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La mobilità dei monaci nell’Ordine di Vallombrosa. Italia centrale e settentrionale, XI - XIV secolo

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LES MOBILITÉS MONASTIQUES

EN ORIENT ET EN OCCIDENT

DE L’ANTIQUITÉ TARDIVE

AU MOYEN ÂGE

(IV

e

-XV

e

SIÈCLE)

Études réunies

par Olivier D

elouis

, Maria M

ossakowska

-G

aubert

et Annick P

eters

-C

ustot

ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME 2019

(2)

Les mobilités monastiques en Orient et en Occident de l’Antiquité Tardive au Moyen âge, IVe-XVe siècle / études réunies par Olivier Delouis,

Annick Peter-Custot et Maria Mossakowska-Gaubert Rome : École française de Rome, 2019

(Collection de l’École française de Rome, 0223-5099 ; 558) ISBN 978-2-7283-1388-4 (br.)

ISBN 978-2-7283-1389-1 (Epub)

Disponible sur Internet: <https://books.openedition.org/efr/4202> ©2019 DOI: 10.4000/books.efr.4202

1. Vie religieuse et monastique -- Mobilité résidentielle -- Histoire -- Actes de con-grès 2. Ordres monastiques et religieux chrétiens -- Orient -- Histoire -- Actes de congrès 3. Ordres monastiques et religieux chrétiens -- Occident -- Histoire -- Actes de congrès 4. Moines chrétiens -- Mobilité résidentielle -- Moyen âge --

Actes de congrès

I. Delouis, Olivier, 1973- II. Mossakowska-Gaubert, Maria, 1967- III. Peters-Custot, Annick,

CIP – Bibliothèque de l’École française de Rome

© – École française de Rome – 2019 ISSN 0223-5099

ISBN 978-2-7283-1388-4

ISO/CD 9706

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la mobilità dei monaci nell’ordine

di vallombrosa

italia centrale e settentrionale, Xi-Xiv secolo

il monachesimo vallombrosano sorse nell’italia dell’Xi secolo come movimento di riforma volto al pieno recupero dell’osser-vanza benedettina. il suo fondatore, Giovanni Gualberto (fine sec. X-1073), monaco toscano impegnato nella lotta contro la simonia e la corruzione del clero, volle configurare il primitivo nucleo dei suoi seguaci, insediato a vallombrosa sui rilievi del Pratomagno (circa venti chilometri da Firenze), quale comunità governata secondo i dettami della regola, nel pieno rispetto della più auten-tica tradizione cenobiauten-tica1. in questo senso andrea di strumi (anni

novanta del secolo Xi)2, primo biografo del futuro santo (Giovanni

fu canonizzato nel 1193)3, sottolineò la piena coerenza della sua

proposta monastica, evidenziando come il rifiuto della scelta eremitica avesse spinto il riformatore a distaccarsi con decisione dall’esempio dei vicini confratelli camaldolesi4.

tuttavia, a dispetto delle sue ferme convinzioni, Giovanni infranse uno dei voti che i monaci da sempre pronunciavano, ossia quello di stabilità. come è noto la regola prevedeva che il novizio facesse promessa de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia (lviii, 17) e menzionava la stabilitas in congrega-tione (iv, 78). Quella enunciata dal padre del monachesimo occi-dentale era in primo luogo una stabilità di intenti, ma si configu-rava anche, per quanto possibile, come effettiva stanzialità fisica. infatti l’allontanamento dalla comunità di appartenenza veniva contemplato, ma solo in via eccezionale. benedetto aveva stabi-lito che qualora i religiosi dovessero recarsi per lavoro o servizio a notevole distanza dal loro chiostro, risultando impossibilitati a

1 rinvio in proposito a salvestrini 1998; salvestrini 2008; salvestrini 2016. 2 sul quale cfr. degl’innocenti 1984; degl’innocenti 1987.

3 cfr. salvestrini 2009, p. 106-117.

4 baethgen 1934, p. 1080-1084. cfr. angelini 2014; salvestrini 2014a, in partic.

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tornare per ricongiungersi alla sera nella recita corale dell’ufficio, questo venisse da costoro comunque celebrato, quasi che, pur restando lontani, si riunissero in spirito ai compagni nell’ora dei vespri o della compieta (l, 1-4).

ciò che Giovanni Gualberto aveva fatto agli inizi della sua espe-rienza riformatrice era qualcosa di parzialmente diverso. rifa-cendosi ad illustri e venerati precedenti, come quello offerto da romualdo di ravenna (951/53-1027), che aveva abbandonato la corrotta casa di sant’apollinare5, anche il giovane religioso

fioren-tino lasciò il monastero in cui aveva emesso la professione, ossia san miniato al monte presso Firenze, e vagò ramingo con pochi fedeli attraverso la toscana settentrionale alla ricerca di un luogo remoto in cui condurre un’esistenza all’insegna dell’assoluto rispetto della regola. infine egli trovò il luogo ideale sui rilievi del pre-appennino (Vallis Ymbrosa), ma in seguito abbandonò più volte anche quest’ul-timo rifugio, allorché le vicende della riforma della chiesa lo richia-marono a Firenze per lottare contro il vescovo da lui accusato di simonia, ossia quel Pietro mezzabarba che egli riuscì a far deporre6.

