• Non ci sono risultati.

L'eleos in Aristotele: pietà o compassione?

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'eleos in Aristotele: pietà o compassione?"

Copied!
120
0
0

Testo completo

(1)

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

“L’ELEOS IN ARISTOTELE: PIETA’ O COMPASSIONE?”

RELATORE

Prof.ssa Alessandra Fussi

CORRELATORE

Prof.ssa Maria Michela Sassi

CANDIDATO

Maria Stella Sorbi

(2)

INDICE

INTRODUZIONE I CAPITOLO I

Le emozioni nell’Etica Nicomachea e nella Retorica di Aristotele

- Le emozioni nel pensiero aristotelico: Etica Nicomachea 1

- Le emozioni nel pensiero aristotelico: Retorica 16

CAPITOLO II L’eleos nella Retorica e nella Poetica - L’eleos nella Retorica: definizione, fenomenologia e relazione con altre emozioni 29

- L’eleos nella Poetica: la relazione con il phobos nella rappresentazione tragica 46

CAPITOLO III Moralità ed estetica dell’eleos nel pensiero aristotelico - Eleos e piacere nella Poetica: la teoria aristotelica della mimesis tragica 56

- Eleos e valore morale: pietà o compassione? 72

CAPITOLO IV Martha C. Nussbaum: l’eleos aristotelico come compassione - Il neoaristotelismo di Nussbaum: pensiero etico e teoria delle emozioni 82

- Eleos come compassione 91

CONCLUSIONI 109

(3)

INTRODUZIONE

Il presente lavoro consiste in un’analisi dell’eleos nelle opere aristoteliche di Retorica e Poetica, al fine di stabilire se tale emozione, così come descritta da Aristotele, sia associabile nel contesto delle moderne classificazioni delle emozioni alla sfera della compassione o a quella della pietà. Tali emozioni nella modernità hanno acquisito precisi caratteri distintivi: la compassione è caratterizzata da una partecipazione profonda al male patito da un altro individuo e integra il forte stimolo ad agire in suo soccorso1; la pietà è caratterizzata da una natura più contemplativa, così che il soggetto si limita a valutare la condizione di svantaggio in cui si trova l’altro paragonandola alla propria che è migliore, mantenendo così una certa distanza, che si esprime finanche in una riluttanza ad essere coinvolto nella situazione2.

Al fine di dirimere la presente questione, si analizzerà la natura cognitiva del pathos aristotelico nei propri caratteri fondamentali, così come emerge nella Retorica e nella Poetica, mettendone in evidenza anche il valore estetico ed etico che Aristotele gli attribuisce in relazione alla fruizione dell’opera poetica tragica, per giungere infine alla conclusione che l’eleos aristotelico presenta una maggiore affinità con la pietà.

Partendo dalla concezione generale delle emozioni elaborata da Aristotele nell’Etica Nicomachea, e soprattutto nella Retorica, si definiranno i contorni dell’eleos in primo luogo come fenomeno emotivo, e poi come pathos specifico. Nel primo capitolo, dunque, sarà presa in esame la teoria aristotelica delle emozioni ed il ruolo che il filosofo greco assegna loro nella vita etica, in quanto elementi fondamentali di manifestazione dell’arete, definita infatti come il giusto mezzo rispetto a pathe kai praxeis3; da ciò si evince come le emozioni siano per Aristotele ben lontane dall’essere semplici affezioni ed impulsi irrazionali. Infatti, oltre

                                                                                                               

1 A. Ben-Ze’ev, The Subtlety of Emotions, MIT Press, Cambridge 2001, pp. 327-352. 2 Ibidem.

(4)

che dalle sensazioni di piacere e dolore, esse sono costituite anche da una fondamentale componente cognitiva e valutativa, e integrano al loro interno credenze e giudizi elaborati dal soggetto sugli oggetti della realtà.

Avendo definito i caratteri fondamentali dei pathe in generale, nel secondo capitolo si passerà a considerare nello specifico l’eleos così come descritto da Aristotele nella Retorica e nella Poetica: si analizzerà la definizione che il filosofo dà dell’emozione nella Retorica facendone emergere il complesso contenuto cognitivo in relazione anche al discorso retorico; in tale contesto si analizzeranno anche i rapporti con gli altri pathe, in particolare con il phobos, al quale l’eleos è associato anche come emozione tragica nella Poetica. Nel terzo capitolo si procederà all’analisi del ruolo che entrambe le emozioni svolgono nella fruizione della tragedia, allo scopo di farne emergere il valore sia estetico sia etico-morale. Queste, infatti, assumono un ruolo fondamentale all’interno della mimesis nella produzione dell’hedone cognitiva suscitata dall’opera tragica, in quanto associata all’acquisizione da parte del fruitore di conoscenze di carattere etico circa la realtà della condizione umana e la sua vulnerabilità nel mantenimento e raggiungimento dell’eudaimonia.

