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Gioco e metodo: suggerimenti per una semiotica fragile

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Academic year: 2021

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22 July 2021 Original Citation:

Gioco e metodo: suggerimenti per una semiotica fragile

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le.

Massimo Leone, Università di Torino

1. Metodo e ottimismo.

Vi sono stati, nella storia, diversi fautori del metodo, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, da Cartesio a Greimas, eppure non sembrerà irriverente pensare che fossero tutti molto ottimisti, oppure molto fortunati, che godessero di buona salute, o che fossero benedetti con una certa ottusità. Per ottusità qui non s’intenda stupidità, giacché si sono appena menzionate alcune delle menti più brillanti della storia umana, né s’intenda il “senso ottuso” di Barthes, bensì l’opposto semantico di “acuto”. Chi propugna il metodo è forse come tutti colpito dalle vicissitudini della vita, eppure resiste loro opponendovi una pelle dalla grana grossa, impenetrabile, una scorza che filtra le impurità dell’esistenza e lascia i pozzi dell’anima limpidi, cristallini. Le vittime del senso acuto, allora, non sono affatto quelle più intelligenti, al contrario, poiché la loro condizione li conduce spesso alla catastrofe. Essi vivono nell’acutezza nel senso che il mondo perlopiù li ferisce, e ogni parola, ogni gesto, ogni avvenimento risulta loro l’ennesimo aculeo di un’insensata acupuntura. Forse è l’illusione di sfuggire a questa condizione, o addirittura la convinzione di esserle superiori, che rende la

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semiotica a volte un tantino antipatica. Si respira, attraverso la storia della semiotica, un’aria di superomismo, velata, raffinatissima, ma pur sempre fastidiosa a molti. Al di là delle inquietudini metodologiche, il semiotico non mette in dubbio che segni affioreranno alla sua coscienza nell’ambiente circostante, e che grazie alle fatiche dell’intelletto essi potranno essere associati a significati, a senso, persino a una grammatica. Di fronte a un testo, il semiotico s’interroga su quale sia il modo migliore per aggredirlo, ma mai dubita che esso sia conquistabile, sviscerabile. Più complesso ed ermetico è il testo, più il semiotico sente dentro di sé la sfida dell’arrembaggio, cui è d’uopo attrezzarsi con solide funi e catapulte. Chi pensasse che l’allargamento dell’ambizione semiotica dal segno al testo, e dal testo alle culture, dovesse rendere i semiotici meno arrembanti si sbaglia: le pratiche, le società, financo le culture divengono entità accessibili, esplorabili, dietro le quali e dentro le quali si aggirerebbe, sebbene sfuggente e serpentino, un senso sicuro. Nel momento in cui la semiotica si affaccia appena sulla scena dei big data, riproduce anche lì la sua sicumera, a tratti insopportabile: faremo questo e quello, combineremo la semiotica strutturale con quella interpretativa, ci concentreremo sull’enunciazione, e via dicendo, ma sempre fiduciosi che, non importa quanto ardua l’impresa, capiremo il senso del web, perché nel web, come nel segno, come nel testo, come nelle pratiche, c’è del senso, tangibile, afferrabile, docile ad articolazioni e tipologie.

2. Metodo e pessimismo.

In uno sforzo, anch’esso per certi versi ottimista, di semiotica delle culture semiotiche, si potrebbe ipotizzare che questo atteggiamento nei confronti del senso sia frutto di epoche storiche tranquille, di ambienti ovattati, di una condizione sociale e psicologica senza asperità, o che comunque tali asperità, quando presenti, riescano a essere smussate nel contatto con la dura scorza del semiologo, che tutto colpisce ma nulla ferisce. Se però si ha la sfortuna di vivere

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nelle epoche o nelle regioni della desolazione, o semplicemente di non godere di buona salute, o di mancare di quella corazza che consente al mondo di manifestarsi solo nei suoi tratti più intellegibili e per ciò stesso benevoli, e non con la sua ondata di quotidiani fastidi, allora è inevitabile che la semiotica, pur restando stoicamente una disciplina, si trasformi in qualcosa di molto diverso, più simile alla rassegnazione di Seneca, o alla filosofia che consolava Severino Boezio, o all’ironia sconfitta di Kierkegaard.