va poi precisato che anche durante gli anni trascorsi con i compagni a vallombrosa, Giovanni si spostò sovente fra questo insediamento e l’antico monastero di san michele arcangelo a Passignano in chianti, che egli aveva riformato e nel quale lasciò la vita terrena7. non bisogna, inoltre, dimenticare che le modalità

stesse attraverso le quali il religioso aveva introdotto la sua riforma in alcuni chiostri della regione prevedevano che egli si recasse periodicamente presso questi istituti situati nelle diocesi di Fiesole e Firenze, al fine di verificare l’osservanza della regola, la condotta morale dei fratelli e il rispetto della disciplina monastica. appare in tal senso emblematico l’episodio di san Pietro a moscheta rife-rito nella Vita di andrea di strumi, allorché Giovanni, visitando questo cenobio dell’alto mugello, constatò l’edificazione di palatia più grandi e dispendiosi di quanto lui consentisse e provvide a farli spazzar via dalla furia di un torrente in piena8. le testimonianze

agiografiche registrano anche due visite di correzione al monastero di Passignano, due a san salvi, una a montescalari (valdarno) ed altre quattro al suddetto chiostro di moscheta9.

5 tabacco 1957, iii, iiii, p. 19-20.

6 cfr. miccoli 1960; boesch Gajano 2012; d’acunto 1993; ronzani 2007;

salvestrini 2016 ; ed ora anche ciliberti 2014, con rinvii alla storiografia prece-dente.

7 salvestrini 2009, p. 61-76.

8 baethgen 1934, p. 1089. Per l’interpretazione di questo episodio cfr. boesch

Gajano 2012, p. 102.

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infine bisogna menzionare gli intensi rapporti che Giovanni e i monaci toscani intrattennero con gli esponenti della pataria lombarda, animati da analoghi intenti riformatori e, come loro, in lotta contro i vescovi simoniaci. tra Firenze e milano intercorsero importanti scambi epistolari e contatti diretti. non pochi chierici padani, fra cui il citato andrea di strumi, raggiunsero la toscana dopo la morte di arialdo, loro guida spirituale, allorché la situa-zione si fece per essi insostenibile10.

dopo la morte di Giovanni, il movimento a lui facente capo (movimento che dal 1080 circa viene qualificato nelle fonti come ‘vallombrosano’) venne strutturato in via definitiva quale ramo dell’ordine benedettino. l’impulso alla normalizzazione congre-gazionale fu impresso dai pontefici Gregorio  vii, Urbano  ii e Pasquale  ii, nonché veicolato dal superiore generale bernardo detto degli Uberti. tale processo comportò l’attribuzione di deter-minati poteri e prerogative al primate dell’ordine, che progressiva-mente si identificò con l’abate di vallombrosa. Quest’ultimo trasse legittimità nel ruolo di guida spirituale e istituzionale della familia dal suo essere successore del padre fondatore (in vice Iohannis primi abbatis)11.

Fra i doveri del generale vi era il controllo delle case congre-gate e l’osservanza della loro disciplina. Per questo motivo i succes-sori di Giovanni continuarono a spostarsi da un chiostro all’altro, nell’ambito di una rete monastica che fra Xi e Xii secolo si fece sempre più estesa, superando i confini delle diocesi originarie e diffondendosi, per lo più tramite l’introduzione della riforma presso monasteri già esistenti, sia in altre diocesi della tuscia che in molte regioni dell’italia centro-settentrionale e insulare12.

riguardo ai singoli monaci, l’uscita dalla clausura rimase un fatto eccezionale. essi dovevano chiedere per ogni occasione il permesso del loro abate. nei verbali dei conventus abbatum, prime assemblee costituzionali della familia, si decise che un reli-gioso non potesse recarsi né al mercato13 né in tribunale senza

licenza del superiore14. le punizioni previste per i contravventori

potevano arrivare fino alla scomunica. i colpevoli venivano giudi-cati anche dall’abate maggiore, potevano divenire ineleggibili

10 cfr. violante 1955; Golinelli 1995; salvestrini 2011a. 11 salvestrini 2008, p. 219-228.

12 vasaturo 1962; Kurze 2008a; salvestrini 2013a.

13 Et ut nullus monachus deinceps ad mercata permictatur ire causa vendendi

vel emendi aliquid (acG, 1096-1101, p. 512-13); si vero turpia convitia cuilibet fratri

frater intulerit vel si vendiderit aliquid aut emere quisquam absconse presumpserit II, IIIo commonitus, nisi desisterit, acriori vindicte subiaceat (acG, 1179, p. 4080-82).

