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Voto segreto e voto palese nei regolamenti parlamentari in Italia

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Academic year: 2021

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Alla mia famiglia che tanto adoro,

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INDICE

Introduzione

Capitolo I

La storia dei regolamenti parlamentari fino alla riforma del 1971

1. Il periodo dello Statuto Albertino 1.1. Mussolini al potere: l’avvento del regime fascista

1.2. Il periodo transitorio e la Consulta Nazionale

1.2.1. I lavori dell’Assemblea Costituente

1.3. La nascita della Repubblica

1.3.1. Voto segreto e consociativismo 1.4. I nuovi regolamenti del 1971

Capitolo II

La svolta epocale degli anni Ottanta

2. Le prime basi della riforma

2.1. Il 1983: Commissione Bozzi e voto palese sulla legge di bilancio 2.2. Modalità di voto in rapporto al divieto di mandato imperativo 2.3. La storica riforma del 1988: l’introduzione del voto palese

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Capitolo terzo

La situazione post 1988 e proposte di riforma fino ai giorni nostri

3. Operato delle Camere fino ai nuovi regolamenti del 1997 3.1. La situazione nel nuovo Millennio fino alla legge “ Gasparri ” 3.2. Proposte e modifiche regolamentari negli ultimi dieci anni 3.3. Considerazioni finali

Bibliografia

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INTRODUZIONE

L’opportunità di votare a scrutinio segreto o in modo palese può sembrare solo una questione di natura tecnico - pratica ma, con un’analisi graduale e progressiva, si può dimostrare, al contrario, la valenza politica dell’istituto.

I tipi di votazione, sin dalle loro prime codificazioni che prenderemo a modello, hanno sempre rappresentato molto più di una questione meramente procedurale; in base alle varie epoche storiche attraversate, i regolamenti parlamentari, mostrarono chiaramente di esser funzionali, e di adattarsi, alle situazioni sociali e politiche del tempo. Il nostro esame prende le mosse dall’approvazione dello Statuto Albertino nel 1848. In questa fase inaugurale il testo era ispirato a quello di altri paesi europei con l’intento, terminata la situazione iniziale di assestamento ed organizzazione, di elaborarne uno proprio ed innovativo rispetto ai precedenti. Purtroppo, questa stagione della provvisorietà, durerà fino alle modifiche radicali del 1988.

Il primo tipo di votazione, per l’approvazione finale delle leggi e per ciò che concerneva il personale, fu a scrutinio segreto, certamente per proteggere e garantire la libertà di coscienza dei parlamentari da pressioni provenienti da Re, governi ed altri soggetti influenti in quell’epoca. Si comincia già a notare come i testi dei regolamenti parlamentari rispecchino la situazione sociale e politica del tempo. Sempre nel primo capitolo tratteremo dei regolamenti parlamentari in relazione all’avvento del regime fascista di Benito Mussolini. Dal

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1922 ( anno della marcia su Roma ) al dicembre del 1938 ( quando ormai era prossima l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni ), vedremo che rimase vigente il Regolamento prefascista del 1900 integrato dalle modifiche del 1922 in quanto, nella prima fase della sua esistenza, il regime si impose gradualmente ma con le idee già chiare sul tipo di politica che avrebbe voluto condurre. I suddetti intenti vennero alla luce definitivamente con la soppressione della Camera dei Deputati e l’istituzione del voto palese in luogo dello scrutinio segreto. Era chiaro che, tramite questo tipo di votazione, i fascisti volevano controllare facilmente l’operato dei parlamentari, potendo così facilmente smascherare i traditori del regime ( fu un’ulteriore cautela, quasi superflua, dato che il Duce poteva già contare su delle Camere praticamente piegate alla sua volontà date le incessanti “ infornate ” di parlamentari fascisti e considerando la sua vicinanza al Re, tramite necessario per controllare il Senato Regio ) .

Continuando con l’analisi del presente lavoro giungeremo, dopo la caduta del fascismo, al periodo transitorio caratterizzato dalla nascita della Consulta Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente.

Vedremo che, in seno alla Consulta, si scelse di adottare i regolamenti vigenti prima dell’avvento del regime fascista; sicuramente questa decisione fu frutto della volontà di cancellare quelle norme create in regime di dittatura e di ricollegarsi normativamente, ma anche e soprattutto ideologicamente, all’ultimo periodo di libertà precedente all’ascesa al potere di Mussolini.

Il giorno dopo lo scioglimento della Consulta Nazionale, ebbe luogo il referendum che vide prevalere la Repubblica in luogo della Monarchia. Circa un mese dopo, in seno alla neonata Assemblea Costituente, si

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svolse un acceso dibattito sul tema del possibile inserimento, all’interno della nuova Carta Costituzionale, dello scrutinio segreto come metodo di votazione ordinario.

Come avremo modo di notare, si scontrarono le tesi di coloro che spingevano per iscrivere nella nascitura Costituzione l’approvazione articolo per articolo ed infine la votazione finale segreta sui progetti di legge, e di chi, invece, preferiva non costituzionalizzare alcun metodo di votazione, lasciando così assoluta libertà ed autonomia ai regolamenti delle Camere. Grazie anche all’incessante operato di Aldo Moro, alla fine, prevalse questa seconda posizione; quindi, formalmente, il voto segreto non fu inserito nella Carta Costituzionale, ma divenne lo stesso il sistema costantemente adottato dal Parlamento. L’analisi proseguirà, dopo la nascita della Repubblica, sulle scelte effettuate dai due rami del Parlamento; analizzeremo il fatto che, alla Camera dei Deputati, venne ribadito l’obbligo dello scrutinio segreto sul voto finale dei disegni di legge e la sua prevalenza su ogni altra modalità di votazione, mentre al Senato della Repubblica, si scelse invece per il voto segreto finale facoltativo, rimarcando così una netta discrasia tra le due Camere ( mentre in comune restava la scelta per lo scrutinio segreto in caso di più richieste concorrenti ) .

Procedendo oltre, tratteremo il tema dello stretto legame tra il voto segreto e la prassi del “ consociativismo ”, ossia quel fenomeno che fu presente nel nostro Parlamento fino al 1988 e che era favorito appunto dalla vigenza dello scrutinio segreto in quanto, nascondendosi dietro questa modalità di votazione, la maggioranza di governo poteva stringere accordi con l’opposizione portando così avanti il proprio progetto politico, mentre quest’ultima, aveva la garanzia di vedersi riconoscere il maggior numero possibile di richieste e di altri vantaggi.

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L’ultimo paragrafo del primo capitolo tratta della riforma regolamentare del 1971. Noteremo che questi testi rappresentarono una grande novità riguardo al tema dei regolamenti parlamentari poiché, dal 1900 in avanti, non vi erano più state modifiche radicali ( infatti i testi del 1922, e quelli approvati dopo la nascita della Repubblica, erano solo delle evoluzioni dei precedenti ). I regolamenti del 1971 furono al passo coi tempi, anche se non fu facile adattarli agli “ anni di piombo ” che si abbatterono sul Paese in quell’epoca ( si pensi all’omicidio di Aldo Moro nel 1978 o alla strage della stazione ferroviaria di Bologna nel 1980 ) .

Giunti così al secondo capitolo, analizzeremo gli anni Ottanta nei quali prima, attraverso l’operato della Commissione Bozzi e l’introduzione del voto palese sulla legge di bilancio del 1983 e poi, con le riforme fondamentali del 1988, venne sancita la prevalenza del voto palese sullo scrutinio segreto dopo quasi 140 anni di vigenza di quest’ultimo. Avuta una visione d’insieme delle modifiche dei primi anni Ottanta, vedremo come si interseca col tema dei regolamenti parlamentari anche la questione del divieto di mandato imperativo, considerandola anche in virtù della prossima ( a distanza di cinque anni ) introduzione dello scrutinio palese per la maggior parte delle materie oggetto di votazione e, quindi, della questione riguardante la libertà di coscienza dei parlamentari.