3. La semiotica in gioco.

Va molto di moda oggi, in semiotica come in altre discipline, occuparsi di gioco, di videogiochi ma non solo. È sicuramente un bene, ma sarebbe ancora meglio se non si scartasse l’idea certo un po’ irritante che la semiotica stessa sia un gioco, e che forme di gioco siano, dopo tutto, i vari generi. Il ritratto del semiologo entusiasta, spesso di giovanissima età ma non solo, non contempla questa consapevolezza. Il semiotico entusiasta, ottuso alle impervie del mondo, afferra i segni per le corna, i testi per la coda, le culture per le orecchie, li fa roteare su sé stessi, li stende a terra, ne squarcia il petto, li viviseziona, e poi organo per organo, cartilagine per cartilagine, appendice per appendice, dispone tutto su un elegante vassoio, in cui tutta la sporcizia, il viscidume, la vischiosità dei corpi scompaiono, come in quelle grottesche mostre in cui i cadaveri vengono mostrati mummificati e sezionati in pose plastiche e perfettamente asettiche. Chi si dedica a questa biopsia del senso pensando che sia effettivamente un procedimento scientifico per giungere alla verità di un corpo esprime dunque un’attitudine non solo entusiasta, ma anche un po’ prevaricatrice. Il semiotico fragile, invece, sa purtroppo che sta giocando. Si scelgono le regole del gioco perlopiù a seconda di accidenti o gusti personali, e poi vi ci si destreggia chi meglio chi peggio. I bravi giocatori poi a un certo punto propongono nuove regole, o addirittura nuovi giochi, e riescono a farsi seguire da altri giocatori, che abbandonano altri campi

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per quello nuovo. Suggerire che il metodo sia un gioco non significa sottrargli pienezza esistenziale. Il giocatore di pallone darebbe l’anima per un goal, così come il semiotico è giusto che s’infervori per una dissezione ben condotta, per un quadrato ben riuscito.

4. Gioco e insensatezza.

Ma la metafora del gioco suggerisce una verità umiliante per il semiotico entusiasta: la palla è rotonda, le combinazioni possibili del gioco del calcio infinite, l’esito di una partita impronosticabile, eppure questo rettangolo ove combinazioni sempre cangianti di piedi, sfere e schemi si verificano domenica dopo domenica è ridicolmente semplice rispetto al brulicare verminoso che, magari insensato, prolifera tutto attorno. Si dirà: ma non è la stessa cosa, il gioco è un sistema di mosse fine a sé stesso, mentre la semiotica un sistema di mosse che mira all’intelligibilità del mondo. Il sospetto inquietante, però, è che non sia così. La scienza ha anch’essa in sé qualcosa di ludico, nelle piroette che si fanno nei laboratori per esempio, eppure sembra afferrare qualcosa di tangibile “là fuori”. Non è facile dire altrettanto per le discipline del senso, vale a dire per tutte le cosiddette “scienze umane”. Il linguaggio, così come la storia, la quale non è altro che sedimento del linguaggio nel tempo, hanno certo le loro regolarità. Nessuno metterà in dubbio, per esempio, che la morfologia verbale di una certa lingua non sia catturabile in un diagramma chiuso, articolato, efficace. Ma quando si passa al vero compito della semiotica, che non è quello di descrivere le evidenze sintattiche del linguaggio, ma di passare da queste a ciò che significherebbero, allora l’orizzonte cambia radicalmente. Il semiotico entusiasta sarà convinto del fatto che, adottato il metodo giusto, si possa giungere a carpire questo magma affascinante al di là del velo: il senso di un segno, di un testo letterario, addirittura di un volto o di un rituale. Il semiotico fragile, invece, ne dubiterà. O per meglio dire si dirà che sì, si può certo cogliere questo senso, iscritto in un simbolo, in un

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dipinto, in una conversazione, ma è un risultato che rimane circoscritto a un campo da gioco, sia pure sofisticato. Non è che la prima attitudine sia da disprezzare, anzi! In una storia piena di dittatori sanguinari dalle visioni insensate che pure a volte suscitano il sostegno delle maggioranze, di stragi senza motivo, di ideologie mortifere, ma anche in una vita quotidiana in cui a ogni passo s’incontra una legge miope, comportamenti violenti eppure immotivati, nonché un oceano di segni, parole, e immagini che sembrano sgorgare senza rispondere a nessun raziocinio, il semiotico entusiasta è una figura eroica. Credere di potere ordinare il mondo, di trasformarlo in una semiosfera, è un’encomiabile illusione.