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per un anno agli uffici ed era loro concesso di essere riammessi in comunità solo dopo un periodo di almeno quaranta giorni15.

tuttavia per gli immediati successori del pater alla guida della congregatio la situazione era diversa, e la visita, espressione della carità verso tutti i confratelli16, si configurava come la più

signi-ficativa manifestazione di supremazia, prima che le prerogative dell’abate maggiore assumessero un valore propriamente giuri-dico17. sappiamo, poi, che anche i superiori di altri importanti

istituti ebbero l’abitudine di recarsi saltuariamente presso i chio-stri minori da loro dipendenti e legati in forma mediata al vertice della congregazione18. Per esempio l’abate di Passignano visitò

in più occasioni il cenobio suffraganeo di san michele a Poggio san donato in siena, esigendo un’onorifica accoglienza come dominus che richiamava da vicino la tradizione cluniacense e ricorrendo all’impiego del trono abbaziale per esercitare la corre-zione nel capitolo claustrale19. caratteristiche analoghe

presen-tarono le visite che, a partire dagli anni trenta del duecento, Giovanni e andrea, abati di san Fedele di strumi (allora residenti a Poppi), compirono ai priorati soggetti di santa maria di oselle e san Giacomo a città di castello, dando disposizioni volte a rego-lamentare la vita delle comunità, amministrandovi la giustizia e fungendo da mediatori nei contrasti interni20.

15 Item firmaverunt ut illi, qui exeunt de monasteriis sub occasione discendi vel

aliquo modo sine licentia, non metuentes excommunicationem que de exeuntibus facta est, non suscipiantur nisi sub longa probatione, que sit ad minus XL dierum, et antea scripto profiteantur non ultra se sine licentia exituros, neque ordinibus, quos prius habebant, utantur ante spatium unius anni, nec id ipsum sine iussione maioris abbatis, secundum quod ei visum fuerit pro qualitate temporis et persone (acG, 1139, p. 1837-43); Ad hoc si quis frater egreditur de claustro sine licentia sui abbatis

corrigatur, ita tamen ut prima correctio sit disciplina, et si perseveraverit secundo suspendatur a mensa, tertio excommunicatus a consortio fratrum fiat alienus (acG, 1154, p. 2334-37).

16 Per gli abati il recarsi in visita restava a tutti i livelli un modo di manifestare

la propria attenzione verso le esigenze e le difficoltà dei confratelli: De infirmis vero fratribus, ut regula precipit, maxima cura ab abbate habeatur et omni die post capi-tulum per se vel per decanum sive per cellerarium visitentur (acG, 1158, p. 2748-50).

17 cfr. salvestrini 2008, p. 219-223 e p. 350-351. solo per fare un esempio

ricordiamo che fin dal 1140 attone, già vescovo di Pistoia, ma forse ancora in veste di generale della congregazione, visitava il monastero lombardo di astino, presso bergamo e qui consacrava due altari (abbazia di vallombrosa, archivio Generale della congregazione, Q.i.6., f. 592v).

18 nel 1255 il generale tesauro visitava il monastero di Fontana taona

lasciandone testimonianza scritta (Firenze, archivio di stato [d’ora in poi asFi], Diplomatico, Vallombrosa, 1255 aprile 29).

19 monzio compagnoni 1998, p. 576; monzio compagnoni 1999, p. 122-126. 20 asFi, Diplomatico, Firenze, S. Trìnita, 1238, settembre 3; 1261, febbraio 1;

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a questa pratica, che vedeva lo spostamento relativamente frequente dell’abate e di pochi confratelli del suo seguito, se ne aggiunse però un’altra, che coinvolse un numero più ampio di reli-giosi. la definizione istituzionale del vinculum caritatis, ossia la forma di associazione che univa fra loro le case dell’ordine, per poter essere ulteriormente definita e rispondere, così, alle sollecita-zioni dei pontefici, dovette essere discussa fra tutti i rappresentanti dei chiostri, che a quest’epoca conservavano un notevole grado di autonomia ad esempio nella gestione dei propri appannaggi immobiliari. il modo migliore per procedere era quello di riunire in una sede prestabilita tutti gli abati delle comunità consorelle, sulla scia di quanto stavano sperimentando i cistercensi. Furono così convocati i suddetti conventus abbatum, preludi dei successivi capitoli generali, presso i quali dovevano recarsi i superiori che si riconoscevano vallombrosani, i priori, semplici monaci designati ed anche alcuni vescovi interessati alle questioni dell’ordine21. tali

assemblee si svolsero a partire dagli ultimi decenni dell’Xi secolo in vari monasteri. inizialmente fu scelto, infatti, di non convocare le assemblee a vallombrosa, che ancora non era da tutti ricono-sciuta come indiscusso vertice congregazionale, ma presso istituti differenti, i quali nel momento stesso in cui accettavano di essere sedi dei conventus implicitamente riconoscevano la loro apparte-nenza alla familia22.