Proseguendo nella nostra analisi effettueremo una ricognizione sulle materie in cui vige ancora l’obbligo di votazione segreta ( quelle riguardanti le persone, le materie elencate alla parte prima della Costituzione, la legge finanziaria, le leggi di bilancio e quelle collegate a questi settori, le modifiche ai regolamenti, l’istituzione di Commissioni parlamentari d’inchiesta, le leggi ordinarie relative agli

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organi costituzionali dello Stato ed agli organi delle Regioni, nonché la legge elettorale ); su tutte le altre materie invece la votazione scelta dai nuovi regolamenti è quella a scrutinio palese.

Giungendo, infine, al terzo e conclusivo capitolo della presente ricostruzione storica, analizzeremo la situazione successiva alla radicale modifica di fine anni Ottanta, cercando di capire come proseguirono i lavori delle due Camere dopo un’innovazione così importante. Vedremo, poi, i nuovi regolamenti del 1997 e la situazione esistente agli inizi degli anni Duemila, usando come chiavi di lettura la legge “ Cirami ” del 2002 e la “ Gasparri ” del 2003.

All’ultimo paragrafo di questo lavoro, proporremo una carrellata sulle proposte e modifiche regolamentari degli ultimi dieci anni, iniziando col citare, tra le più importanti, la questione della norma “ anti - Castelli ” ed il documento presentato dalla senatrice Alberti Castellati di Forza Italia, col quale si richiedeva un’ulteriore restrizione dell’area dello scrutinio segreto a favore del voto palese, fino a giungere ai giorni nostri, caratterizzati dall’ultima discussione contro il voto segreto portata alla ribalta dal fondatore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo.

Terminando la nostra analisi con le considerazioni conclusive, tireremo le somme su quanto citato ed affrontato, avendo cura di prospettare delle future evoluzioni per un tema così importante, come quello delle modalità di votazione in seno al Parlamento, ma anche così eterogeneo e camaleontico, come la società che ci circonda ed alla quale apparteniamo.

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CAPITOLO PRIMO

La storia dei regolamenti parlamentari fino alla riforma del 1971

1. Il periodo dello Statuto Albertino

Analizzando la storia dei regolamenti parlamentari italiani attraverso le modalità di votazione ed il loro rapporto con la situazione politico - istituzionale presente nelle varie epoche di riferimento, possiamo cominciare col dire che, all’indomani della concessione dello Statuto Albertino, la Camera Subalpina nel giorno della sua prima seduta, l’8 maggio 1848, non creò un proprio Regolamento, bensì mutuò quello del Governo presieduto da Cesare Balbo che era ispirato al testo belga del 1831 ed a quello francese del 1839.

Questo Regolamento dunque non fu elaborato dalle Camere come prevedeva invece l’articolo 61 dello Statuto il quale dichiarava che, ciascuna Camera, “ determina per mezzo di un suo Regolamento interno, il modo secondo il quale abbia da esercitare le proprie attribuzioni ”. Il testo fu, invece, adottato dal Governo ed approvato senza discussione finale, senza quindi alcun rispetto per l’autonomia

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dell’Assemblea. Caratteristiche di questo Regolamento furono dunque quelle della “ provvisorietà ” e di esser, per così dire, “ di seconda mano ” 1, cioè poco più della traduzione letteraria di quello francese.

Quindi fu una riproposizione di quei documenti ai quali si era ispirato anche lo stesso testo Albertino, mentre nel parallelo Regolamento del Senato regio si poté notare una qualche influenza di origine anglosassone.

Si scelse, dunque, come accaduto appunto per la redazione dello Statuto Albertino, di rifarsi a modelli preesistenti privilegiando il carattere della funzionalità e di ispirarsi a regolamenti già collaudati altrove, senza verificare fino in fondo se tali testi potessero esser funzionali alle esigenze della società italiana. Tale leggerezza portò a conseguenze che non tarderanno a manifestarsi.

Nell’organizzazione del procedimento legislativo, in coerenza con il modello francese, il Regolamento della Camera statutaria adottò quasi sempre il “ sistema degli uffici ” per l’esame delle proposte di legge, scartando il modello delle tre letture e quello delle Commissioni permanenti specializzate per materia.

Riguardo le modalità di esercizio del voto, l’articolo 63 dello Statuto, riproposto tale e quale nei nuovi regolamenti delle due Camere, così recitava: “ Le votazioni si fanno per alzata e seduta, per divisione e per scrutinio segreto. Quest’ultimo mezzo sarà sempre impiegato per la votazione del complesso di una legge, e per ciò che concerne il personale ” 2

.

1

M. L. MAZZONI HONORATI, Lezioni di diritto parlamentare, Giappichelli, Torino, 1999, p. 7. 2

Rimane dunque escluso un quarto tipo di votazione, l'appello nominale, disciplinato invece nei regolamenti parlamentari.

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Non vi è dubbio che, nel sancire l’obbligo dello scrutinio segreto in alcune importanti votazioni come quella finale di un progetto di legge, lo Statuto Albertino volle proteggere e garantire la libertà e l’autonomia dei parlamentari di fronte ad eventuali controlli e coartazioni da parte del Re o del Governo. Dunque, i principi dello Statuto Albertino, furono ripresi all’articolo 29 del primo Regolamento della Camera Subalpina 3.

Da allora, tale disposizione, è sempre rimasta in vigore nei regolamenti della Camera fino alla riforma del 1988 e salvo la parentesi fascista. Si nota comunque che, salvo la votazione sull’intero disegno di legge, la quale si faceva sempre a scrutinio segreto, la prima modalità di votazione fu per alzata e seduta, a meno che dieci membri della Camera non richiedessero l’appello nominale, da svolgersi ad alta voce, oppure lo scrutinio segreto ove non fosse già previsto. Si consideri comunque che, già allora, l’adozione del voto segreto finale costituiva una soluzione abbastanza isolata nel panorama europeo.

Ovviamente, nel corso dei decenni, son variate condizioni sociali e politiche, son cambiate le maggioranze parlamentari ed i numeri per effettuare richieste e riforme, ma ciò che più colpisce è che lo spirito e la base fondamentale della norma in esame son rimasti in auge per oltre 140 anni, fino alle modifiche radicali del 1988.

Diversa, e per certi versi meno complessa, fu la situazione iniziale del Senato che, al contrario della Camera, creò un proprio ed inedito Regolamento nel 1850. Anche qui era previsto, ma in questo caso

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L'articolo in questione recitava così: “Salvo il voto sulla legge intera, il quale si fa sempre con

appello nominale, ed a scrutinio segreto...” facendo una certa confusione fra l’appello

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dall’articolo 28, il voto a scrutinio segreto sui disegni di legge e per la nomina di Commissioni ( per le altre materie dove non fosse già previsto poteva esser richiesto da otto senatori ) .

Compiuta l’unità d’Italia nel 1861, lo Statuto Albertino divenne la Carta del nuovo Regno ed il Parlamento venne considerato come la continuazione delle Camere Subalpine, ma le nuove Camere ebbero la necessità di adeguare i propri regolamenti alle mutate condizioni politiche.

Nel 1863 alla Camera, dopo ben quindici anni di provvisorietà del Regolamento adottato nel 1848, vide la luce un nuovo testo sempre provvisorio, che confermava però in toto quello precedente, cambiando solamente la numerazione degli articoli ( da sottolineare, però, che due progetti di riforma regolamentare fallirono nel 1850 e nel 1856 ) . Dal primo Regolamento del 1848, a questo del 1863, la Camera era diventata espressione dell’Italia unita, ormai non più Subalpina, con un numero di deputati che era passato dai 204 dell’esperienza precedente ai 443 di quella attuale.

Modifiche secondarie si ebbero nel 1865, mentre il 1868 fu invece l’anno di una interessante novità: venne aumentato da dieci a venti il numero di deputati necessario per chiedere il voto segreto nelle materie in cui ovviamente non era già previsto come obbligatorio. Anche al Senato si ebbe una norma simile ed il numero fu portato da otto a dieci senatori.