Sarebbe tuttavia un peccato rinunciare alla divertente dialettica con i semiotici fragili, quelli che l’acutezza del senso non entusiasma ma ferisce. Per questi ultimi, la semiosfera si presenta come un luogo ben diverso. Qui i volti, le icone, le storie compaiono sì dotate di senso, e persino di un senso determinato, ma senza mai poter dimenticare del tutto la cornice tragicamente ludica in cui questo senso si manifesta. Trattasi forse di decostruzione? Niente affatto! Il decostruzionista condivide col semiotico entusiasta la stessa temperie emotiva, la stessa fiducia nel guizzo dell’intelligenza che, invece di costruire una coerenza interpretativa, ne smantella una, subodorandovi e smascherandovi pregiudizi ideologici di vario tipo o, comunque, strettezze mentali. Per il decostruzionista, inoltre, non esiste un gioco più divertente di un altro, né regole del gioco che procurino più di altre soddisfazione estetica. Agli occhi del decostruzionista, un gioco vale l’altro.

Il posto che il semiotico fragile predilige per sé nella semiosfera, invece, è diverso. Egli o ella innanzitutto non cede al nichilismo, vale a dire non rinuncia a giocare, non soltanto perché giocare lo/la diverte, e ritiene che la vita sarebbe troppo amara senza la giostra delle interpretazioni, ma anche perché si accorge che condividere un metodo con altri studenti, con maestri e allievi, è il modo forse più efficace per costruire senso comune, per uscire da sé come centro di illusioni

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egocentriche, a inclusione di quelle vittimistiche, e incontrare gli altri. Non solo si vuole, ma si deve giocare il gioco del metodo semiotico. A differenza del decostruzionista, poi, il semiotico fragile, quello ferito dall’acutezza del senso, dalla sua consustanziale inintellegibilità, non ritiene che un gioco valga l’altro, né che, scelto un gioco, le regole cui vi si attiene siano indifferenti. Questo è il dettame paradossale del decostruzionista, che è tirannico proprio perché mentre gioca al gioco della decostruzione sostiene che non vi sia alcun altro gioco possibile. Il semiotico fragile, per parte sua, accetta la pluralità dei giochi, a inclusione di quello decostruttivo. Ci sono individui o gruppi, periodi e culture che traggono piacere estetico dal distruggere, più che dal costruire, dallo svergognare l’arbitrarietà dei giochi altrui più che dal condurne uno proprio. Ben vengano, pensa il semiotico fragile, perché in fondo hanno la funzione di evitare che ci si irrigidisca troppo nella baldanza della semiotica entusiasta, di giocare così forsennatamente, così convintamente, in modo da ottenere, sì, ottimi risultati, ma trascurandone la contingenza. Questo atteggiamento però non si traduce nella convinzione nichilistica o decostruzionista che tutti i giochi sono uguali. Forse essi lo sono in linea di principio, ma non lo sono per ciascuno dei partecipanti. Anche le donne e gli uomini in linea di principio sono tutti uguali, eppure ciò non evita a ciascuno, volenti o nolenti, di credere talvolta che fra essi o esse vi sia un individuo speciale, degno d’amore. Restando alla metafora del gioco, l’appassionato di calcetto sa bene che esiste anche il tennis, eppure non trascorrerebbe mai i suoi mercoledì sera se non correndo da una porta all’altra. Più in generale, la metafora del gioco si addice alle cosiddette scienze umane non perché esse non possano ottenere risultati socialmente utili, spesso ancora più immediatamente utili di quelli delle scienze, ma perché questa utilità non può che scaturire dalla condivisione comunitaria a uno stesso gioco, di cui il discorso umanistico spesso è abile al punto di impostare le regole. Per essere più concreti: la semiotica non ha scoperto niente da quando è stata inventata, perlomeno non