È ovvio che queste occasioni comportassero lo spostamento di religiosi da una sede all’altra. tali eventi permettevano che alcuni membri dell’ordine si incontrassero, si conoscessero, si scam-biassero informazioni, si confrontassero e talora si scontrassero in merito alle scelte strategiche per lo sviluppo della congregatio, come ad esempio emerse negli anni del drammatico conflitto che vide l’ordine spaccarsi tra l’obbedienza al pontefice alessandro iii e quella ai papi di parte imperiale fatti eleggere da Federico i barbarossa, compreso il vallombrosano callisto iii († ca. 1179)23.

Fu durante i conventus abbatum che, a prescindere da quanto esplicitato nei verbali conservati, si iniziò a pianificare l’espan-sione della congregatio, grazie anche all’appoggio offerto da alcuni vescovi del nord italia, i quali cominciarono a vedere nei vallom-brosani non più gli acerrimi nemici della simonia e del nico-laismo, ma fedeli rappresentanti dell’obbedienza romana. durante la prima metà del Xii secolo alcune decine di fondazioni che si riconoscevano nella memoria di Giovanni Gualberto sorsero in

21 in proposito cfr. ora ciliberti 2013. 22 cfr. salvestrini 2008, p. 230-232. 23 cfr. Piazzoni 1999.

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lombardia, liguria, Piemonte, venezie, emilia, romagna, Umbria e sardegna24. sia che i monaci aprissero nuove comunità, sia che –

più spesso – rilevassero chiese preesistenti, i gruppi si insediarono soprattutto in prossimità dei centri urbani e furono inizialmente costituiti da religiosi almeno in larga misura di origine toscana. le fonti dei secoli Xii e Xiii evidenziano che in epoca successiva le suddette comunità ospitarono una prevalenza di confratelli locali, ma restò sempre un certo numero di monaci e conversi provenienti dalle diocesi originarie della tuscia. agli occhi dei fedeli le fonda-zioni vallombrosane furono spesso percepite come avamposti della casa madre. non a caso alcuni istituti piemontesi dell’ordine, dai santi apostoli Giacomo e Filippo di asti a san bartolomeo di novara, furono denominati, nella toponomastica di quell’area, ‘vallombrosa’, ‘la vallombrosa’, ‘la lombrosa’ e così via25.

dunque la crescita dell’ordine fu la causa precipua degli spostamenti e dei veri e propri trasferimenti dei religiosi da una casa all’altra. va, infatti, ricordato che l’affermazione della fami-glia vallombrosana avveniva in forma non troppo diversa da quella cistercense, ossia per filiazione. era normale che non solo da vallombrosa, ma anche da altri importanti cenobi partissero piccoli nuclei di religiosi per andare a riformare o creare insedia-menti anche in luoghi situati a molti chilometri di distanza. solo per fare un esempio ricordiamo come già agli inizi del Xii secolo alcuni religiosi tratti dalle fila dalla casa madre avessero ricondotto all’osservanza della disciplina regolare il monastero di san marco e benedetto di Piacenza26. da questo istituto emiliano altri monaci si

mossero per prendere possesso del complesso monastico-ospeda-liero di san Giacomo di stura a torino27; un abate del quale, dopo

pochi decenni, divenne superiore di san bartolomeo del Fossato di Genova (1252), dove alla locale comunità formata da liguri e toscani egli aggiunse propri confratelli di origine piemontese28.

infine fu dal cenobio ligure che alcuni chierici dell’ordine anda-rono a reggere come sacerdoti numerose chiese dipendenti situate nelle diocesi della corsica settentrionale29.

Passaggi di questo tipo furono frequenti per tutto il corso del Xii e del Xiii secolo, al punto che all’inizio del trecento l’italia centro-settentrionale era punteggiata da un centinaio di

insedia-24 cfr. W. Kurze, 2008b; salvestrini 2010; salvestrini 2011; ciliberti – salvestrini

2014; salvestrini 2014b. 25 ciliberti – salvestrini 2014, p. 18, 76, 82, 85-87, 90, 94. 26 cfr. Gaborit 1965, p. 180. 27 ciliberti – salvestrini 2014, p. 23-35. 28 salvestrini 2010, p. 114-115. 29 Ibid., p. 103-112.

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menti i quali si riconoscevano nell’obbedienza vallombrosana e formavano una rete nelle cui fitte maglie rimase frequente il movi-mento di monaci e conversi, la traslazione di reliquie, lo scambio di testi sacri, la trasmissione di libri liturgici e normativi, la trascri-zione dei documenti, nonché la diffusione di conoscenze tecniche e costruttive. Proprio in relazione ai testi, la cui circolazione è evidenziata da numerosi esemplari di matrice lombarda presenti nei monasteri toscani e viceversa, ricordiamo solo che nel corso dei suoi spostamenti ciascun religioso portava in genere con sé volumi ed altre carte. infatti la ricercata omogeneità osservan-ziale passava in primo luogo attraverso la diffusione degli scritti, a partire dalle consuetudines, ossia il messale-breviario contenente il proprium della congregazione composto forse già a partire dagli anni novanta dell’Xi secolo e codificato in via pressoché definitiva dai generali bernardo e attone da Pistoia (inizi del Xii)30. sempre

in spirito di carità alcune fondazioni provviste di uno scriptorium cedevano alle case che non ne disponevano alcuni esemplari di libri sacri e liturgici, le costituzioni dell’ordine (ossia i deliberati dei conventus abbatum) e varie opere letterarie31.