Certo non si può affermare che di tale facoltà, ovvero di richiedere il voto segreto ove non fosse già previsto dai regolamenti, si facesse un uso frequente. Anche l’episodio più rilevante della storia parlamentare del diciannovesimo secolo, la caduta della destra, avvenne il 18 marzo 1876 a seguito di una votazione per appello nominale sulla questione

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sospensiva, proposta dal Presidente del Consiglio Minghetti, per impedire la discussione della risoluzione contro la tassa sul macinato. Tra i casi, invece, in cui si è proceduto a votazioni a scrutinio segreto, su richiesta espressa del numero di deputati prescritto, possiamo rammentare la seduta del 30 giugno 1870, per un emendamento al progetto di legge sulla ricchezza mobile. In tale circostanza il Presidente della Camera, di fronte a richieste di votazione sia segreta che palese, risolse la controversia deliberando per la prevalenza del voto segreto, mentre in casi precedenti ( nel 1854 e nel 1858 ), la Camera aveva sancito la prevalenza della votazione nominale.

Si deve anche registrare, sempre nel 1868, un tentativo di introduzione del sistema delle tre letture secondo il modello inglese. Evidentemente, però, l’accorgimento non diede i frutti sperati, tant’è che solo cinque anni dopo, nel 1873, si tornò al modello degli uffici con l’aggiunta di alcune Commissioni parlamentari, ritenendo così il sistema maggiormente conforme allo Statuto Albertino.

Tornando al tema delle votazioni, nelle sedute del 14 e del 15 giugno 1881, il Presidente della Camera ribadì la prevalenza delle domande di voto segreto presentate su emendamenti alla legge elettorale. Altra richiesta di scrutinio segreto, fu avanzata il 22 giugno 1881, sulla proposta di stralciare dal disegno di legge elettorale la parte relativa allo scrutinio di lista, ma, dopo una lunga ed accesa discussione, la richiesta fu ritirata dai suoi presentatori.

Bisogna comunque sottolineare che, negli anni di vita caotici ed incerti del diritto parlamentare, precisamente dalla redazione dello Statuto Albertino all’avvento del regime di Mussolini, non furono molto frequenti i casi in cui le votazioni a scrutinio segreto, anche quelle finali obbligatorie, abbiano messo in luce l’esistenza di

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parlamentari dissidenti ( che oggi chiameremmo “ franchi tiratori ” ) nelle fila della maggioranza, tali da creare dissidi e mettere in difficoltà il Governo.

Proseguendo nell’analisi dei regolamenti bisogna sottolineare che, alla fine del 1886, fu creata alla Camera dei Deputati del Regno d’Italia, come organo permanente, la Commissione ( poi Giunta ) per il Regolamento, i cui membri invece di essere estratti a sorte, erano nominati dal Presidente d’Assemblea: si passava così dall’idea di una riforma d’insieme, ad una sorta di “ manutenzione regolamentare ” 4,

da realizzarsi attraverso la codificazione degli usi e tramite modificazioni che l’esperienza dimostra essere utili e necessarie.

Due anni più tardi, la Commissione per il Regolamento pose in essere la riforma Bonghi ( dal nome del relatore, già fondatore della Stampa di Torino ), tramite la quale, venne chiarito un aspetto molto interessante nel nuovo articolo 97 del Regolamento della Camera, approvato nella seduta del 17 aprile 1888: nel caso ci fosse stato un concorso tra più domande, si spiegava che si sarebbe data priorità allo scrutinio segreto, che dunque prevaleva su quello palese 5, anche se

originariamente la preferenza era andata alla votazione nominale. In quella seduta della Camera, si svolse un accesissimo dibattito, dal quale emersero chiaramente i motivi che spinsero la maggioranza dell’Assemblea a sancire la prevalenza del voto segreto. Questi furono il proposito ed il desiderio di stabilire un’affermazione di principio e, tramite il voto segreto, assicurare libertà ed indipendenza dei

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P. UNGARI, Profilo storico del diritto parlamentare in Italia, in Corso universitario 1970 - 1971, Carducci, Roma, 1971, p. 10.

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Secondo S. TOSI, in Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 1974, p. 87, la prevalenza del voto segreto sarebbe stata voluta da Ruggero Bonghi in funzione antiostruzionistica, per evitare la più lenta modalità per appello nominale. Invece, il voto segreto, consentiva di proseguire la discussione lasciando nel frattempo aperte le urne dove andavano depositate le palline.

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parlamentari, nella consapevolezza, anche in base all’esperienza precedente, che di questo strumento non ne avrebbero abusato.

Queste motivazioni si possono meglio comprendere ricordando le dichiarazioni rilasciate dall’onorevole Di Rudinì in quella seduta. Egli si pronunciò così: “ Quando si dice che la votazione nominale educa il Paese, educa il deputato, si dice qualche cosa di vero; ma si dice qualche cosa che è altrettanto vera, quando si afferma che spesse volte la coscienza di un deputato si trova talmente stretta e legata che non riacquista la sua indipendenza che non dinnanzi all’urna. Ma, ripeto, lasciamo da parte queste argomentazioni: la ragione vera è questa, che, dacché esiste la Camera italiana, mai e poi mai si è abusato della domanda di scrutinio segreto … Ora io credo che, quando noi vogliamo riformare il nostro Regolamento, dobbiamo farlo soltanto in quelle parti in cui il Regolamento presente abbia dato luogo ad inconvenienti ” 6.

Il Senato invece, già cinque anni prima, nel 1883, era giunto a questa conclusione sancendo quindi la preferenza dello scrutinio segreto rispetto alla votazione per divisione.

Queste due modifiche, riferite al caso di contemporanea richiesta di scrutinio sia segreto che palese, furono molto interessanti e significative ma certo non costituirono una novità assoluta in quanto, ogni volta che a seguito di una votazione segreta si registrava un risultato preoccupante per la maggioranza, riaffioravano ed imperversavano copiose polemiche.

Un esempio interessante di queste discussioni può esser quello del 1891, quando, la Giunta per il Regolamento della Camera, rigettò la

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V. LONGI - M. STRAMACCI, Il Regolamento della Camera dei Deputati illustrato con i lavori

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proposta di sopprimere il voto segreto presentata da alcuni deputati a seguito della riproposizione, in sede di votazione finale, di un disegno di legge riguardante alcuni “ provvedimenti ferroviari per la città di Roma ”. Questo progetto poté proseguire il suo iter parlamentare, avendo la Camera respinto per appello nominale un ordine del giorno di Sonnino, e, pur essendo stato approvato articolo per articolo alla prima tornata ( con votazione per alzata e seduta ), fu bocciato nella seconda tornata a scrutinio segreto 7.

La situazione appena esaminata si sarebbe riproposta anche un secolo dopo, facendo perfino cadere un paio di governi, tra il 1980 e il 1982. Nei dieci anni successivi, i regolamenti non vennero più modificati, nonostante il periodo di grandi difficoltà economiche e politiche ( è del 1897 il “ torniamo allo statuto ” di Sidney Sonnino ) .

Nel giugno del 1898, dopo le dimissioni del Governo Di Rudinì, si formò il Governo Pelloux dotato, almeno inizialmente, di una base parlamentare molto ampia. Quando però, questo Esecutivo, decise successivamente di seguire in modo più convinto le linee della destra, proponendo una serie di misure restrittive in tema di libertà di stampa e pubblica sicurezza, si scatenò per la prima volta nel Parlamento statutario l’ostruzionismo delle sinistre, capeggiate dal socialista Enrico Fermi.

Con l’avvento del nuovo secolo, entrò in vigore il nuovo Regolamento della Camera dei Deputati, promulgato esattamente il 1° luglio 1900. Questo testo, emanato sotto il Governo Saracco ( poi Zanardelli - Giolitti ), fissò delle scalette relative alla priorità tra i vari tipi di votazione ( alzata e seduta, divisione, appello nominale, scrutinio

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Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, leg. XVII, sessione 1890 - 91, discussioni, pp. 4058 ss, pp. 4104 ss.

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segreto ), e confermò il primato e la prevalenza del voto segreto ( riguardo il voto finale dei disegni di legge ) sulle altre forme di votazione, mentre l’appello nominale continuava a non esser obbligatorio in nessuna caso. Questa situazione rimase inalterata alla Camera fino all’avvento del fascismo.

Al Senato, invece, le cose furono ben diverse, ciò accadde perché, nel nostro ordinamento, vige un bicameralismo quasi perfetto e, dunque, le due Camere del Parlamento ebbero storicamente e continuano ad avere, funzioni e meccanismi distinti.