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nel senso che “scoperta” ha nel campo delle scienze mediche o in quello delle esplorazioni geografiche. Ciò che invece la semiotica ha ottenuto è di inventare un nuovo gioco, quello di guardare dietro alle cose cercandone il senso nascosto, traendo spunto da analoghi giochi del passato, ed esercitando questa nuova attività ludica con varie regole, di derivazione saussuriana, peirceana, lotmaniana, etc. A differenze della scienza, che è utile perché scopre la pennicillina, la semiotica è utile non per quello che scopre, ma per le interazioni sociali che la sua istituzione consente. Inventare la semiotica ha permesso a una vasta comunità scientifica, internazionale e ramificata, di costruire un senso comune attraverso la pratica di un gioco condiviso. La storia di questa pratica poi dimostra che le regole del gioco sono in costante evoluzione, la quale però va intesa non nel senso di una supposta sempre maggiore fedeltà all’ontologia, di una sempre più efficace capacità di leggere come segni il mondo che ci circonda, bensì nel senso di una sempre maggiore capacità di coordinamento.

5. Come si vince in semiotica.

Nell’ambito filosofico, non si trionfa catturando la verità, come invece si trionfa nell’ambito scientifico, bensì attraverso due possibili genialità: la prima, maggiore, consiste nell’inventare un nuovo gioco. Veneriamo Saussure, Peirce, Eco non tanto perché ci abbiano fatto scoprire alcunché, ma perché ci hanno fatto guardare con occhi diversi ciò che già sapevamo. La seconda genialità, minore perché subordinata alla prima, consiste nel raffinare le regole di un gioco già istituito, ed è questa l’attività cui si dedicano la maggior parte dei semiotici. Vi si dedicano essi o esse pensando che non vi sia altro gioco possibile, o che le regole ne siano immutabili? Si tratta allora di semiotici entusiasti, non v’è dubbio. La semiotica fragile, dal canto suo, non riesce, pur volendolo, ad indossare questa sicumera. Quando gioca, non dimentica il campo da gioco. Ne vede i confini. Sa che al di là di essi tutto è farsa, tutto è terrore. È persino più contenta di restare in questo

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rettangolo pacifico, dove un arbitro comunque assegna i rigori, sbagliando a volte, ma pur sempre sulla base di regole. Quando gioca, inoltre, non riesce a non pensare che potrebbe giocare a un gioco diverso, o allo stesso gioco con regole diverse, perché quello che conta non sono tanto il tipo di gioco o le sue regole, quanto il fatto che l’uno e le altre consentono perlomeno per un istante a una comunità di formarsi sottraendosi al caos del mondo, alla violenza dell’insensatezza.

Se si accetta questa versione fragile della semiotica, rispetto a una robusta, il miglior modo di coltivare una metodologia è allora non quello di idealizzare un grimaldello capace di aprire tutte le porte del senso, o un gioco assoluto che li riassuma tutti, bensì di designare sempre più convenienti strategie di accomodamento, in cui non si persegue l’imposizione reciproca del metodo ma un aggiustamento progressivo della comunità. Umberto Eco insisteva molto sulla necessità che lo zoccolo dell’interpretazione sia costituito da comunità di interpreti. Non è allora vero, come suggeriscono i decostruzionisti o una certa filosofia light oggi di moda, che “il metodo è la via dopo che la si è percorsa”. Se si inizia a camminare senza metodo non solo probabilmente non si va in nessun luogo interessante, ma con ogni probabilità vi ci si ritrova da soli. Il metodo è invece quella strada, o quella pista di atletica, se si vuole continuare con la metafora sportiva, in cui è possibile costruire il cammino più o meno armonioso di una comunità di interpreti, non solo nella sincronia di una cultura, ma anche nella staffetta delle generazioni.

6. Dal gioco allo spettacolo.

Due corollari: il primo sul rapporto fra gioco e spettacolo. Il gioco è sempre in qualche modo spettacolo per i giocatori. Quando giochiamo a calcio, non possiamo fare a meno di ammirare le abili mosse degli altri giocatori, o delle nostre, sdoppiandoci in giocatore giocante e giocatore osservante. Alcuni giochi,