Fu inoltre normale che nelle diocesi ospitanti le fondazioni vallombrosane si diffondesse il culto di santi appartenenti alla congregatio (a partire da quello del pater Giovanni Gualberto), e che nel contempo la familia vallombrosana acquisisse tradizioni devozionali originate dai contesti locali sui quali i monaci anda-vano variamente ad insistere. ciò appare evidente soprattutto verso la fine del Xiii secolo, allorché le commemorazioni celebrate in cenobi situati al di fuori della toscana furono introdotte nel calen-dario liturgico della congregatio32.

i vallombrosani anticiparono in molte realtà territoriali forme insediative che successivamente caratterizzarono gli ordini mendi-canti, scegliendo spesso di fermarsi e di ripopolare chiese situate negli immediati suburbi delle città comunali in espansione. Presso tali case essi rilevarono o aprirono ospizi aperti a pellegrini e viag-giatori. Questo fece sì che molte loro fondazioni assumessero, nel tempo, un tipo di organizzazione analoga a quella che sarà proprio delle realtà conventuali. i chiostri divennero, infatti, luoghi nei quali alcuni membri dell’ordine, chiamati a svolgere attività di predicazione o a realizzare alcune infrastrutture edilizie e archi-tettoniche, restavano per un breve periodo, trasferendosi poi in comunità della familia situate in altre città. le fonti del trecento

30 Corpus Consuetudinum Monasticarum, p. 309-379. cfr. salvestrini 2013a. 31 cfr. salvestrini 2009, p. 97-98 e p. 126-127.

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segnalano l’allontanamento di religiosi toscani fuggiti dalle loro sedi e rifugiatisi presso alcuni compagni dell’italia settentrionale; così come monaci ospitati più o meno ufficialmente in chiostri femminili nei quali svolgevano il ruolo di amministratori, fornendo alle consorelle un’assistenza sacramentale talora non garantita dal clero secolare33.

se questi ultimi erano spostamenti spesso non autorizzati, la mobilità lecita dei regolari fu garantita dalla progressiva defi-nizione dei poteri concessi al superiore generale; poteri che non di rado furono apertamente contestati da una parte dei religiosi stessi. infatti le componenti più rigide dell’ordine si opposero al diritto, riconosciuto all’abate maggiore, di trasferire i monaci da una comunità all’altra; una facoltà già esercitata da Giovanni Gualberto e sancita dal conventus abbatum di san salvi del 1101, allorché fu stabilito che i monaci, al momento della professione, giurassero di recarsi ubicumque vel quandocumque domno abbati placuerit maiori34. la domanda era sostanzialmente questa: poteva

il superiore inviare i confratelli in cenobi diversi da quelli presso i quali avevano emesso la professione, in contrasto con l’inamovi-bilità menzionata nella regola? il problema fu a lungo dibattuto, data la relativa incertezza allora esistente circa gli schemi giuridici della professione religiosa35. inizialmente il trasferimento, come

mostrano le carte di fondazione dei monasteri di Forcole presso Pistoia e di Piacenza, fu giustificato dalla necessità di garantire l’osservanza della riforma a danno di cedimenti o ribellioni36. in tal

senso si poteva e si doveva derogare alla tradizionale clausura. non mancarono, però, resistenze e opposizioni, sia da parte di coloro che non volevano lasciare le case in cui erano stati professi, sia per opera delle comunità che rifiutavano di accogliere confratelli ‘fore-stieri’. d’altro canto occorse presto mettere un freno all’opposta tendenza di quei religiosi che chiedevano di lasciare una casa nella quale non si erano trovati bene per spostarsi in un’altra.

le norme capitolari cercarono di fare ordine attribuendo il massimo del potere decisionale al vertice della congregazione. Un compromesso sostanzialmente accettabile per tutti fu raggiunto nel citato conventus del 1101, tramite il principio di unità nella carità, evocante esplicitamente il vinculum caritatis37. la comunità

33 salvestrini 2013a.

34 acG, p. 726-28. la conferma si ebbe nel capitolo di vaiano del 1135 (acG,

1135, p. 165-16). cfr. salvestrini 2008, p. 223-224.

35 cfr. in proposito augé 1983.

36 d. meade, General Preface, in acG, p. xii-xiii.

37 in realtà nelle costituzioni di bernardo del 1101 per indicare il legame

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perfec-vallombrosana costituiva idealmente un unico organismo, per cui, come l’abate maggiore poteva disporre la condivisione e la redistri-buzione delle risorse materiali fra i chiostri consociati, così aveva facoltà di inviare alcuni monaci laddove ve ne fosse bisogno nel rispetto, appunto, del vincolo di carità.