In effetti il Senato regio, dieci anni dopo l’approvazione del nuovo Regolamento della Camera, compì una svolta decisiva e scelse l’appello nominale per le votazioni sui disegni finali delle leggi. Ciò accadde, probabilmente, sulla scia delle tendenze prevalenti nei maggiori ordinamenti europei e sulla spinta delle trasformazioni politiche, da ascriversi agli allora neonati partiti di massa.

Si scelse, dunque, di far prevalere l’appello nominale su quello segreto, in nome dell’inderogabile principio di responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei rappresentati e consentendo così, l’effettivo potere di controllo e di sindacato dei cittadini rispetto alle attività parlamentari.

Sempre per giustificare e affermare le motivazioni di quello storico cambiamento di indirizzo, il senatore Arcoleo, relatore della Commissione per il Regolamento interno, riaffermò l’inderogabilità del principio di responsabilità dei parlamentari che, per questo, dovevano sempre essere sottoposti al sindacato di giudizio e controllo da parte dei cittadini elettori.

“ Ora questo appello nominale - disse il senatore - serve anche per questo altissimo scopo: noi non abbiamo responsabilità davanti agli

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elettori, ma l’abbiamo intera e continua davanti al Paese, e il voto per appello nominale serve spesse volte a contrapporre la qualità dei vinti contro il numero dei vincitori e dà luogo ad esprimere a ciascuno, che senta il proprio decoro, quelle virtuali incompatibilità, che non derivano dalle leggi, ma dal costume ” 8.

Si può notare quindi che, con questa coraggiosa e rivoluzionaria scelta, il Senato regio cambiò le regole del gioco dopo oltre mezzo secolo di regolamenti e, dando la preferenza all’appello nominale ( che è un meccanismo tramite il quale tutti possono conoscere il modo in cui ha votato il parlamentare, dunque rientra nella categoria delle votazioni palesi ), anticipò di quasi cento anni la scelta che poi verrà effettuata alla fine degli anni ottanta del ventesimo secolo.

Dunque, per il Senato, prevalse il voto palese, definito dal sen. Manfrin come un “ atto che innalza, che onora, ed un dovere per coloro che deliberano e giudicano intorno alla cosa pubblica, siano in ufficio per voto di popolo o per volontà o scelta di principe ”.

Riguardo, invece, la scelta in caso di contemporanea richiesta di votare per appello nominale o scrutinio segreto, venne data la prevalenza a quest’ultimo, confermando così l’identità sotto questo punto di vista, delle due Camere parlamentari.

Altre modifiche regolamentari, al testo della Camera dei deputati, si ebbero nel 1920 e 1922: riguardarono le Commissioni, i gruppi ed i Presidenti, anche se non ci si pose il problema di come fosse conciliabile il vincolo di gruppo con il divieto di mandato imperativo, sancito dallo Statuto Albertino.

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Atti del Parlamento italiano, Senato del Regno, leg. XXXIII, prima sessione, 1909 - 10, discussioni, p. 3033.

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1.1. Mussolini al potere: l’avvento del regime fascista

Dopo la marcia su Roma ( 28 ottobre 1922 ), il Re, rifiutatosi di firmare lo stato d’assedio proposto da Presidente del Consiglio Facta, diede l’incarico di formare un nuovo Governo a Benito Mussolini. Il sovrano quindi, concesse un così gravoso ed importante impegno ad un gruppo minoritario, ponendo così in essere un atto contrario rispetto alla consuetudine statutaria operante fino a quel momento. Gli eventi che portarono alla formazione del Governo Mussolini furono dunque al di fuori da ogni regola, ma nonostante ciò il nuovo esecutivo ottenne una schiacciante maggioranza al Senato ( 196 voti favorevoli e 19 contrari ), mentre fu meno ampia alla Camera ( 306 voti favorevoli e 116 contrari ), ma comunque più che sufficiente ad assicurargli un pieno dominio parlamentare.

Nonostante ciò, il voto del Parlamento fu favorevole, perché alla base vi era la vana speranza di ricondurre in seguito il partito fascista al rispetto della legalità. Per tutta risposta Mussolini chiese al Re di sciogliere la Camera ( dove i deputati fascisti erano solo 35 ) ma, ricevuta risposta negativa, procedette alla riforma del sistema elettorale per garantirsi la presenza di più parlamentari fascisti possibili.

Con la legge Acerbo del 1923 venne istituito il collegio unico nazionale col quale si attribuiva un premio di maggioranza, i due terzi dei seggi, alla lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti, mentre la restante terza parte dei seggi sarebbe stata ripartita in maniera proporzionale.

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Le successive elezioni del 1924, si svolsero tra minacce e violenze da parte dei fascisti. In un tale clima di timore e sconforto, il risultato elettorale non poteva esser diverso da quello che poi in effetti si manifestò: la lista presentata dal Governo presieduto da Mussolini, ottenne quasi il 65 % dei voti ed i deputati fascisti ebbero ben 403 seggi. Per comprendere appieno la portata di questa affermazione basti pensare che i socialisti conquistarono 46 seggi, i popolari 39 ed infine i comunisti soltanto 19.

I successivi eventi parlamentari mostrarono uno strettissimo collegamento tra le vicende politiche ed i mutamenti regolamentari: infatti, il primo atto della nuova Camera, fu la soppressione delle norme dei regolamenti concernenti le Commissioni permanenti ( chiaro segnale di che politica avrebbe voluto condurre di lì a poco il Duce ) .

Inoltre, con una mozione a prima firma di Dino Grandi, si dispose l’abolizione delle riforme regolamentari del 1920 e del 1922 con il conseguente ritorno al sistema degli uffici. In quel periodo lo stesso Grandi affermava che “ i partiti sono morti ” e che i deputati fascisti non si sarebbero iscritti a nessun gruppo politico, volendo essere sostenitori solo della politica del Governo.

Si traduceva così sul piano istituzionale, tramite le suddette riforme, “ il disprezzo del regime fascista verso la rappresentanza proporzionale ed i partiti politici, ritenuti colpevoli della corruzione morale e politica delle istituzioni parlamentari ” 9.

Nello stesso anno, il 1924, accadde un triste evento che forse fece capire ancor di più ai cittadini la tragicità del momento. Il deputato

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S. CURRERI, La procedura di revisione dei regolamenti parlamentari, Cedam, Padova, 1995, p. 84.

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Giacomo Matteotti, esponente del Partito socialista, ebbe il coraggio di pronunciare il discorso col quale denunciava le violenze operate dai fascisti durante le elezioni.

Infatti, il 30 maggio 1924, prese la parola alla Camera dei Deputati tra i rumori e le contestazioni dei parlamentari fascisti che lo interruppero più volte. Con grande coraggio e lucidità, pronunciò questa parole poi divenute famose: “ … Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. … L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. … Per vostra stessa conferma ( dei parlamentari fascisti ) dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. ... Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse ”.

Finito il discorso disse ai suoi compagni di partito: “ Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me ”. In un’altra occasione aveva profeticamente affermato: “ Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai ”.

Queste parole, così impavide e commoventi, segnarono la fine di Matteotti, che fu rapito ed ucciso dai fascisti, il 10 giugno 1924.

I suoi rivali avevano capito che l’opposizione era molto più forte e combattiva di quello che si potevano aspettare, anche se ciò non servì a cambiare le dinamiche della politica italiana.

Chiusa la parentesi su questo grande esempio di democrazia e speranza, la dittatura di Mussolini continuò ad imperversare, questa volta con le leggi “ fascistissime ” del 1925. I ruoli della Camera e dei ministri furono messi in secondo piano: infatti non venne prevista la

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possibilità della mozione di sfiducia nei confronti del Governo ( che poteva essere revocato solo dal Re ), e l’Assemblea fu privata di una prerogativa fondamentale per la libertà dei dibattiti parlamentari, cioè quella di esser padrona del proprio ordine del giorno, che non poteva essere proposto se non con l’adesione del capo del Governo.

