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Roma laboratorio di innovazione politica: la Giunta Nathan

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Academic year: 2021

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Marco De Nicolò

Roma laboratorio di innovazione politica: la Giunta Nathan 1. La capitale senza progetto

Durante il processo risorgimentale, Roma aveva alimentato sogni e progetti: tranne pochi deputati, che avevano avanzato osservazioni sui suoi limiti come prossima capitale, la scelta appariva scontata. In realtà, una volta giunta a Roma l’Italia, ci si trovò di fronte a una città che mostrava orgogliosamente le vestigia dell’antico passato imperiale e un tesoro barocco da conservare ma che, per il resto era una grande città di campagna, in cui risiedevano circa 200.000 persone. Una grande parte dello scenario urbano romano offriva alla vista orti e vigne fin dentro il suo centro storico, nella città potevano accendersi improvvisi incendi di fienili collocati vicino al Colosseo. Insomma, la città pontificia era tutt’altro che una città moderna e tanto meno una capitale paragonabile alle omologhe città europee. Era rimasta ferma nel tempo e nello spazio, sospesa in quella cifra eterna contrapposta alla modernità dei tempi. D’altronde moderno e veleno erano due lemmi che apparivano sinonimi nell’età pontificia del Pio IX post 1849.

Se il sogno si era compiuto, i progetti per disporre di una capitale effettiva, moderna, specchio di un Paese giovane, svanirono in poco tempo. Nel 1870 non era più all’ordine del giorno la Terza Roma vagheggiata da Mazzini, ma si frantumò in breve tempo anche il progetto selliano di “Città della scienza”, che doveva porre una città nuova accanto alla vecchia, rispettando la storia e le prospettive di capitale allo stesso tempo.

Sia dal punto di vista nazionale che da quello cittadino, per quasi un quarantennio si erano perse le tracce dell’impeto con cui era stata rivendicata la capitale “inevitabile”; una nuova forma di attenzione si impose, quella relativa alla concreta mappa degli interessi sulle aree edificabili e degli affari promettenti. Si passò dall’immobilità urbana, propria della città pontificia, alla furia edilizia. Se i progetti legati a una visione funzionale e moderna di una capitale erano falliti, ciò non era solamente per la forza degli ambienti aristocratici locali e finanziari. In realtà non c’era ceto sociale che desiderasse la modernità a Roma: non quella borghesia del tutto particolare, che ambiva più a somigliare all’aristocrazia romana che alle moderne borghesie italiane ed europee e certo non quella nobiltà che era stata il puntello del potere pontificio. Nei ceti medi e nella popolazione minuta apparivano più diffusi una sorta di scetticismo e di fatalismo che pur contrastavano con la partecipazione alle vicende del 1849 ma che, dopo quella data, si era quasi del tutto spenta. Gli affari unirono, nella città, legittimisti e filo-italiani e i momenti di integrazione tra Roma e l’Italia non avvennero nel confronto su un progetto di capitale, ma nei salotti, nei consigli di amministrazione delle banche, nel comune interesse sulle aree.

Ciò spiega la continuità del notabilato di origine aristocratica al vertice dell’amministrazione della città e la diffidenza nei suoi confronti da parte della classe dirigente nazionale, come mostrava eloquentemente la quasi sistematica mancanza della nomina ufficiale a sindaco per molti facenti funzione. Con l’eccezione di due brevi sindacature di Luigi Pianciani, quel

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vertice amministrativo agì badando più alla conservazione di interessi costituiti che a dare alla città un volto moderno e una funzionalità urbana; più a tessere accordi che a rappresentare la piena entrata di Roma nella politica nazionale.

2. Giolitti: aperture politiche e possibile modernizzazione urbana

Oltre a perseguire interessi di parte, quel notabilato aveva finito per cumulare debiti che, all’inizio del Novecento apparivano già di una consistenza imbarazzante e a cui mettere riparo appariva impresa assai difficile. Già nel 1904 Giolitti aveva manifestato a Luzzatti tutta la sua insofferenza a tal proposito ma Luzzatti lo aveva trattenuto dalla tentazione di procedere allo scioglimento dell’amministrazione: caduti questi, ne verranno altri uguali, era stato il suo monito.

Ma i tempi stavano comunque mutando: consapevole di operare in una società diversa da quella ottocentesca e ritenendo di dover rispondere all’urgenza di porre strumenti utili per dare vita a una migliore organizzazione urbana e sociale, Giolitti varò norme che aprivano grandi possibilità ai Municipi: la municipalizzazione dei servizi e la tassazione delle aree edificabili non erano imposte dal centro, ma poste nelle mani delle Giunte che avessero voluto intraprendere una strada di razionalizzazione e modernizzazione, oltre che di equità, nella loro azione amministrativa. Giolitti non tradiva, così, né i riferimenti ideali liberali, né il rispetto delle autonomie, lasciando tali possibilità come libere scelte.