Alla luce di quanto emerso, si passerà a considerare il possibile rapporto che l’eleos intrattiene con le due emozioni candidate a costituirne il corrispettivo nella modernità, pietà e compassione: dall’analisi svolta emergerà che l’eleos è più vicino alla prima che alla seconda, restando legato ad una dimensione contemplativa, limitata al mero giudizio sul kakon patito dall’altro ed alla valutazione che questo possa rientrare nel proprio orizzonte di possibilità. Il contenuto cognitivo-valutativo dell’eleos-pietà infonde la consapevolezza della precarietà e vulnerabilità dell’esistenza umana, tale che ciascun individuo per quanto buono e virtuoso è esposto al rischio di non raggiungere l’eudaimonia cui aspira; questa consapevolezza emerge nella relazione comparativa tra il soggetto e l’altrui sofferenza, che si stabilisce anche nel contesto della finzione narrativa tragica, in cui il fruitore si mette in relazione con il

(5)

personaggio sulla base della percezione di una sostanziale somiglianza nel contesto di una realtà alternativa verisimile.

Essendo giunti a tale conclusione, nel quarto capitolo analizzeremo infine l’interpretazione dell’eleos aristotelico elaborata da Martha C. Nussbaum, sulla base di un pensiero etico e di una teoria delle emozioni di matrice aristotelica. Ciò che emergerà da tale analisi costituisce un’ulteriore conferma del fatto che l’emozione non può essere associata alla compassione, se non modificando la sua struttura cognitiva mediante l’inserimento di un ulteriore e diverso giudizio definito eudaimonistico, che integra il fine di agire in aiuto dell’altro, in quanto giudicato rilevante dal soggetto per la sua stessa felicità. Nonostante tale operazione miri a difendere il nucleo morale dell’emozione, essa presenta notevoli aspetti problematici che ne mettono in dubbio la validità e l’efficacia. In primo luogo per il soggetto è impossibile estendere i limiti previsti dall’emozione fino ad includere nel proprio ambito d’interesse ogni individuo sofferente; in secondo luogo rimane fondamentale il riferimento alla propria eudaimonia, che fa sì che al centro dell’interesse emotivo non vi sia il male altrui riconosciuto rilevante in quanto tale, ma ancora il sé del soggetto.

(6)

CAPITOLO I

Le emozioni nell’Etica Nicomachea e nella Retorica di Aristotele

In questo capitolo si prenderà in esame la teoria aristotelica delle emozioni contenuta nell’Etica Nicomachea e nella Retorica, ponendo attenzione al ruolo occupato dalle emozioni sia all’interno della riflessione etica nel primo trattato, sia all'interno della trattazione della techne retoriche nel secondo. A questo proposito sarà fatto riferimento alle interpretazioni date da alcuni studiosi, che hanno messo in luce le fondamentali caratteristiche dei pathe individuate da Aristotele, ovvero il contenuto e la struttura cognitivi ed il legame con la dimensione corporea, sottolineandone da una parte le implicazioni etiche in relazione alla teoria della virtù, dall’altra le potenzialità persuasive nel discorso retorico.

Le emozioni nel pensiero aristotelico: Etica Nicomachea

Nell’Etica Nicomachea troviamo una prima trattazione delle emozioni da parte di Aristotele inserita nell’ambito dell’indagine su che cosa sia la virtù, la seconda tappa di un percorso teorico che mira a definire cosa sia il sommo bene per l’uomo, il fine ultimo a cui ogni sua azione tende: tale bene che consiste nell’attività (energheia) eccellente di ciò che è proprio dell’uomo, ovvero la ragione, viene identificato con la felicità (eudaimonia) consistente, infatti, nell’“attività dell’anima secondo ragione” e nella sua eccellenza quindi “secondo virtù completa” (arete teleiotate)1. Aristotele passa, quindi, ad analizzare la virtù partendo dalla suddivisione dell’anima nelle sue due parti razionale e irrazionale: essendo la virtù eccellenza della parte razionale dell’anima, ed essendo questa divisa in due parti, una razionale in sé e l’altra razionale in quanto obbedisce alla ragione “come chi obbedisce al                                                                                                                