Queste vicende storiche ci dimostrano come l’azione fascista portò allo sfaldamento delle istituzioni democratico - rappresentative, anche attraverso l’utilizzo della tematica del conflitto tra voto segreto e voto palese. “ L’atteggiamento del legislatore può esser periodizzato, in proposito, in tre fasi successive ” 10.

Una prima fase di questo regime può individuarsi tra la marcia su Roma ed il testo del 1925. In questo periodo, il partito fascista, fu tutto proteso a consacrarsi come guida del Paese, puntando a bloccare ogni forma di opposizione e ad accentuare nel Governo le proprie linee di indirizzo politico; infatti riformò la legge elettorale ed in tema di votazioni, con il nuovo testo dell’articolo 102, venne soppressa la chiama dei deputati.

Durante questa fase iniziale lo scrutinio era ancora segreto ed il regime si accorse della “ pericolosità ” potenziale di questo tipo di votazione nella seduta del 9 novembre 1926, in occasione dell’inserimento all’ordine del giorno della mozione tendente a dichiarare decaduti dal mandato parlamentare i deputati “ aventiniani ”.

Sull’inserimento all’ordine del giorno della mozione si votò infatti a scrutinio segreto, dato che così prescriveva il Regolamento, ed il risultato fu di dieci voti contrari.

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Nella successiva votazione palese la mozione fu approvata all’unanimità e ciò indusse qualcuno a chiedersi dove fossero finiti i dieci parlamentari che avevano votato contro. Questo è un chiaro esempio dei limiti che impone il voto palese alla libertà di coscienza ( in quel caso, la paura della dittatura, ebbe di gran lunga la meglio sulle intime convinzioni personali dei parlamentari coinvolti ) .

Nella seconda fase del fascismo si assistette al passaggio tra regime autoritario e regime totalitario. In base ad alcune leggi, emanate tra il 1928 e il 1929, il Gran Consiglio del fascismo fu trasformato da organo di partito ad organo di Stato e venne abolito ogni residuo diritto delle minoranze, dato che era venuta meno la loro funzione, ed in seguito la loro stessa esistenza.

Riguardo la legge elettorale, si poteva soltanto dire SI o NO ad un’unica lista di candidati, scelta dal Gran Consiglio del fascismo. Venne inoltre ribadita l’importante dicotomia tra le due Camere parlamentari. Infatti l’articolo 48 secondo comma del Regolamento del Senato, approvato il 12 dicembre 1929, continuava a dar priorità all’appello nominale in caso di concorso tra diverse richieste.

Per contro, alla Camera, l’articolo 17 ultimo comma del Regolamento, approvato il 1° maggio 1929, diede la preferenza per lo scrutinio segreto, continuando cosi la tradizione che già vigeva in quel ramo del Parlamento.

Questa antinomia risiede nel fatto che la richiesta di scrutinio segreto, essendo ormai tutti fascisti i quattrocento deputati, sarebbe stata decisa, se del caso, in altra sede ( ovvero nelle segreterie del partito ) .

Invece, al Senato, la situazione era diversa perché questo organo, manteneva ancora dei legami con la monarchia e Mussolini scelse di non comportarsi con esso come invece aveva fatto con l’altra Camera

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tramite le “ infornate ” di parlamentari fascisti. Il carattere non elettivo di questo organo fece si che, il Duce, potesse gestirlo gradualmente a suo piacimento.

Pian piano, il processo di fascistizzazione del Senato, si compì attraverso l’avvicinamento al partito di senatori non iscritti, specie mediante l’azione di un’associazione denominata Unione nazionale fascista del Senato e tramite norme regolamentari che tolsero ogni autonomia legislativa ai parlamentari.

In questo ramo del Parlamento, i cui membri erano nominati a vita, un’articolazione di diverse forze politiche pur sempre residuava, ma l’appello nominale metteva al riparo il regime da sorprese peraltro poco probabili. Comunque, alla fine del ventennio, l’opera di trasformazione del Senato poteva dirsi completata: al 25 luglio 1943 i senatori iscritti al partito erano 426 su 452, mentre la sparuta minoranza dei superstiti senatori antifascisti o non fascisti, si era ormai rassegnata al silenzio o non frequentava più da tempo le sale di palazzo Madama.

Finita l’analisi delle due articolazioni del Parlamento, giungiamo così ad una terza fase, la più importante ai nostri fini storico - ricostruttivi. Infatti, nel 1939 ( sulla scia derivante dal successo della spedizione etiopica ), venne soppressa la Camera dei Deputati ed istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni ( con legge n. 129 del 19 gennaio 1939 ) .

Il Regolamento di quest’ultimo organo, privo ormai di ogni carattere rappresentativo, essendo i suoi membri non eletti ma designati dal capo del Governo, fu anticipatamente definito per acclamazione dall’ ormai agonizzante Camera dei Deputati, nel dicembre 1938. Questo testo sancì la fine del voto segreto e la prevalenza di quello palese

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anche per l’approvazione finale dei progetti di legge. Ciò era stabilito all’articolo 15, ultimo comma, secondo il quale “ le votazioni hanno luogo sempre in modo palese ”.

Tale disposizione figurava anche nel Regolamento della Camera, approvato il 14 dicembre 1938, che all’articolo 56 così recitava: “ La votazione, sia nell’Assemblea plenaria, sia nelle Commissioni, avviene sempre in modo palese. I sistemi di votazione sono: alzata di mano, appello nominale, acclamazione ” 11.

Questo nuovo organo venne visto dai suoi fondatori, non tanto come organo di direzione governativa, come pretendeva il Parlamento, quanto come selezionatore e creatore di una nuova classe dirigente, collante tra regime e produzione normativa dello stesso. Inoltre doveva essere un catalizzatore del consenso, un organo “ immortale, che si rinnovava per stillicidio, in maniera continua e senza visibili mutamenti, via via che, ad uno ad uno, scadevano dalla carica i preposti agli uffici politici o corporativi ai quali andava congiunta la qualità di consigliere nazionale ”.

La riforma culminò con gli articoli 20 e 21 del Regolamento del Senato, approvato il 31 dicembre 1938, nonché con gli articoli 56 e 57 del Regolamento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, approvati il 14 dicembre dello stesso anno. Con queste norme venne sancita l’abolizione dello scrutinio segreto e la sola esclusiva per lo scrutinio palese, addirittura per quanto concerne l’approvazione finale

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È molto interessante rilevare che, dopo il 1926, in tema di inserimento all'ordine del giorno, il Regolamento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni così recitava: “Nessun argomento

può essere iscritto all'ordine del giorno delle riunioni della Camera senza l'autorizzazione del Duce del fascismo, Capo del Governo. L’Assemblea non può discutere né deliberare sopra materie che non siano all'ordine del giorno, salvo che ne faccia richiesta il Duce del fascismo, Capo del Governo”.

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dei progetti di legge, in forte contrasto con quanto previsto dallo Statuto Albertino.

Questa mossa, da parte del regime totalitario di Mussolini, dimostra quanto sia stretto e diretto il legame tra le forme governative e le modalità di votazione in Parlamento. Un legame che, nel corso dei decenni, verrà alla luce in più occasioni.

Infatti, lo scrutinio segreto, è stato da sempre funzionale non solo a tutelare il parlamentare riguardo pressioni provenienti dagli elettori o dall’opinione pubblica, ma in maggior misura da quelle del proprio partito di appartenenza e da intimidazioni che provenivano da governi, regimi e sovrani.

Il voto segreto, però, spesso favorì anche le opposizioni, sia all’interno della maggioranza tramite il fenomeno dei “ franchi tiratori ”, sia all’esterno della stessa attraverso accordi sottobanco tra i parlamentari. Al contrario, il voto palese, ha sempre permesso al Governo il pieno controllo dei votanti.

Queste furono le modifiche e le innovazioni apportate dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni nella sua breve vita ( dal 1939 al 1943, anche se la sua ultima adunanza plenaria si tenne nel 1941 ), in un arco temporale che, per gran parte, vide l’Italia impegnata nella seconda guerra mondiale. Il nuovo Regolamento della Camera dei Fasci e delle Corporazioni fu applicato dunque solo nelle ventisette sedute che, l’assemblea di tale organo, effettuò tra il 23 marzo 1939 e il 10 giugno 1941, prima di essere soppressa nell’agosto 1943.