Per altro verso, pilastro fondante dell’unione fra le case era, accanto alla charitas, il bonum obœdientie. Proprio in virtù della mutua assistenza l’abate esigeva l’obbedienza dei confratelli, anche qualora questa imponesse di lasciare la clausura per recarsi ove lui avesse deciso. il conventus abbatum del 1139, raccogliendo e confer-mando quanto stabilito negli atti delle assemblee precedenti, ribadì la possibilità di far trasferire i monaci per il bene dell’intera congre-gatio, ma riconobbe esplicitamente che alcuni religiosi riluttanti avevano sollevato obiezioni canoniche o costituzionali38. Forse per

questo motivo gli atti precisarono in via formale che la professione monastica presso un istituto vallombrosano comportasse necessa-riamente l’ingresso nell’ordine (inteso, come dicevamo, quale unica grande comunità) e non in un unico e definitivo monastero.

il trasferimento restava, comunque, un provvedimento ad tempus e non comportava, almeno agli inizi, spostamenti defini-tivi. esso rimase una pratica straordinaria spesso osteggiata. lo dimostrano, ad esempio, le sanzioni previste dal capitolo del 1206 contro quei monaci che manifestassero forme di discriminazione nei confronti di confratelli provenienti da un altro consesso39. in

ogni caso divenne prassi normale, soprattutto a partire dal primo duecento, che i monasteri ricevessero da fuori i loro abati, o che a capo della stessa vallombrosa, e quindi dell’intera famiglia rego-lare, fosse designato un religioso non originario di quella comunità, come fu ad esempio l’abate maggiore martino eletto nel 1190, in precedenza alla guida del monastero del santo sepolcro di astino presso bergamo40.

tuttavia, se agli inizi della societas l’impulso più evidente alla circolazione dei religiosi era stato costituito dall’uniformazione tionis (acG, 1101, p. 67). l’impiego del termine caritatis nei documenti successivi

derivò da una reiterata lettura dell’agiografia del fondatore, la cui figura restava fondamentale per la definizione dei poteri concessi all’abate maggiore.

38 Leves plereque persone dicunt non se debere mutare de monasteriis, in quibus

professi sunt, asserentes hec est mea domus et hoc est meum monasterium (ibid., 1139, p. 1720-22).

39 De monachis, qui transmittuntur a Vallimbr(osano) abbate vel a decanis

pro aliqua necessitate vel excessu ad alia monasteria, precipimus ut recipiantur, et tamquam fratres illius monasterii teneantur […] nemine sibi improperante aut dicente: tu non es monachus huius monasterii (ibid., 1206, p. 4889-95).

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dell’osservanza, nel corso del Xii e del Xiii secolo le riunioni dei padri e i viaggi dei monaci non diffusero solamente i deliberati normativi, ma anche scelte comportamentali e strategie insedia-tive per lo più sperimentate originariamente in toscana. ne sono esempio eloquente le forme di alleanza adottate durante il secolo Xi nelle diocesi fiorentina, fiesolana e pistoiese con alcune potenti schiatte comitali di ascendenza rurale come i Guidi e i cadolingi, o con famiglie eminenti di estrazione cittadina quali i caponsacchi, patroni del cenobio fiorentino di san salvi, e gli Uberti41.

ritro-viamo queste stesse scelte nel caso del monastero bergamasco di astino, che durante il primo ventennio del secolo Xii ricevette lasciti e donazioni da un rappresentante della famiglia da mozzo e da alcuni membri della schiatta comitale dei Gisalbertingi (signori rurali), cui in seguito si affiancarono esponenti del ceto medio e consolare urbano, in particolare i suardi e i colleoni, nonché piccoli proprietari fondiari ed altre figure di benefattori42.

significa-tivo appare anche il caso di san barnaba al Gratosoglio di milano, insediamento vallombrosano risalente a prima del 1130, il quale intrattenne strette relazioni coi rappresentanti dell’aristocrazia comunale ambrosiana del primo secolo Xii, e in special modo col ceto medio dei valvassori e degli esponenti del primo consolato43.

Possiamo, inoltre, menzionare il contatto di san bartolomeo del Fossato di Genova con la locale famiglia Porcelli (anni Quaranta del secolo Xii), un nucleo parentale in grado di tutelare i monaci toscani dall’eccessiva influenza della locale curia arcivescovile44.

la definitiva istituzionalizzazione della mobilità dei religiosi avvenne, però, in epoca ancora successiva, ossia all’inizio del duecento, allorché la visita del superiore generale, accompagnata da quella di monaci suoi legati presso le singole case della congre-gatio, divenne prassi istituzionalizzata per volontà della curia romana. Fino ad allora le ispezioni compiute dai successori di Giovanni Gualberto e dagli altri abati delle case maggiori, sebbene comportassero un controllo dell’osservanza locale e fossero occa-sione per ribadire le norme stabilite dai capitoli generali, in primo luogo si configuravano come testimonianze di obbedienza. esse identificavano la visita canonica più come un omaggio tributato a un superiore che quale indagine approfondita sull’istituto

inte-41 vannucci 1963 e vannucci 1964, p. 26-28, e p. 30-31; salvestrini 2008,

p. 303-326; Faini 2010, p. 254-261; contessa 2014.