Parallelamente, dal punto di vista politico, se l’apertura al riformismo, come è noto, a livello nazionale non si era tradotta nella collaborazione diretta con i socialisti, essa aveva però spalancato le porte a un dialogo possibile. E a Roma, tale politica aveva ridato fiato ad alleanze che già in passato erano state parzialmente sperimentate, ma senza giungere mai a rappresentare un’alternativa in grado di giungere al vertice del Campidoglio.

Senza tener presenti queste due linee guida non sarebbe possibile comprendere l’opportunità creatasi nel 1907 con l’allestimento di una Giunta che vedeva la partecipazione di varie correnti progressiste, dai liberali ai socialisti, passando per i radicali e i repubblicani.

3. Il laboratorio di Nathan

Le premesse normative create da Giolitti e la formazione di “Giunte popolari” in città importanti, furono la novità per la vita amministrativa d molti centri. A Roma, la disaffezione verso amministrazioni locali che avevano cumulato debiti senza dare risposte alle necessità, giunse fino a quei ceti medi che erano apparsi fino a qualche anno prima indifferenti, così come la crescita attraverso il dibattito all’interno delle sedi socialiste e l’attività svolta dalla Camera del lavoro, avevano sensibilizzato molta parte di ceti di lavoratori. In campo politico le forze laiche, progressiste e socialiste, appoggiate da una associazione importante come la Massoneria e da un giornale cittadino di grande richiamo, come “Il Messaggero”, si stringevano attorno a un progetto urbano e a un leader di indiscutibile autorevolezza: Ernesto Nathan.

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La formazione della sua Giunta, nel 1907, pur con dibattiti interni vivaci e talvolta portati fino alla rottura di alleanze, segnò un salto di qualità. La città divenne un laboratorio sotto più punti di vista, dove sperimentare un’alleanza non proprio semplice, ma soprattutto dal quale avviare la nazionalizzazione effettiva della città. In poche parole: Roma, con un suo progetto di città e integrata nella dialettica nazionale, diveniva effettivamente una capitale. Fatti propri gli strumenti normativi messi a disposizione di Giolitti, e adeguandoli alla situazione cittadina, la Giunta presieduta da Nathan avviò un processo di compattamento urbano e di modernizzazione fino ad allora sconosciuto. Nathan si avvalse di personalità di grande spessore in qualità di assessori: primo tra tutti Giovanni Montemartini che aveva già mostrato tutte le sue qualità prima nella Società umanitaria, poi nel primo embrione della statistica in Italia, costituito presso il Ministero dell’agricoltura, quindi come teorico principale delle municipalizzazioni dei pubblici servizi.

La necessaria conferma popolare della scelta che municipalizzava alcuni importanti servizi pubblici, come i trasporti e l’energia, venne trasformata in un consapevole coinvolgimento della popolazione nelle scelte urbane. L’attenzione rivolta alle condizioni abitative dei ceti meno abbienti, riscattandone la qualità della vita attraverso misure poste al servizio dell’igiene e della salubrità, evidenziava una rara sensibilità. Così come la restituzione di una condizione di dignità in quelle lande su cui la retorica si era esercitata per decenni senza costrutto, appariva una concreta acquisizione: nell’agro romano sorgevano stazioni sanitarie e scuole, “inseguendo” i giovani meno fortunati perché avessero un’istruzione. La città, frantumata nei progetti e nel suo corpo dalla speculazione e dal fallimento della speculazione, veniva ricomposta e resa più coesa dal piano di Edmondo Sanjust di Teulada, che Nathan chiamò a Roma da Milano. Un’astuzia politica di non poco conto: estraneo alle beghe e ai circoli affaristici, uno dei tecnici più preparati si poneva al servizio dello sviluppo urbano e impostava il primo concreto piano regolatore, poiché i precedenti erano stati davvero poco seguiti nella pratica e perché mancavano di alcuni elementi tecnici fondamentali. Il cinquantesimo compleanno del Regno divenne l’occasione per stringere la città attorno alla nazione, riconoscendone, peraltro, la sua pluralità attraverso gli stand organizzati per “regioni”.

Il laboratorio allestito da Nathan fu foriero anche di una risposta dalla parte opposta. I fermenti nazionalisti, la progressiva partecipazione delle organizzazioni cattoliche non solamente al momento del voto amministrativo, ma anche in una più costante dialettica politica, confermarono che nella città si dibatteva ormai in modo non occasionale dei grandi temi nazionali.

Roma era uscita dopo quasi quarant’anni dalla propria autoreferenzialità e aveva offerto un modello amministrativo concreto, che guardava alla città nel suo insieme. Non mancarono limiti, ovviamente, in quell’azione amministrativa, ma certamente il balzo che la città compì in quei sette anni di amministrazione capitolina, fu così evidente che, dal 1907, Roma poté essere identificata come una vera capitale, in cui il dibattito politico e la partecipazione a quel dibattito l’aveva resa un centro riconoscibile: non era più una capitale “di principio”, ma una vera capitale nazionale. Non era

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esagerata, pur provenendo da un simpatizzante della Giunta, l’affermazione del radicale Luigi Lodi, secondo cui quell’esperienza era stata poco meno di una rivoluzione per Roma.

Bibliografia:

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Riferimenti

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