“ Si concludeva così una ventennale vicenda che aveva portato sempre più a discostarsi dagli istituti e dalle procedure tipiche dello Stato liberaldemocratico rappresentativo, in un generale quadro teorico che,

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peraltro, in ordine al modo di intendere la rappresentanza politica, non aveva certo contribuito a rafforzarlo ” 12.

Analizzata la situazione si può allora ben capire come, in un’epoca di regime totalitario, prima si diede prevalenza alla votazione con scrutinio segreto, mantenendo così una certa continuità coi governi precedenti ed avendo la sicurezza che il fascismo poteva contare sull’appoggio di tutti i deputati e della maggioranza dei senatori.

Quando poi, col passare del tempo, il regime divenne completamente totalitario, si scelse il metodo della votazione palese in modo tale che ogni voce fuori dal coro potesse essere facilmente individuata, ogni divisione interna prontamente sedata, ogni tentativo di tradimento palesemente smascherato.

In ogni caso bisogna anche considerare che, durante il ventennio fascista, il regime poté contare su determinati numeri parlamentari e su una cultura dell’intimidazione e della paura tali da metterlo in ogni caso al riparo da qualsivoglia ribaltamento governativo.

1.2. Il periodo transitorio e la Consulta Nazionale

Il periodo costituzionale transitorio fu quell’arco di tempo in cui, all’indomani della fine del regime fascista e della seconda guerra mondiale, si ricostruì l’assetto istituzionale e politico italiano. La

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suddetta fase storica terminò con l’approvazione, in seno all’Assemblea Costituente, del nuovo testo costituzionale.

Caduto il regime fascista, nel 1943, il Governo Badoglio sciolse la Camera dei Fasci e delle Corporazioni ed il Gran Consiglio. Vari partiti ( Partito liberale, Democrazia cristiana, Democrazia del lavoro, Partito d’azione, Partito comunista e Partito socialista ), tentarono di formare un nuovo Governo e chiesero l’abdicazione del Re per la responsabilità avuta durante il periodo fascista, reo infatti di essersi fatto inserire troppe volte nel gioco politico. Si voleva un Re garante della Costituzione, un sovrano che regna ma non governa poiché ciò sarebbe dovuto spettare al Parlamento.

Liberata la Capitale nel giugno 1944, da lì a poche settimane venne approvato un decreto, spesso denominato “ prima Costituzione provvisoria ”. Al suo interno traduceva in disposizioni legislative il cosiddetto “ Patto di Salerno ”, prevedendosi tra l’altro che le forme istituzionali e governative sarebbero state scelte dal popolo italiano, che a tal fine avrebbe eletto un’Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione.

E’ chiaro a tutti quali erano le difficoltà del momento dato che, il Paese, veniva da vent’anni di regime totalitario ed era inoltre impegnato nella guerra più massacrante e sanguinosa della storia. La scelta per uscire da una situazione cosi avvilente fu operata dal secondo Governo Bonomi che, nell’aprile del 1945, diede vita alla Consulta Nazionale.

Tale organo, formato da circa quattrocento membri e rimasto in attività fino al 1° giugno 1946, pur non avendo caratteristiche rappresentative, poiché i suoi membri non erano stati eletti ma solamente designati dai partiti antifascisti, raccoglieva i personaggi

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più influenti della cultura e della politica, molti dei quali furono poi eletti alla Costituente ed al primo Parlamento della storia repubblicana. Questo organo, decise di ripristinare le istituzioni liberali anteriori al 1922, cioè prima che venisse effettuata la marcia su Roma. Infatti, furono emanate le prime “ norme regolamentari per la costituzione e il funzionamento della Consulta Nazionale ”, con il decreto luogotenenziale del 31 agosto 1945, n. 539 . Con questa norma si scelse di applicare, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nel Regolamento della Camera dei Deputati in vigore prima del 28 ottobre 1922.

Dunque, per quanto riguarda i tipi di votazione, venne ripristinato il voto segreto e la sua prevalenza sull’appello nominale. Questa regolamentazione ebbe carattere provvisorio poiché la Consulta, nella seduta dell’11 gennaio 1946, approvò il suo Regolamento interno nel testo predisposto dalla Commissione, sostituendo però l’ultimo comma dell’articolo 97 del vecchio Regolamento della Camera dei Deputati, con il nuovo teso proposto dal consultore Fenoaltea del Partito d’azione che, presentò un emendamento secondo cui: “ nel concorso di diverse domande, quella dell’appello nominale prevale su tutte le altre; quella dello scrutinio segreto prevale sulla domanda di votazione per divisione nell’Aula ”.

Si stabiliva, poi, l’obbligo dello scrutinio segreto per il voto finale sui progetti di legge ma, come detto, in caso di concorso tra differenti richieste di votazione, si optava per la soluzione fatta propria dal Senato. Lo stesso Fenoaltea spiegò le ragioni di questa proposta dichiarando che: “ se il voto segreto può esser opportuno in un regime di dittatura, perché sottrae al controllo del dittatore, in regime

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democratico esso non ha giustificazione, perché il controllo cui esso intende sottrarre il Parlamento è quello dell’opinione pubblica ” 13.

Liberali e democristiani si opposero a questo emendamento dichiarando che, lo scrutinio segreto, rappresentava una maggiore garanzia per i parlamentari. A sostegno di queste ragioni spiegarono che, la consuetudine parlamentare, ha sempre mantenuto il voto segreto anche se negli ultimi decenni era stato poco utilizzato.

Certo era, però, che nei vecchi parlamenti di guai, danni e difficoltà lo scrutinio segreto ne aveva causati ben pochi; dall’appello nominale invece se ne ebbero spesso, se non altro per la speditezza delle discussioni parlamentari. Infatti, per democristiani e liberali, troppe volte alla Camera dei Deputati si era abusato dell’appello nominale, attraverso il quale si son forzatamente allungate molte discussioni anche importanti.

Di parere opposto erano invece comunisti, socialisti, azionisti e demolaburisti, che spingevano per la riforma e l’introduzione dell’appello nominale.

La successiva votazione per alzata e seduta diede un esito incerto; ma, dopo prova e controprova, si procedette alla votazione per divisione e l’emendamento fu approvato. La non schiacciante vittoria di questa posizione ( 127 voti contro 90 ), dimostrava che si trattò di una scelta ancor prima che tecnica, di natura puramente politica, sia per le ragioni che ne furono alla base, sia per le sue future implicazioni. “ Lo svolgimento del dibattito alla Consulta dimostrò chiaramente che la Dc aveva condotto in favore del voto segreto una ben definita e mediata battaglia politica. All’inizio del 1946, sembrava se non

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La Consulta Nazionale ( 25 settembre 1945 - 1° giugno 1946 ), Roma, Archivio storico della Camera dei Deputati, 1948, pp. 17 - 18 e 27.

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inevitabile, certo e probabile un successo elettorale dei socialcomunisti. I democristiani temevano che con una maggioranza di sinistra si sarebbe potuto determinare un clima d’intimidazione sugli oppositori, mentre dal canto loro, i partiti della sinistra, meglio organizzati, avrebbero potuto tenere il controllo dei loro parlamentari mediante l’appello nominale … . Altrettanto significativo fu l’accostamento dei liberali ai democratici cristiani ” 14.

Sul piano istituzionale, vennero introdotte poi importanti modifiche a quel primitivo testo di Costituzione provvisoria approvato nel 1944, con il decreto denominato “ seconda Costituzione provvisoria ”. Al suo interno si stabilì che, la scelta fra monarchia e repubblica, sarebbe dovuta spettare direttamente al popolo attraverso un referendum da tenersi contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea Costituente. Le funzioni della Consulta cessarono, come detto, il 1° giugno 1946. Questo organo ebbe il merito di porre un minimo di certezza ed ordine nella travagliata situazione dell’epoca e, benché avesse poteri solo consultivi, il suo operato ebbe una notevole influenza nel processo costituente, affrontando e spesso risolvendo controversie costituzionali. Decisiva fu, infine, la sua influenza per la redazione della legge elettorale per l’imminente Assemblea Costituente.

