scomposizione, nessuna articolazione, nessuna
razionalizzazione, quindi nessuna descrizione. (…) Non si è mai aperta la scatola nera della creazione della strategia, (…). Se la formalizzazione è l’essenza della pianificazione e se la creazione della strategia non può essere formalizzata, che cosa ha fatto la pianificazione strategica in tutti questi anni?”42.
L’autore sviluppa la sua critica alla pianificazione strategica partendo dalla considerazione che l’impresa è una realtà fatta di uomini dotati di volontà e creatività, anche se spinti da motivazioni ed aspettative diverse e non sempre facilmente conciliabili tra loro. Il punto focale di Mintzberg diventa la valorizzazione della creatività manageriale e della autonoma capacità della struttura di reagire ed adattarsi in tempi rapidi alle mutazioni ambientali, anche contro la rigidità delle prescrizioni del piano. Secondo Mintzberg, non è sufficiente inserire, all’interno della logica di rigidi piani costruiti razionalmente, momenti di revisione del piano, perché le possibilità sarebbero assai limitate. Ad un «indebolimento» di fatto della razionalità della gestione strategica può corrispondere, in positivo, una sorta di vitalità dell’impresa, quasi fosse un essere vivente, che si manifesta attraverso la capacità di adattarsi tempestivamente alle circostanze non previste dai piani, in tempi molto più rapidi di quelli di adeguamento dei piani stessi. Anzi, l’autonoma capacità creativa dei manager e, più in generale, quella di apprendimento ed adattamento del sistema sono stimate in grado di correggere, con un comportamento pragmatico, anche gli eventuali errori commessi in sede di pianificazione strategica. La fonte di questa capacità, non dipendente da un processo razionale centralizzato, è costituita dall’intuito, dalla creatività e dalla capacità di reazione degli esseri umani ai vari livelli dell’organizzazione. Nei limiti dell’autonomia disponibile, essi si impegnano, in relazione al loro quadro motivazionale, nel perseguire gli obiettivi generali dell’impresa, facendo qualcosa di più e qualcosa prima rispetto all’elaborazione ed all’attuazione del piano, magari anche sotto la spinta di interessi personali di potere o carriera43.
42 Mintzberg H, “The Rise and Fall of Strategic Planning”, Prentice Hall International (Uk), 1994, trad. ital.:
“Ascesa e declino della pianificazione strategica”, Torino, Utet, 1996, p. 49 e ss.. Anche Quinn critica la precedente impostazione di pianificazione strategica. Al proposito, Quinn scriveva: «Gran parte della pianificazione aziendale che ho avuto modo di osservare è come una danza rituale, non ha effetto sul tempo che sarà, ma coloro i quali vi sono impegnati pensano che lo abbia. Inoltre, mi sembra che, in prevalenza, consigli e istruzioni relativi alla pianificazione aziendale siano finalizzati a migliorare la danza, non il tempo atmosferico». Quinn J.B., “Strategies for change: logical Incrementalism”, Irwin, Homewood, 1980, p. 122.
43 Il riferimento bibliografico è: H. Mintzberg, “On Strategies: deliberate and emergent”, in Strategic Management
Journal n. 6/1985. Vedasi anche, dello stesso autore, “Crafting Strategy”, in Harward Business Review, n.4, July-August 1987.
Infatti, la crisi mondiale del 1974 e del 1979, generata dall’aumento dei prezzi del petrolio, determinano un periodo di instabilità macroeconomica associato ad una crescente concorrenza internazionale che dimostra che i sistemi di pianificazione strategica, anche sofisticati, non erano in grado di anticipare il cambiamento.
L’incertezza nel mercato rispetto alla stabilità di un tempo, la crisi della grande impresa (e del Taylorismo), la crescente complessità del mercato del lavoro, la mondializzazione del confronto (politico, economico e sociale), comporta la necessità di adottare metodi più flessibili nella gestione strategica con una maggiore attenzione ai vantaggi competitivi e alla differenziazione del prodotto.
