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Recensione a L. Sozzi, Da Metastasio a a Leopardi. Armonie e dissonanze letterarie italo-francesi

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L. SOZZI, Da Metastasio a Leopardi. Armonie e dissonanze letterarie italo-francesi, Firenze, Olschki, 2007.

Evitando ogni «discorso positivistico sulle fonti» (166), Lionello Sozzi offre in questo libro un esempio di studio comparatistico che programmaticamente non si limita a individuare debiti e dipendenze, ma ricostruisce con eccezionale acume un quadro storico-culturale dal quale emerge evidentissima l’originalità dei singoli. La mole degli studi e dei testi citati è impressionante, e rende conto di un percorso intellettuale di rara qualità e ricchezza: il lettore si troverà infatti di fronte a capitoli composti tra il 1967 e il 2007, rivisti e aggiornati in modo tale da costituire non solo un volume omogeneo e per nulla frammentario, ma una panoramica della cultura italo-francese dei secoli XVIII e XIX.

I tre ambiti di ricerca delineati dall’autore (la fortuna francese di alcuni autori italiani, la frequentazione e la lettura di testi francesi da parte di letterati italiani, il legame tra alcune opere italiane e il dibattito filosofico europeo) si propongono innanzitutto come ricognizione dei modelli culturali ed ideologici che, saldandosi in una stretta connessione di temi e problemi, innervano i testi di una stagione letteraria multiforme in cui le dissonanze contribuiscono a creare un quadro di «superiore armonia». Come dichiara l’autore a proposito dei legami tra la pubblicistica funeraria di fine Settecento e i foscoliani Sepolcri, non interessa «tanto stabilire una filiazione diretta, quanto fissare l’organico articolarsi di un insieme di temi morali, religiosi e politici, e rendersi conto delle premesse culturali, delle radici e delle ragioni ideologiche» di un dibattito assai più complesso di quello tramandatoci dalla vulgata degli studi settecenteschi (167), dibattito da cui peraltro Foscolo prende le distanze, dissociandosi sia dalla «soluzione fideistica» sia dalla consolazione della «permanenza ‘memoriale’» tanto diffuse in quella tradizione (200).

Analogamente, i capitoli dedicati a Parini vanno ben oltre la ricostruzione delle fonti francesi della figura del giovin signore, e mirano a individuare un complesso di prospettive culturali e sociali che caratterizzano il Settecento europeo (52). In questo modo l’antesignano dell’eroe parinano, il petit-maître della letteratura moralista francese, non rappresenta solo la reazione fisiocratica alla passività della classe nobiliare, ma si complica e arricchisce: Sozzi individua altri temi portanti, tra cui la critica alla moda, al «jargon précieux» di una nobiltà brillante ma leziosa, e al cosiddetto bel esprit, intellettuale fatuo e smanioso di singolarità e stravaganza che è

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erede dei ridicules marquis di Molière e antesignano del «dandy di future stagioni» (110). Nella figura letteraria del petit-maître si mescolano vari intenti filosofici: la difesa della produttività e della morale borghese, la critica della tracotanza intellettuale dei faux-savantes e dell’eccentricità di chi ha fatto della galanteria un ideale vuoto, l’affondo ironico verso le raffinate regole dell’ossequio amoroso, verso un modello di vita che l’Encyclopédie descrive come «insecte léger qui brille dans sa parure éphémère» (73). Tuttavia l’irrisione dei «gloriosi affanni» e delle «leggiadre cure» risponde anche a un intento più pavido, quello di arginare la diffusione di un pensiero razionalistico sentito come ideologicamente sovvertitore: il petit-maître è molto spesso anche un philosophe, un esprit fort libertino e irreligioso. Per questo «lo schema che vede nell’Illuminismo “l’ideologia della borghesia in sviluppo”» è secondo Sozzi fallace, poiché la satira nei confronti del giovin signore rappresenta sì la battaglia degli ambienti borghesi in ascesa contro l’improduttività nobiliare, ma «non certo per adesione alle lumières» bensì per tramutarsi in «battaglia anti-filosofica» (104). Di tutto questo dibattito riecheggia il Giorno, e tuttavia con una novità di rilievo: in Parini il giovin signore si adegua agli aspetti esteriori ed edonistici del pensiero dei Lumi, ma si astiene rigorosamente dalle tesi più radicali e innovative che avrebbero messo in causa i privilegi della classe cui appartiene. Il Settecento è dunque emblematico di una situazione contraddittoria «in cui sarebbe semplicistico separare schematicamente il bene dal male, il reazionario dal progressivo», una situazione in cui «spunti apparentemente conservatori possono aprirsi a sviluppi positivi e a valide acquisizioni» (118).