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1.2.1. I lavori dell’Assemblea Costituente

In data 2 giugno 1946 ( il giorno successivo alle fine della Consulta Nazionale ), si svolse il più importante referendum al quale i cittadini italiani siano mai stati chiamati a partecipare. Si trattava infatti di scegliere in maniera definitiva tra la monarchia, fino ad allora vigente con alterne fortune, e la forma di stato repubblicana.

La vittoria di chi scelse la Repubblica fu attestata da 12.717.923 di voti, contro i 10.719.284 dei monarchici; quindi, con una forbice di quasi due milioni di voti, i repubblicani si aggiudicarono questo storico e fondamentale confronto.

Scelta la forma di stato, adesso bisognava regolarla in tutti i suoi aspetti. Questo difficile compito spettò all’Assemblea Costituente che, a differenza della Consulta, dovette affrontare sia il problema dei regolamenti nelle due frazioni del Parlamento, sia quello della nuova norma di rango costituzionale destinata a diventare il fondamento del nuovo ordinamento parlamentare.

L’Assemblea Costituente, riunitasi per la prima volta il 25 giugno 1946, provvide, tra i primi atti, ad eleggere il Capo provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola. Essa svolse i suoi lavori fino al 31 gennaio 1948, prorogando a più riprese la sua durata, inizialmente prevista in otto mesi 15.

Riguardo i regolamenti, però, l’Assemblea non decise nulla in quanto, con una prassi già conosciuta da oltre un secolo, si scelse di adottare

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Il disegno di legge del 14 giugno 1947 ne prorogava all'8 settembre 1947 il termine, ma, l'Assemblea Costituente, approvò a scrutinio segreto l'emendamento del demolaburista Gasparotto, che fissava il termine al 31 dicembre 1947.

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testi già esistenti invece di elaborarne di nuovi. Infatti, già nel 1946, un decreto luogotenenziale così dispose: “ Finché non avrà deliberato il proprio Regolamento interno, l’Assemblea Costituente applicherà il Regolamento interno della Camera dei Deputati in data 1° luglio 1900 e successive modificazioni fino al 1922 ”.

Quindi, in attesa di formarne uno proprio, venne scelto il Regolamento prefascista in vigore fino al 22 ottobre 1922, sennonché la Costituente non si decise mai a modificare tale testo al contrario di quanto aveva fatto invece la Consulta qualche mese prima.

Riguardo la questione delle votazioni, scegliendo il Regolamento del 1900 e successiva modifica del 1922, venne sancita la prevalenza dello scrutinio segreto su ogni altra modalità di voto, in contrapposizione alle scelte operate dalla dittatura fascista.

Siamo a metà della storia della Costituente quando, nella seduta del 23 aprile 1947, il Presidente Terracini comunicò all’Assemblea che era stata presentata una richiesta di votazione a scrutinio segreto, oltre a quella per l’appello nominale, su un emendamento al primo comma dell’articolo 23 ( progetto di Costituzione riguardante il matrimonio ) . Il Presidente, dopo aver elencato i casi in cui il vecchio Regolamento della Camera dei Deputati, in vigore sin dal 1922 ed applicato dall’Assemblea Costituente, prescriveva tassativamente l’uso dello scrutinio segreto, precisò che, sempre secondo tale Regolamento, esso era possibile su altre materie quando fosse stato richiesto da venti deputati ( purché non fossero previste espressamente altre forme di votazione ) e dichiarò che, nel concorso di diverse domande, quella a scrutinio segreto sarebbe dovuta prevalere su tutte le altre.

L’assoluta novità della richiesta di votazione a scrutinio segreto portò il Presidente Terracini ad affermare: “ Tuttavia, ci dice la storia

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parlamentare italiana che una votazione segreta su una parte di un disegno di legge, dal 1881 non è mai stata effettuata. Ciò non vuole dire che non si possa modificare questa antica tradizione. Penso, per altro, che sia da tener presente che si tratta di una votazione alla quale si ricorre veramente soltanto in casi di straordinaria importanza, e ciò dico senza contestare l’importanza del voto che stiamo per dare ”. Data l’inusualità della richiesta, i costituenti non nascosero stupore e perplessità, tanto che il funzionario stenografo dell’epoca registrò sul resoconto: “ Commenti ”.

Era passato più di mezzo secolo dall’ultima volta in cui era stato richiesto lo scrutinio segreto e, proprio per questo carattere di straordinarietà, il Presidente ritenne opportuno invitare l’Assemblea a decidere quale delle due forme di votazione si sarebbe dovuta usare. Secondo l’onorevole comunista Velio Spano bisognava soltanto applicare il Regolamento.

Terracini rispose che, “ nel passato, nei casi di richiesta di diversi modi di votazione è sempre avvenuto - come nel famoso caso del 1881 - che la Camera ha discusso il sistema da adottare ”.

Spano replicò che “ allora non si trattava di fare la Costituzione ” e che anche all’epoca “ esisteva il Regolamento della Camera che noi abbiamo adottato ”.

Il dibattito divenne sempre più infuocato ed allora il Presidente ritenne opportuno domandare, ai presentatori della richiesta del voto segreto, se avessero intenzione di mantenerla. Probabilmente in questo interpello si celava, anche se in maniera velata, un invito a ritirare la richiesta stessa.

Dopo la dichiarazione di uno dei firmatari di mantenere la richiesta di votazione segreta, data “ l’importanza della materia in questione ”, si

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aprì un lungo e vivace dibattito, che costituì un emblematico precedente.

Intervenne allora l’onorevole Gronchi, Presidente del gruppo della Democrazia cristiana che, dopo aver manifestato le sue perplessità sulle ragioni per cui su di una questione del genere ( quella appunto dell’indissolubilità del matrimonio ) fosse stato richiesto lo scrutinio segreto, aggiunse: “ Quando si discusse il Regolamento della Consulta, che rappresenta in un certo senso un adeguamento più vicino alla sensibilità moderna di un’Assemblea democratica, si invertì il grado procedurale dei due sistemi di votazione ”, dunque nel concorso tra più domande, si sarebbe concessa priorità all’appello nominale, che prevaleva quindi su tutte le altre.

Gronchi diede una sua versione, molto interessante, sul perché fosse stato richiesto lo scrutinio segreto, e la individuò in “ speranza di guadagnare pavidi proseliti alla propria causa … o il calcolo di convenienza … che equivale al non avere il coraggio politico di assumere una posizione ”. Concluse che, secondo lui ed il suo gruppo d’appartenenza, la questione aveva una grandissima importanza e che ciascuno dei colleghi costituenti avrebbe dovuto assumersi le proprie responsabilità a viso aperto.

Rispose allora l’onorevole socialista Rocco Gullo, uno dei firmatari della richiesta di scrutinio segreto, asserendo innanzitutto che, se l’articolo 97 del Regolamento prevedeva lo scrutinio segreto, voleva dire che in alcuni casi ciò era possibile, senza che questo comportasse a chi l’ha richiesto l’etichetta di pavido e privo di senso civico.

Sul piano regolamentare, continuò Gullo, l’articolo 97 non stabiliva affatto che la richiesta di scrutinio segreto dovesse essere motivata o discussa, occorreva solo che fosse presentata da almeno venti deputati

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e che prevalesse su tutte le altre. Quindi l’Assemblea non aveva niente da discutere perché il quorum necessario era stato raggiunto e, da Regolamento, non si poteva certo soffocare il diritto di quei venti deputati.

Anche l’onorevole Togliatti, comunista, era sulla stessa lunghezza d’onda e affermò che, poiché il Regolamento della Camera era il presidio della libertà dei deputati, essendo stata richiesta la votazione segreta, la votazione segreta si doveva fare.

Concludendo allora, il Presidente Terracini, dopo aver precisato che il suo atteggiamento di fronte alla domanda di scrutinio segreto era dettato solo dall’opportunità “ che è sempre in relazione al tempo ” e che aveva assunto già atteggiamenti simili anche in occasione di richieste di appello nominale, affermò di non capire perché si fosse voluta trasferire la questione sul piano drammatico della tutela dei diritti delle minoranze.