A tale proposito Henderson scrive: “La strategia è la ricerca cosciente e deliberata di un piano di azione che porterà a sviluppare un vantaggio competitivo e quindi a rafforzarlo. Per alcune aziende questa ricerca è un processo interattivo, che prende inizio da un’attenta analisi della situazione di partenza (dove siamo, cosa abbiamo in mano), e la presa di coscienza che i concorrenti più pericolosi sono quelli più simili a noi. Le differenze tra noi e i nostri concorrenti sono le basi del nostro vantaggio, e ciò significa che se siamo un’azienda che si sostiene da sola e se esistiamo ancora, dobbiamo avere da qualche parte un certo vantaggio competitivo. L’obiettivo è quello di allargare l’ampiezza del nostro vantaggio, e questo può avvenire solo a spese di qualcun altro”.
In questo periodo, l’attenzione è quindi rivolta ai mercati di riferimento delle imprese e in particolar modo verso l’analisi della struttura del settore e l’analisi della concorrenza. Un’importante letteratura si è sviluppata negli anni ottanta intorno alla cosiddetta analisi di settore e competitiva, mediante la costruzione di scenari nell’ambito dei quali vengono ipotizzate visioni alternative dei possibili assetti ambientali futuri per l’organizzazione. Il filone dell’Harvard Economist Department (J.S Bain) effettua ricerche per identificare i fattori strutturali che generano una redditività superiore in un settore rispetto ad altri. Il tutto segnatamente sotto lo stimolo del famoso saggio di Porter “Competitive Strategy” del 198044 che ha legato la redditività media di un settore a cinque forze competitive. Questa
scuola cd. “di posizionamento”45 si focalizza sul contenuto della strategia (differenziazione,
44 Porter M. E., “Competitive Strategy: Techniques for analyzing industries and Competitors”, New York, The Free
Press, 1980, trad. ital.: “La strategia competitiva: analisi per le decisioni”, Bologna, Edizioni Tipografia Compositori, 1982.
diversificazione...) piuttosto che sui processi attraverso i quali quest’ultima viene formandosi.
La base di partenza dell’insegnamento di Porter è che la strategia competitiva deve collegare l’impresa al proprio ambiente di riferimento, per dare luogo alla realizzazione di un tasso di profitto soddisfacente attraverso lo sfruttamento di quei fattori che determinano la redditività aziendale all’interno del settore o dei settori in cui essa opera. Questi fattori sono costituiti dall’attrattività dei settori industriali e dalla capacità dell’impresa di procurarsi un vantaggio competitivo all’interno del settore di appartenenza. Quest’ultimo punto costituisce la maggiore innovazione e viene sviluppato fino a diventare il perno ed il criterio di tutta l’elaborazione del processo strategico: la strategia è la ricerca del vantaggio competitivo come condizione di successo. La scelta del settore in cui competere riguarda la strategia a livello di corporate; stabilire il modo in cui competere riguarda la strategia di business: entrambi gli aspetti devono essere presenti nella strategia competitiva.
Rispetto agli approcci precedenti, l’attenzione si concentra su quei fattori che sono vitali per l’impresa in quanto ne influenzano direttamente la performance reddituale. Pertanto, vengono delimitate con maggiore precisione le variabili che effettivamente entrano in gioco. Una appropriata conoscenza dell’ambito di riferimento dell’impresa diviene il punto di partenza del processo di formulazione della strategia. Se, infatti, la pianificazione strategica tradizionale aveva interpretato la strategia come il frutto di uno sforzo razionale che organizza e realizza piani in un ordine predefinito, Porter risponde che la strategia aziendale deve discendere dall’analisi dell’ambiente competitivo in cui l’impresa opera, in conseguenza del collegamento tra la struttura del settore e le prospettive di redditività. Ne consegue che la fonte della strategia non è tanto la pianificazione strategica, che resta come un derivato, ma l’attenta analisi dell’ambiente competitivo. Essa costituisce la base conoscitiva necessaria per identificare le imperfezioni del mercato che possono consentire di costruire e sfruttare il vantaggio competitivo. In altre parole, l’analisi settoriale fornisce gli elementi necessari per definire in modo concreto il percorso strategico da perseguire, secondo il criterio preciso del vantaggio competitivo.
Dagli anni Ottanta in poi, l’ambiente cambia rapidamente ed in modo imprevedibile e di conseguenza le strategie di lungo termine perdono il loro valore predittivo e pratico. Le