Degli autori presi in esame Sozzi sottolinea, pur all’interno del loro «personale temperamento», la collocazione all’interno di «un più largo e generale orientamento della coscienza culturale europea» (142). La malinconica fierté di Alfieri è posta in inaspettata correlazione con la dubbiosa meditatio di Montaigne, ma anche con la successiva riflessione di André Chenier, meno monolitica nel descrivere il rapporto mecenate-poeta, ma ugualmente tesa a sottolineare la virilità e la sacralità, le qualità possenti e gli elevati affetti del letterato. Il romanticismo del «Conciliatore» viene ricondotto a radici illuministiche spesso ignorate, a Montesquieu più che a Rousseau, a Condillac più che ai fratelli De Maistre e a Chateaubriand: gli intellettuali milanesi risultano così sostanzialmente attardati rispetto alle tendenze che stanno maturando nel clima culturale europeo dei loro anni. Decisamente più aggiornati rispetto alle recenti suggestioni letterarie e filosofiche provenienti d’oltralpe sono Manzoni,

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Giordani e soprattutto Leopardi: se è vero che L’infinito «non nasce da logiche riflessioni» ma da «spunti emotivi e affettivi», è tuttavia innegabile che la trattatistica filosofica e religiosa, che aveva affrontato il tema dell’idillio e di cui Leopardi ha indirettamente avuto notizia, costituisce «il terreno sul quale l’invenzione poetica germoglia» (323). Sozzi ricostruisce le linee di un dibattito filosofico che, da Fontenelle ai tardi Lumi, si era interrogato sulla natura del concetto di “infinito” (da mera costruzione della mente a nozione matematica, da idea empiristica cui si giunge per via di addizioni a nozione metafisica che assume una particolare coloritura religiosa). Fénelon, Ancillon, Bernardin de Saint-Pierre, Swedenborg, e poi Voltaire, Hegel, Senancourt, fino a Chateaubriand, Bonstetten, Rousseau sono – è evidente – non le fonti del testo leopardiano, ma la rete che consente una straordinaria circolazione di idee e di clichés poetici che Sozzi trova rimodulati nell’idillio: la distanza tra il fenomenico e l’invisibile, il senso del limite, l’impossibilità di una

comparatio tra finito e infinito che genera stupore, lo slancio immaginativo verso un au-delà che potrebbe anche nascondere il nulla, la percezione del silenzio come

elemento di connessione tra l’infinito spaziale e quello temporale, lo sgomento e il naufragio del pensiero sono tutti «leit-motif della letteratura e del pensiero nel periodo del tournant des Lumières» (344) che vengono declinati ora in direzione deduttiva e metafisica, ora in senso induttivo e sensoriale. Leopardi – come Xavier de Maistre – fa sua un’idea totalmente interiorizzata dell’infinito che è prima di tutto ardore infinito dell’immaginazione (336-337): cade la tensione all’infinito come ansia di ritorno alle origini, anzi Leopardi tace «sul ‘senso’ della tensione di ogni essere umano verso l’infinito» (351), così come lascia cadere ogni fervore spiritualistico, senza per questo far totalmente sua l’opzione empiristica. «Il mare dell’infinito in cui è dolce per il poeta annegare – conclude Sozzi – non è quello del divino, è quello dell’umana fantasia, facoltà straordinaria che però non dà certezze» (355) e lascia aperto un dubbio che si schiude sul «mare di un infinito desiderio» (360).

Da Metastasio a Leopardi si presenta come appassionante promenade attraverso la

ricca fucina della letteratura sette-ottocentesca che supera gli orientamenti schematici e dogmatici di molta nostra cultura: emergono così nuove prospettive di studio,

liaisons di vario tipo tra autori che – inseriti nel terreno fertile della tradizione

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