1 EN I, 6 1098a 16-17. Etica Nicomachea, C. Natali (a cura di), Editori Laterza, Roma-Bari 1999. La

definizione di virtù perfetta e completa ha suscitato un acceso dibattito tra gli interpreti di Aristotele e tre sono state le soluzioni adottate, riportate da Carlo Natali nella nota n. 49, p. 456: “1) la felicità è una vita secondo tutte le virtù, etiche e teoretiche; 2) vi sono due tipi di felicità, una inferiore, basata solo sulle virtù etiche, e una superiore , composta di entrambe le virtù; 3) la felicità è una vita mista ed è il fine della politica”.

(7)

padre” (EN I, 13 1103a 2), vi sono due tipologie di virtù, le virtù dianoetiche e quelle etiche: le prime, sapienza e saggezza, si acquisiscono mediante l’insegnamento e necessitano di tempo ed esperienza, le seconde, ovvero coraggio (andreia), temperanza (sophrosyne), generosità (eleutheriotes), magnificenza (megaloprepeia), magnanimità (megalopyschia), mitezza (praotes), sincerità (aletheia), arguzia (eutrapelia), amore (philia), giustizia (dikaiosyne)2, si acquisiscono mediante l’abitudine (ethos). È dunque necessario dare una definizione di virtù da cercarsi, dal momento che riguarda l’attività dell’anima, nelle cose che si generano in questa, ovvero passioni (pathe), capacità (dynameis) e stati abituali (hexeis). Aristotele definisce le prime come “tutto ciò cui fa seguito piacere e dolore” (EN II, 4 1105b 22-23), le seconde come “quelle cose in base alle quali siamo in grado di provare quelle passioni” (EN II, 4 1105b 23-24); la scelta però ricade sulla terza alternativa: la virtù è una hexis dal momento che non si viene biasimati e lodati né per le passioni che si provano né per la capacità di provare certe passioni, bensì per i propri vizi e le proprie virtù.

Le virtù sono stati abituali acquisiti al pari dei vizi, che non vengono posseduti né per natura né contro natura, ma che sono il frutto di un’attività deliberativa reiterata da parte del soggetto, che consiste cioè nello scegliere e nel compiere sempre le medesime azioni in circostanze simili, così da acquisire una disposizione stabile, appunto virtuosa o viziosa. Le virtù, perciò, possono essere acquisite solo esercitandole3, in particolare quelle morali                                                                                                                

2 Complesso è il discorso di Aristotele sulla giustizia, cui dedica l’intero libro V dell’Etica

Nicomachea: essa è definita “la virtù più eccellente, e non sono ammirate tanto quanto lei la stella della sera o la stella del mattino; citando il proverbio «Nella giustizia si riassume ogni virtù», è virtù completa soprattutto perché è attuazione della virtù completa, ed è completa dato che colui che la possiede è capace di servirsi della virtù anche nei riguardi del prossimo, e non solo in relazione a se stesso” (EN V, 3 1129b 28-34). La giustizia è caratterizzata in senso fortemente intersoggettivo da Aristotele che distingue tra una giustizia in senso ampio, che consiste, infatti, nel comportarsi nelle relazioni interpersonali e sociali seguendo tutte le virtù, ed una in senso ristretto relativa più specificamente alla distribuzione di beni e onori all’interno della comunità politica. Ciò avviene in base ad un’uguaglianza proporzionale sulla base del merito di ciascuno, la quale si distingue da un’uguaglianza di tipo aritmetico, e può essere corretta mediante il principio dell’equità.

3 Il paragone che viene riportato da Aristotele è con la techne come quella di costruttori o citaristi, che

imparano a costruire e a suonare la cetra unicamente mediante l’esercizio; vi è però una grande differenza con la virtù, ossia mentre la techne prevede la capacità di opposti, per cui una volta acquisita si può decidere se esercitarla o meno e se farlo in vista di un bene o di un male, la virtù una

(8)

necessitano oltre che della comprensione intellettuale come quelle dianoetiche, anche della pratica in una progressiva educazione dell’anima a seguire la ragione, allineando così anche la parte sensitiva irrazionale ai dettami razionali. Tale processo educativo mira al principio del giusto mezzo:

“La virtù verrà ad essere ciò che tende al giusto mezzo. Sto parlando della virtù morale: essa, infatti, riguarda le passioni e le azioni, ed è in queste che si danno eccesso, difetto e giusto mezzo […]. Quindi la virtù è lo stato abituale che produce scelte, consistente in una medietà rispetto a noi, determinato razionalmente, e come verrebbe a determinarlo l’uomo saggio, medietà tra due mali, l’uno secondo l’eccesso e l’altro secondo il difetto”. (EN II, 5-6 1106b 15-1107a 3)

Il giusto mezzo a cui le virtù etiche mirano, consiste, dunque, nell’evitare gli eccessi sia rispetto alle emozioni sia rispetto alle azioni, si tratta cioè di acquisire la giusta misura nell’agire e nel sentire mirando all’equilibrio in ogni circostanza.

Da questa definizione data da Aristotele, è possibile vedere come il filosofo includa nell’ambito della virtù non solo le azioni, ma anche le emozioni; le virtù morali, infatti, non prevedono solo modi di agire opportuni ed equilibrati in relazione alle circostanze, ma anche modi di sentire adeguati rispetto ad esse. Si tratta perciò di educare anche l’anima appetitiva e desiderante, quella che determina l’attaccamento alle cose della vita che vengono rivestite d’importanza e valore, alla comprensione non solo intellettuale ma anche affettiva del “che”. Come spiega Burnyeat, il “che” consiste nella conoscenza e comprensione di ciò che è nobile e giusto, un prerequisito necessario per avviarsi alla conoscenza del “perché” e seguire il percorso educativo delineato da Aristotele nel trattato, che mira all’acquisizione della saggezza pratica e dunque alla capacità di sapere cosa è meglio fare nelle diverse circostanze

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

volta assimilata spinge sempre ad agire in vista del bene. Cfr. B. Williams Acting as the Virtuous Person Acts, in M. Burnyeat (edito da), The Sense of the Past. Essays in the History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton 2006, pp. 190-191: “two considerations that distinguish a virtue from a techne: that one cannot choose to exercise it or not, and (a less familiar thought, perhaps) that it counts against one’s having virtues that one can be distracted by passion from exercising them, whereas this is not so with the technai: a carpenter who makes a bad job of it because of rage or sexual distraction is not shown by this to be a bad carpenter”.

(9)

della vita4. Il “che”, tuttavia, non va solo compreso, ma è necessario anche averlo caro, e per fare ciò la modalità educativa migliore in relazione alle virtù morali è l’abitudine: se induzione e intuizione intellettuale o percettiva sono modalità di apprendimento valide per i principi prettamente intellettuali, la comprensione di ciò che è nobile e giusto passa attraverso l’agire e dunque attraverso il compimento di azioni nobili e giuste. Ciò, tuttavia, non deve indurre a pensare che nell’ethos non vi sia coinvolta alcuna componente cognitiva: la virtù morale include una piena comprensione di ciò che si sta compiendo, una consapevolezza del “ che” che ne costituisce un requisito fondamentale insieme allo scegliere l’atto per se stesso e non in vista di altro5, ed al fatto che questo deve essere il frutto di una disposizione salda ed immutabile.

Se a quest’ultimo aspetto si è già fatto riferimento guardando alla definizione di virtù                                                                                                                

4 M.F. Burnyeat, Aristotle on Learning to Be Good, in A. Oksenberg Rorty (edito da), Essays on

Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1980, pp. 69-92; egli sottolinea come la concezione aristotelica sia in netto contrasto con l’intellettualismo etico socratico, pp. 70-71: “Aristotle knew intellectualism in the from of Socrates’s doctrine that virtue is knowledge. He reacted by emphasizing the importance of beginning and the gradual development of good habits of feeling. (…) What is exemplary in Aristotle is his grasp of the truth that morality comes in a sequence of stages with both cognitive and emotional dimensions”. Non basta dunque sapere che cosa è il bene per farlo, lo si deve anche avere caro, ecco perché Aristotele non si riduce nell’Etica Nicomachea a dare precetti da comprendere intellettivamente, ma indica la strada per completare l’educazione alla virtù mediante l’interiorizzazione di un atteggiamento valutativo stabile che passa anche attraverso l’agire (praxis); nel fare ciò prospetta anche una dinamica intrapsichica conflittuale, che si delinea in un primo momento come autodominio rispetto ai propri impulsi e solo successivamente come vera e propria virtù ormai stabile. Burnyeat, inoltre, sottolinea la connessione con la teoria platonica dell’anima contenuta nel IV libro della Repubblica, in cui Platone affronta la questione dell’educazione della parte intermedia dell’anima, corrispondente nell’analogia con la città, alla classe dei guerrieri. La parte intermedia è quella thymoidetica, in cui hanno sede pathe come ira, vergogna e indignazione, che è necessario sottoporre al controllo della ragione mediante un’adeguata e tempestiva educazione, dal momento che tale parte animosa si sviluppa nei giovani ben prima della ragione: “anche nei bambini si potrebbe notare che fino dalla nascita sono pieni d’animo, ma in quanto alla ragione, taluni di essi, a mio parere, ne sono totalmente privi, i più ne acquisiscono col tempo” (Rep. IV, 441a 7-8).