42 cremaschi 1993, p. 8-10; spinelli 1995, p. 192-193; menant 1998, p. 275-279

e p. 295-297; salvestrini 2011a, p. 16; sartoni 2011, p. 132-134.

43 Zerbi 1963; monzio compagnoni 1995, p. 222-224. cfr. anche sartoni 2011,

p. 57-58.

(13)

ressato. dal punto di vista degli abati generali tale visitatio era un prezioso strumento per confermare con solennità, tramite il ricorso a simbolici cerimoniali, la dipendenza delle fondazioni più distanti dalla casa madre, come ad esempio il già richiamato chiostro di astino, per la cui ispezione, particolarmente onerosa, il primate, nel 1311, non esitò a contrarre dei debiti45. l’assenza di

sistematicità e di relativa continuità – dal momento che si tocca-vano solo singole fondazioni – faceva sì che il vero scopo sotteso a tali missioni fosse il ribadire, in un’occasione ufficiale, la fedeltà delle singole comunità tributarie. in tal senso esse non differivano dalla prassi analoga che prevedeva visite di abati e priori presso il padre generale al soglio di vallombrosa, inizialmente ogni anno, poi solo in seguito all’elezione46.

agli inizi del duecento, invece, su modello fornito dall’orga-nizzazione cistercense, innocenzo iii impose una nuova forma di visita canonica sancita dal concilio lateranense  iv (1215). essa non fu più affidata solo al padre generale, ma – come confermano le costituzioni dell’ordine vallombrosano emanate nel 1216 – in prima istanza ad alcuni monaci visitatori. Pertanto, ancora su impulso della sede romana, la mobilità dei regolari fu provvista di una valenza istituzionale derivata da una tradizione presente all’in-terno dell’ordine. vennero unite due diverse forme di visitatio: quella canonica del padre generale, che non si perse e continuò ad essere effettuata, e quella periodica di altri religiosi (i monaci visitatori) condotta in spirito di carità fra le case consorelle e in obbedienza ai dettami del superiore generale. Gli abati maggiori, i padri locali ed altri loro consocii iniziarono, quindi, a spostarsi sempre più di frequente da un chiostro all’altro al fine di promuo-vere l’uniformità liturgica e disciplinare.

le modalità di svolgimento della visita, istituite fin dal 1216 e confermate nei capitoli successivi, prevedevano che i monaci visi-tatori raggiungessero ciascun istituto e vi restassero per almeno un giorno. in presenza di tutta la comunità dovevano invitare l’abate locale a sciogliere i membri da qualsiasi giuramento essi avessero prestato di non rivelare inhonesta et illicita a carico di chiunque,

45 cfr. Pesenti 1988, p. 139.

46 acG, 1139, p. 17-1817-28, 53-55, 5485-91; 1258, p. 88309-314; monzio compagnoni

1999, p. 156. visite verbalizzate in forma singolarmente analoga venivano compiute anche dai priori di camaldoli subito dopo la loro elezione. alcune regis-trazioni (esplicitamente denominate instrumentum obedientie) sono conservate in un codice miscellaneo (il primo dei registri dei priori generali) relativo ai secoli Xiii-Xiv, in rapporto agli anni 1266-67 (monastero di camaldoli, archivio del sacro eremo, Camaldoli, 262, cfr. ad es. fasc. b, ff. 27r, 28v, 31r, 37r; fasc. G, f. 65v;

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compreso il superiore. Poi i legati avrebbero richiesto ai religiosi di promettere, o in caso di nota inaffidabilità degli interessati, di giurare che avrebbero risposto sinceramente alle questioni loro poste e non avrebbero in alcun modo taciuto la verità. Quindi si sarebbero svolti i colloqui, in secretis, un fratello per volta. in presenza di gravi mancanze i visitatori avrebbero dovuto infor-mare per lettera l’abate maggiore. le minori reprimende sarebbero state invece scritte in una memoria, poi sigillata, che il monastero avrebbe custodito fino alla visita successiva47.

in ultima analisi vorrei ricordare che lo spostamento dei reli-giosi non si svolse solo all’interno della famiglia monastica e per volontà dei superiori dell’ordine. Fin dall’Xi secolo la sede aposto-lica si servì degli abati generali e di altri superiori come di legati apostolici, e divenne prassi normale che alcuni vallombrosani, al pari dei monaci cistercensi o appartenenti ad altre religiones, venis-sero reclutati dai governi delle città comunali per svolgere ruoli di camerlengo, architetto, predicatore, ambasciatore o maestro; tutte attività che comportavano l’allontanamento, a volte anche prolungato, degli individui interessati, in una forma non sempre ben accolta dalle comunità di appartenenza48.