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tuttavia, accumulano valore estetico, per motivi complessi e difficilmente generalizzabili, e si trasformano in spettacolo anche per chi non gioca. Enormi risorse economiche sono destinate, oggi, ad appagare il desiderio di chi, per esempio, vuole ammirare una partita di calcio. Chi si scandalizza degli ingaggi miliardari dei grandi campioni è un povero di spirito: ammirare la rovesciata compiuta da un maestro del calcio in una fase delicata di una partita importante non è molto dissimile dall’ammirare la Gioconda. La semiotica, se si segue l’impostazione qui suggerita, è anch’essa un tipo di gioco. Lo sono la maggior parte delle attività umane, quelle il cui scopo è fissato, perseguito, e misurato per convenzione, a inclusione delle scienze umane. Ma è forse la semiotica anche spettacolo? Lo è stata. Barthes dava spettacolo con i suoi scritti, Eco con le sue conferenze, Greimas a modo suo con i suoi diagrammi. Cosa vuol dire dare spettacolo con la semiotica? Vuole dire che le mosse dell’analista venivano ammirate non solo da chi le compieva, e dagli altri giocatori alleati o avversari, ma anche da chi, esterno al gioco, ne seguiva e apprezzava pur sempre le movenze. Scrittori come Calvino, architetti come Piano, semplici aficionados. Da cosa nasceva questo interesse? Sicuramente dalla constatazione che il gioco apparisse a tratti nuovo e perlopiù ben condotto. Ma non solo da questo. Scaturiva anche dalla consapevolezza di uno sforzo supplementare, di una specie di spreco. Non era necessario che Barthes scrivesse delle frasi dalla prosodia così elegante, né che Eco infilasse battute irresistibili nelle sue conferenze, o che Greimas asciugasse la sua prosa fino a una specie di minimalismo. Queste mosse stilistiche erano esattamente come l’ardire del giocatore di calcio che, invece di colpire di testa, movimento più naturale, si gira di spalle e infila la rete con una rovesciata; o, al momento del rigore che vale una partita che vale un trofeo, pennella un “cucchiaio” invece di cannonare gli incroci dei pali. Tutti gesti pragmaticamente insensati, rischiosissimi, persino ridicoli quando falliscono, eppure straordinariamente belli quando riescono, carichi di luccicanza estetica. I

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metodi che mirano solo al risultato sono destinati a non avere un pubblico, tanto piu che, come si è suggerito, il risultato non è sancito dall’ontologia delle cose ma dal favore di una comunità. A maggior ragione la semiotica deve riguadagnare una spettacolarità che aveva ma che ha perso per volere inseguire un mito di efficacia scientifica, o semplicemente per pigrizia, o per noia. È più facile montare un quadrato semiotico o cesellare una bibliografia che far ridere come faceva Eco, o sognare come faceva Barthes, o ipnotizzare per diagrammi come facevano Greimas e Lotman. Il suggerimento, dunque, anch’esso dal paragone fra metodo e gioco, è che ci si conceda ogni tanto qualche piroetta, un rischio in più, un guizzo che sembrerà forse una boutade ad alcuni, ma che ad altri aprirà il cuore e la mente a questa straordinaria disciplina. Insomma, un po’ d’indisciplina!

7. Dal gioco al mondo.

Una voce indignata si leverà immediatamente contro questa idea del metodo come gioco, ove addirittura si cerchi l’ebrezza dello spettacolo. Che dire, allora, dell’utilità sociale della semiotica? Personalmente, non ho mai osservato come la mirabile analisi semiotica della propaganda di un partito populista convincesse i suoi seguaci a votare ipso facto per il partito avverso. Oppure non ho mai constatato che qualcuno smettesse di comprare questo o quel prodotto dal brand aggressivamente globale perché colpito dalla demistificazione magistralmente condotta dall’indignato semiotico. E che dire della critica all’ideologia semiotica delle frontiere: ha forse spalancato le porte ai migranti? Siamo sinceri: anche queste tirate semio-politiche hanno un pubblico, spesso lontanissimo per classe e censo da chi beneficerebbe di queste analisi se i loro auspici si realizzassero, e il fine con cui le geremiadi semiotiche vengono proclamate è in fondo spesso tutt’altro che politico; non sortiscono effetto alcuno, se non rassicurare l’oratore e parte dell’audience (di solito maggioritaria) di un comune e auto-assolutorio sentire etico-politico. Sociosemiotici sessantottini pronunciano frasi incendiarie

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contro il capitale, la globalizzazione, l’alienazione. Sono frasi che colgono sofferenze vere. Ma chi le ascolta? Non certo coloro che, politici imprenditori generali etc. sentendole e credendoci potrebbero effettivamente dare un corso diverso al mondo.