5 Le considerazioni di Bernard Williams in Acting as the Virtuous Person Acts, op.cit., p. 193,

riguardo questa seconda condizione della virtù mettono in luce alcuni aspetti a prima vista poco chiari del pensiero aristotelico: Aristotele sostiene che ogni azione virtuosa deve essere scelta di per sé, in quanto espressione del kalon, e non in vista di altro; prendendo però in esame ad esempio generosità e giustizia, la scelta di compiere un atto generoso e quella di compiere un atto giusto non si configurano nello stesso modo: mentre è possibile dire di compiere una certa azione perché è giusta, e quindi sceglierla in vista della virtù di cui è manifestazione e del kalon, affermare di compiere un’azione generosa in quanto generosa contrasta con quello che dovrebbe essere lo spirito della virtù stessa, ossia rivolgere la propria attenzione al bisogno altrui.

(10)

come hexis, gli altri requisiti meritano un’analisi più approfondita, anche in relazione al legame con le emozioni: le azioni nobili conformi ad una certa virtù morale devono essere compiute sulla base di una scelta pienamente consapevole (proairesis), che Aristotele distingue nettamente dal desiderio, dall’impulso, dal volere e dall’opinione6: essa è il frutto di un processo deliberativo (boule) e costituisce una scelta razionale pratica, ossia improntata ad un agire possibile in vista di un fine già “deliberato e desiderato [così che] anche la scelta viene ad essere un desiderio deliberato di ciò che dipende da noi” (EN III, 5 1113a 11-12). Nel caso della virtù, quindi, si tratta di scegliere di compiere un’azione sulla base non di un desiderio, di un impulso immediato o di una semplice opinione di ciò che è giusto, ma della piena comprensione ed in vista di ciò che è il vero bene. La scelta di compiere una qualsiasi azione virtuosa mira ad un fine che consiste nella virtù stessa, ma contemporaneamente anche nel bene supremo che è l’eudaimonia7. Da ciò emerge come la scelta di compiere una certa azione virtuosa sia determinata non solo dall’essere espressione di quella data virtù, ma anche                                                                                                                

6 Tali distinzioni operate da Aristotele sono necessarie per definire la proairesis come scelta pratica e

razionale: essa non è un desiderio dal momento che è facile constatare come anche gli animali agiscano sulla base di desideri corporei senza coinvolgere peró alcun processo razionale; inoltre come è possibile vedere nel caso dell’individuo akratos, costui agisce spinto dal desiderio, mentre l’uomo che sa controllarsi ed esercitare una forma di autodominio agisce contro il desiderio, per cui risulta evidente che scelta e desiderio sono due principi non coincidenti. A questo proposito Aristotele sostiene che mentre il desiderio si rivolge al fine, la scelta riguarda i mezzi per raggiungerlo, cosa che può suscitare qualche perplessità, in quanto è possibile deliberare anche sul fine da raggiungere; tuttavia il filosofo considera il fine come dato e limita la deliberazione ai mezzi, così che questa si configura come una sorta di ricerca (zetesis) di questi. La scelta si distingue anche dall’opinione, sebbene sia possibile pensare che una scelta possa basarsi su un’opinione; ciò è dimostrato dal fatto che, mentre l’avere una certa opinione, se inespressa, non influisce sul mondo esterno, ma resta confinata all’ambito del pensiero, la scelta è relativa sempre ad un’azione, che invece ha delle conseguenze nel mondo, per cui è possibile esprimere un giudizio su di essa e sul fatto che sia espressione di una virtù o di un vizio del soggetto agente; Aristotele, infatti, dice che “vi è chi ha opinioni notevolmente buone, ma a causa dei suoi vizi, sceglie ciò che non deve” (EN III, 4 1112a 10-11). La scelta si distingue poi dal semplice volere, perché, mentre è possibile volere anche cose irrealizzabili, la scelta riguarda sempre solo ciò che è in nostro potere compiere.

