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Guarda Gabriella Kuruvilla, Maneggiare con cura (Milano, Morellini, 2020, 218 pp. ISBN 978-88-6298-743-1)

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I raccomandati/Los recomendados/Les recommandés/Highly recommended

N. 24 – 11/2020 ISSN 2035-7680

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Gabriella Kuruvilla,

Maneggiare con cura

(Milano, Morellini, 2020, 218 pp. ISBN 978-88-6298-743-1)

di Nicoletta Vallorani

L’inizio è un funerale, un rituale comunitario nel quale, fatalmente, si incrociano storie. Quattro personaggi che sembrano non avere nulla a che fare uno con l’altro partecipano in modi e con intenzioni diverse allo stesso rito funebre. La donna che, con un atto deliberato, ha scelto di abbandonare la vita è Ashima, artista indiana e docente di Accademia, che ha passato la vita sospesa tra due mondi – quello d’origine e quello d’adozione − senza mai riuscire ad abitare appieno nessuno di essi. Carla, che è la prima a comparire nel lineare ma non scontato succedersi di voci, orchestra l’introduzione degli altri personaggi, proponendosi come colei che li disegna senza ancora sapere chi sono. L’esiliata, colei che viene dalla campagna per scelta e per incoraggiamento dei genitori, è forse il personaggio più positivo del romanzo. Meno pacificata appare Diana, che si sente condannata a bastare a se stessa e che ha vissuto di riflesso l’instabilità di vivere in una zona di mezzo, tra Italia e India, senza averlo scelto, per di più, ma essendo costretta ad accettare un pendolarismo geografico che è anche oscillazione dell’anima. Pietro, quarantenne all’epoca della narrazione primaria, entra per terzo, anche lui un decennio circa dopo il funerale che ha visto le vite di tutti sfiorarsi. Peter Pan stazzonato, e adulto col “complesso di Fonzie”, non ha proprio idea di che cosa fare della sua esistenza e dei suoi talenti, veri e presunti. Galleggia, un po’ come Manuel, infedele e

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453 inconcludente, pigramente assestato in una routine anomala ma ricorrente: la pigrizia di chi non vuole diventare grande. Tutti e quattro i personaggi, insieme al fantasma di Ashima, si aggirano in una Milano che balza fuori dalle pagine, colorata e insolita, definita da una musica che, lo si intende con chiarezza, Kuruvilla conosce bene. Il percorso di fuga che conclude la storia è strumentale e temporaneo. Il luogo vero che tutti i personaggi abitano è la metropoli, un palcoscenico familiare, insolitamente poco efficiente e ironicamente caotico, pronto a ospitare tutti ma determinata, a non concedere nulla in regalo a nessuno.

In questa cornice, Kuruvilla intreccia le vite dei personaggi, nei modi impossibili in cui spesso la realtà lo fa. Le affianca e fa esplodere alchimie, attraverso storie d’amore improbabili, scelte di vita improvvise, scoperte della felicità in posti dove mai più si pensava che fosse. I personaggi di Kuruvilla sono convincenti, perché sono ‘vivi’, contraddittori come le persone sanno essere.

Complessivamente, il piccolo affresco quotidiano che il romanzo offre rappresenta la combinazione riuscita tra un film di Woody Allen e un racconto di Grace Paley da giovane. Però è anche qualcosa di molto diverso, per via di due componenti fondamentali: una milanesità meticciata, da sempre presente in Kuruvilla scrittrice, pittrice e forse anche persona, e una sfumatura di ironia che le appartiene, capace com’è di coniugare le note del tragico e quelle del ridicolo.

Questa milanesità mi interessa perché è impura e segnata dalla memoria delle sue origini. Kuruvilla ha un’unicità derivata dalle forme del meticciato. Vi è, nel suo sguardo di scrittrice, una consapevolezza profonda del senso dei rituali sociali in culture diverse, e il riconoscimento del fatto che ogni tradizione ha la medesima dignità delle altre. Aggiungo, come piccola chiosa conclusiva, che la fortuna di Kuruvilla viene legata spesso al suo essere la somma di due metà, e si suppone che questa somma risulti anche dalla sua scrittura. Io trovo che non sia così. Kuruvilla ha una sua voce, l’ha sempre avuta, e non merita menzione ‘solo’ perché è donna e ‘straniera’ (salvinianamente parlando). Kuruvilla è una scrittrice, e come tale va considerata.

Che poi la sorte delle scrittrici (ma anche degli scrittori) sia indipendente dalla loro bravura è un altro fatto di questa sconquassata editoria. Maneggiare con cura non entra in una categoria autoriale. È un romanzo, e un romanzo riuscito. Va letto a prescindere.

_____________________________________ Nicoletta Vallorani

Università degli Studi di Milano nicoletta.vallorani@unimi.it

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