Si tratta forse di cinismo, ma forse è la realtà a essere cinica. Concepire il metodo come gioco significa distinguere fra motivazioni etiche e professionalità. L’analisi semiotica non ha necessariamente bisogno di un fine politico se il suo compito è quello di descrivere, analizzare e interpretare la realtà entro la cornice di un certo gioco metodologico. Se in questa cornice s’insinua un obbiettivo etico-politico, quale salvare l’ambiente, o mangiare vegano, o trasformare la società in una civiltà cattolica, tali insinuazioni non hanno nulla a che vedere col gioco. È come quando il giocatore di calcio segna un bellissimo goal e lo dedica al figlio appena nato. È commovente, ma quello che conta è il goal, non la dedica. Lungi dall’essere un’incitazione al quietismo cinico, questa vuole invece essere una metafora che suggerisce rigore: il modo migliore di far avanzare la propria causa ideologica attraverso la semiotica non è quello di pompare surrettiziamente la seconda con la prima, piegando le proprie analisi al voler essere che si ritiene debba plasmare il mondo. Al contrario, il modo migliore di far avanzare le proprie cause extra-metodologiche è quello di mostrare che si è giocatori probi e corretti. Che si conosce perfettamente la tecnica per dribblare un avversario, crossare a centro area, colpire di tacco. In altre parole, se la semiotica vuole salvare il mondo non lo farà con i propri proclami, ma con la propria autorevolezza. Mostrare che le proprie analisi sono ben condotte, che non commettono fallo alcuno, e che sono anche a tratti spettacolari, nel senso che consentono a chi le ammira di percepire nuovi squarci di conoscenza del reale, è l’unico modo di creare, a lungo termine, una nuova comunità non solo di gioco, ma anche di fede, la quale tuttavia si distingue dal primo perché non può esserne lo sbocco. Si continui dunque a utilizzare la semiotica per le cause che si ritengono

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giuste, dalla parità di genere alla difesa dei diritti degli animali, ma ben sapendo che studi tendenziosi, fallaci, o semplicemente noiosi non faranno progredire i nostri piani etici, anzi, spesso inciteranno chi è neutrale a vedere con sfavore la nostra parte.

8. Conclusioni.

Il gioco è bello quando dura poco, dice il detto un po’ noiosamente. Si può trarne però, metaforicamente, una lezione utile. Sarebbe insensato pensare che il gioco suggerito dal metodo semiotico debba estendersi al di là di ogni confine, valicando le frontiere delle aule universitarie, dei corsi di studio, delle comunità scientifiche, fino ad affermarsi come episteme generalizzata di un’intera comunità. Sono destinati ad amare disillusioni quei semiotici che credono e combattono per la formazione di una “res publica semiotica”, così come ebbero a disilludersi, da tempi immemorabili, coloro che credettero che il mondo potesse essere retto dai filosofi, o dagli artisti. In realtà, chi metta appena la punta del naso fuori da un’aula universitaria, sa che vi si trovano illogicità spesso tragiche e violente, le quali sfuggono a ogni presa razionale. Un’aula universitaria è l’equivalente laico di un tempio religioco proprio perché al suo interno, se se ne rispetta la vocazione, si compie il più alto sforzo per contrastare l’entropia naturale delle relazioni sociali, la prevaricazione del più forte sul più debole, la selezione naturale. Siamo così civilizzati, in un’aula universitaria, che possiamo concederci il lusso di far sopravvivere teorie false, o perlomeno inutili. Ma sarebbe insulso pensare che al di fuori l’ontologia del reale non selezioni con pragmatismo questo o quel concetto, questo o quel costrutto, e non sulla base dell’idea filosofica di verità, ma su quella retorica di efficacia, o persino di forza. Ecco perché è sì necessario condurre il gioco a perfezione, ma pur sempre senza fare l’errore del pugile che, in una rissa da bar, creda di poter far valere le stesse regole che vigono sul ring. L’esercizio della ragionevolezza interpretativa che è a

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fondamento della semiotica è messo a dura prova, oggi, nel mondo che circonda e sempre più assedia le università. L’insensatezza, o quella che ci pare tale dal nostro punto di vista interno al gioco delle interpretazioni ragionevoli, dilaga ovunque. Non ci resta che resistere, con la fragile resistenza del vetro, difendendo il nostro campo di gioco, sperando in rivolgimenti più favorevoli, tramandando il gusto e le mosse del fair play interpretativo.

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