Detto questo, diede dunque corso alla votazione a scrutinio segreto, dove i voti favorevoli alla soppressione della parola “ indissolubile ” furono 194, quelli contrari 191. Quindi, il primo comma dell’articolo 23 del progetto di Costituzione ( divenuto poi l’articolo 29 nel testo definitivo ), risultò così formulato: “ La Repubblica riconosce il diritto della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ”.

Dopo questa prima votazione a scrutinio segreto su richiesta, nella stessa seduta, fu presentata un’analoga domanda concernente la famiglia, che poi però fu ritirata e trasformata in richiesta di appello nominale.

Da quel momento in poi, il ricorso a votazioni a scrutinio segreto sarà sempre più frequente, tanto da arrivare a superare nel numero quelle per appello nominale. Bisogna comunque sottolineare che, la maggior

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parte delle volte, la richiesta di voto segreto non fu di natura politica in senso stretto, ma più che altro venne posta in essere per ragioni strumentali ed organizzative, anche perché questa modalità di votazione richiedeva minor tempo rispetto a quella per appello nominale. Dunque fu spesso utilizzata, con lo scopo di render più spediti o meno lenti, i lavori parlamentari 16.

Merita attenzione, inoltre, il dibattito svoltosi sulla procedura da seguire nell’organizzazione dei lavori parlamentari per giungere all’approvazione della Carta Costituzionale.

Per restringere i tempi della discussione e dell’approvazione dei vari articoli del progetto costituzionale, venne proposto di elevare il numero delle firme necessarie per richiedere la votazione per appello nominale o per scrutinio segreto: da quindici e venti firme, come previsto dal Regolamento in vigore, a trenta.

Il Presidente della Giunta del Regolamento presentò questa proposta spiegando che, quando l’Assemblea era composta da 508 membri, venti firme andavano più che bene. Ma dato che il numero era salito a 556 componenti, l’aumento a trenta firme era più che naturale.

Questa proposta fu però aspramente osteggiata dai gruppi minori, che videro nell’aumento del numero delle firme necessarie per chiedere le votazioni qualificate, una lesione dei loro diritti.

I demolaburisti criticarono questa scelta di portare il numero delle firme necessarie da venti a trenta spiegando che, così, il sacrificio dei piccoli gruppi era consumato e, nell’Assemblea, erano presenti gruppi

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Indicativa, in questo senso, la dichiarazione effettuata dall'onorevole Gronchi nella seduta del 28 aprile 1947: “Stavamo per proporre la votazione a scrutinio segreto, perché essa è più rapida e

servirebbe a contrastare un tentativo che per noi traspare abbastanza chiaro - chiediamo scusa ai colleghi se ciò sembra un processo alle loro intenzioni - quello cioè di mandare per le lunghe la discussione e la votazione su questo articolo”.

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che neppure in due, uniti, potevano esercitare più alcuni diritti. Proseguivano dicendo che il Regolamento doveva garantire sì i diritti delle maggioranze, ma anche quelli dei gruppi minori e che, così facendo, si sarebbe limitata la libertà del loro mandato visto che ognuno dovrebbe avere il diritto di esprimere la propria opinione. Altre protese giunsero dai gruppi misti; per loro, esigere trenta firme, voleva dire togliere a molti gruppi dell’Assemblea la possibilità di chiedere un appello nominale o una votazione per scrutinio segreto. Inoltre significava concedere palesemente solo ai grandi partiti, la possibilità di esercitare tali facoltà.

Al termine di questa ampia discussione, si votò a scrutinio segreto un ordine del giorno presentato dai gruppi minori per il non passaggio all’esame degli articoli. Su 380 presenti e votanti i voti favorevoli furono 194, mentre quelli contrari 186. Dunque, il numero di firme necessario alla richiesta di votazione per appello nominale o a scrutinio segreto, rimase a venti invece delle trenta proposte durante la riforma.

Occorre inoltre sottolineare che, da quando venne approvata la legge che prorogò la durata dell’Assemblea Costituente al gennaio 1948, i lavori per l’esame dei rimanenti articoli del progetto di Costituzione furono più distesi e meno convulsi.

Tra l’altro il ricorso allo scrutinio segreto, pur senza raggiungere numeri elevatissimi, fu comunque frequente e superò ampiamente le richieste di appello nominale. Ciò avvenne per due motivi: in primis la prevalenza, accordata dal Regolamento, del primo sul secondo e, soprattutto, il minor tempo necessario per lo svolgimento delle operazioni di voto.

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Infatti le votazioni a scrutinio segreto su emendamenti od ordini del giorno, effettuate dall’Assemblea Costituente dalla seduta del 23 aprile 1947, furono complessivamente 43, mentre le votazioni per appello nominale solo 23 ( la prima di queste fu chiesta sull’emendamento Amendola ) .

Per la redazione della Costituzione, l’Assemblea, scelse di affidare la stesura del progetto ad una sua articolazione interna denominata “ Commissione dei Settantacinque ”, presieduta dall’onorevole Ruini e divisa a sua volta in tre Sottocommissioni.

I costituenti in seguito, furono protagonisti di una lunga ed accesa discussione sul problema di una eventuale consacrazione costituzionale della modalità di voto, segreta o palese, dei disegni di legge nel loro complesso. Alla fine essi, furono concordi nel non riproporre nel testo definitivo una norma analoga all’articolo 63 dello Statuto Albertino, così come invece era stato inizialmente proposto. Si decise, dunque, di rimettere all’autonomia regolamentare di ciascuna Camera la questione riguardante le modalità di votazione.

L’articolo 72 della Carta Costituzionale ( che riprese l’art. 69 del progetto della Costituente ), avrebbe dovuto sancire che ogni progetto di legge fosse esaminato in primis da una Commissione di ciascuna Camera, secondo le norme del relativo Regolamento, e poi approvato dalla Camera, articolo per articolo, con votazione finale a scrutinio segreto.

La decisione, dunque, di lasciare all’autonomia regolamentare delle Camere la disciplina della votazione finale sui progetti di legge, più che voler rispettare indipendenza e competenza di ciascun ramo del Parlamento, era funzionale soprattutto alla volontà dei costituenti di non prender posizione su un tema così spinoso, sul quale le maggiori

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forze politiche avevano già avuto modo di dividersi, tra l’altro in alcuni casi, invertendo le posizioni che avevano assunto in seno alla Consulta Nazionale.

Democristiani e liberali, ma anche alcuni socialisti, che alla Consulta si erano espressi a favore dello scrutinio segreto, ispirandosi alla positiva esperienza precedente e temendo altrimenti forme di coercizione ed intimidazione da parte delle sinistre, in sede costituente si schierarono invece contro, consapevoli che il voto segreto aveva potenzialità dispersive e “ spacca maggioranza ”, e che infine garantiva solo formalmente una posizione di potere, come era accaduto all’epoca del fascismo. Essi dunque, a differenza dell’anno precedente, si schierarono per il mantenimento del voto palese, potendo così controllare i propri parlamentari e ricondurli agli indirizzi del partito 17.

Le sinistre invece, composte da comunisti, socialisti, azionisti e demolaburisti, si schierarono inizialmente a favore del voto palese, sia per sottolineare il diverso regime rispetto all’esperienza parlamentare liberale, sia per far si che l’opinione pubblica potesse verificare l’attività degli eletti ( gli esponenti di sinistra, volevano così far capire, che non avevano nulla da nascondere e potevano benissimo operare alla luce del sole ) .

In ogni caso non era secondaria l’allettante possibilità di controllare, tramite il voto segreto, la maggioranza parlamentare alla quale essi

17

A questo proposito, è molto interessante notare il confronto fra le posizioni espresse dalla II Sottocommissione dell'Assemblea Costituente del 1946, e le decisioni finali dell'Assemblea nell'anno successivo. In sede di Sottocommissione, ci fu la proposta del relatore Mortati di costituzionalizzare lo scrutinio segreto e sulla base di questa proposta, venne redatto l'art. 69 del Progetto di Costituzione. Però fu lo stesso Mortati, un anno dopo, a presentare un emendamento che demandava invece ai regolamenti parlamentari, la scelta delle modalità di votazione all'interno della Camera.

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