d’altro canto i viaggi dei monaci potevano andare a vantaggio delle collettività urbane. secondo quanto racconta il cronista Giovanni villani, fu un monaco vallombrosano che nel 1334 portò a Firenze dall’oriente le reliquie dei santi alessio e iacopo, desti-nati ad essere acclusi al novero dei protettori della maggiore città toscana49.

tante furono, dunque, le occasioni e le modalità di circola-zione dei religiosi appartenenti alla familia fondata da Giovanni Gualberto. la mobilità fu uno degli elementi caratterizzanti l’evo-luzione storica di questo ramo del monachesimo riformato. tale condizione identificò la parabola ascendente dell’ordine, che si concluse, a mio avviso, durante la prima metà del trecento, quando cessò l’espansione e iniziò una lenta decrescita nel numero delle fondazioni. senza dubbio il delinearsi del conflitto pres-soché permanente tra Firenze e milano a partire dal secondo cinquantennio del secolo Xiv rese sempre più difficili i contatti tra le due aree principali, quella toscana e quella lombarda, che componevano la compagine regolare. successivamente

l’afferma-47 cfr. acG, 1216, p. 54-5591-122. il problema della visita canonica presso i

rego-lari fino al primo secolo Xiii è trattato in una prospettiva d’insieme e in rapporto ad alcuni degli ordini maggiori da J. oberste: oberste 1996. cfr. anche oberste 1999.

48 cfr. salvestrini 2011b.

(15)

zione degli stati regionali portò alla frammentazione della grande provincia settentrionale fra il ducato di milano, il dominio vene-ziano e i potentati signorili delle città padane. l’ordine perse la dimensione sovraregionale che aveva avuto in età medievale, e la ripartizione amministrativa in province venne sostituita da un’i-dentificazione dei monaci per ‘nazioni’ (fiorentina, toscana, veneta, ambrosiana)50. in ogni caso la circolazione dei religiosi non venne

meno, né si verificò la ‘toscanizzazione’ della congregatio, pur favo-rita nel Quattrocento dalla repubblica fiorentina e perseguita in età moderna dal governo mediceo. anzi, il generalizzarsi dell’abba-ziato temporaneo determinò frequenti spostamenti dei superiori destinati a ricoprire in più case la carica suprema51. ciò intensificò,

sia pure entro un «verband» sempre più limitato, anche il trasferi-mento di libri, carte e strumenti di governo fra le sedi del centro e quelle del nord italia52.

Quali conclusioni possiamo dunque trarre in merito alla mobi-lità dei religiosi in ambiente vallombrosano? essa fu notevole e si svolse su piani differenti: un primo movimento fu spontaneo e condotto sull’esempio del padre fondatore. esso era nato dalla volontà di costituire comunità osservanti libere da ogni forma di corruzione simoniaca. tale mobilità si sostanziava delle visite peri-odiche condotte dal superiore generale e da altri abati maggiori alle case suffraganee, delle assemblee costituzionali (conventus abbatum), dello spostamento di religiosi inviati a fondare e rifor-mare comunità vallombrosane in varie diocesi dell’italia centrale e settentrionale. Una volta che l’ordine raggiunse, col primo secolo Xiii, la sua massima espansione, il movimento si fece più speci-fico e interessò soprattutto i monaci e gli abati visitatori incaricati di controllare la disciplina delle singole comunità. in ogni caso la mobilità ufficiale era una conseguenza dei poteri che i conventus abbatum, costantemente disciplinati dalla sede apostolica, avevano conferito ai superiori generali di trasferire i loro confratelli da una comunità all’altra. tale facoltà dell’abate maggiore era funzionale alle istanze di mutua assistenza e carità fra tutti i membri dell’ordo. la circolazione dei monaci costituiva la necessaria premessa all’attuazione e conservazione di quel vinculum caritatis che era l’unico lascito organizzativo del padre fondatore. Per altro verso, fu sempre in spirito di carità che i monaci lasciarono, almeno ufficial-mente, le loro sedi ogni qual volta istanze superiori (del pontefice, dei vescovi, dei poteri politici territoriali) lo richiesero. dunque i

50 cfr. salvestrini 2011a, p. 32-35. 51 vasaturo 1994, p. 155 ss.

(16)

vallombrosani, come i cistercensi ed altri benedettini dei secoli Xi-Xiii contribuirono, anche attraverso la disciplina della mobilità e la circolazione dei professi, alla definizione di un nuovo profilo del confratello regolare; un profilo destinato ad aprire la strada, a partire soprattutto dal primo duecento, ai nuovi ordini che fecero del movimento e della predicazione non più realtà eccezionali da contrattare ed imporre, ma due delle principali connotazioni voca-zionali connesse all’esperienza della scelta claustrale, espressioni esse stesse della sequela Christi e di un’ormai diversa vita religiosa.

Francesco SalveStrini

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