7 Cfr. J.L. Ackrill Aristotle on Eudaimonia, in A. Oksenberg Rorty (edito da), Essays on Aristotle’s

Ethics, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1980, pp. 15-33: egli interpreta l’eudaimonia in senso inclusivo, ossia tutti i fini intermedi a cui gli individui mirano con le loro azioni non sono sottoposti gerarchicamente al fine ultimo, limitandosi ad esserne dei meri mezzi, ma ne sono parti costitutive; sebbene alcune cose possano essere scelte di volta in volta di per se stesse come le virtù ed il piacere, tuttavia ciò non esclude che nello stesso tempo vadano a costituire la felicità, il fine ultimo, che in quanto energheia, rappresenta un processo che mai si conclude, ma che si esplica nella costante progettualità ed attività rivolta alla piena realizzazione di sé.  

(11)

dall’intima convinzione che sia manifestazione di ciò che è richiesto dalla virtù in generale, ossia di ciò che è nobile e giusto. Richard Sorabji sostiene: “The man who chooses to do the virtuous act for its own sake may choose it not because it is required by some particular virtue, such as courage, but because it is required by virtue in general”8. Egli sottolinea come l’intelletto sia coinvolto sotto diversi punti di vista nel processo di acquisizione della virtù e nelle manifestazioni della virtù acquisita, da una parte nel processo della proairesis, e dall’altra nello stretto legame che intercorre tra le virtù morali e la virtù intellettiva della phronesis, la saggezza pratica: essa non consiste solo nella conoscenza di ciò che deve essere fatto in ogni situazione particolare, ma coinvolge anche considerazioni di natura universale, ovvero la concezione di ciò in cui consiste il bene più alto9.

Dopo aver analizzato i tratti caratteristici che Aristotele attribuisce alla virtù, in particolare facendo riferimento al suo stretto legame con la sfera razionale, possiamo passare all’analisi delle emozioni, che come abbiamo visto rientrano direttamente nella trattazione delle virtù morali, essendo queste disposizioni stabili del soggetto non solo rispetto all'agire, ma anche rispetto alle emozioni provate (pathe kai praxeis)10. Iniziando da un’analisi terminologica, si                                                                                                                

8 R. Sorabji, Aristotle on the Role of Intellect in Virtue, in A. Oksenberg Rorty (edito da), Essays on

Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1980, p. 203.

9 Ivi, p. 207: “The mark at which the man of practical wisdom looks is, presumably, his conception of

the best (to ariston), at which he said to aim (1141 b12-14) and from which his reasoning is said to start (1144a 31-33). […] For this helps to explain the statement that as soon as we have practical wisdom, we must have all the virtues togheter, not merely some of them (6.13. 1144 b32-1145 a2)”. Prendendo come esempio la virtù del coraggio, egli sottolinea come la scelta di compiere un’azione coraggiosa dipenda non solo dalla concezione di ciò che il coraggio richiede, ma dato che questo si manifesta non nell’affrontare ogni pericolo in ogni circostanza, bensì il giusto pericolo per la giusta motivazione, esso coinvolge considerazioni relative ad altre virtù come la giustizia ed al tipo di vita cui aspiriamo. Ibidem: “so we cannot know what courage requires of us now whitout knowing what the good life in general requires”. Cfr. B. Williams, Acting as the Virtuous Person Acts, op. cit.: rispetto alla problematica questione dell’unità della virtù, anche Williams si è espresso notando come risulti difficile distinguere le diverse virtù, sia affermando che tutte mirano al kalon, o al fine ultimo, mediante l’attività deliberativa virtuosa, sia che siano espressione dell’unica virtù della phronesis. Egli afferma che la scelta da parte del soggetto di compiere una certa azione virtuosa implica una serie di pensieri che non si riducono al fatto che quell’azione sia manifestazione di una virtù specifica; tuttavia, certamente essi sono tutti espressione della disposizione virtuosa del soggetto, che implica il possesso della phronesis e l’attaccamento al kalon: la phronesis, infatti, è necessaria per ordinare e guidare i pensieri implicati nella scelta dell’azione.

(12)

nota che il termine greco con cui il filosofo indica le emozioni è pathe, che legato etimologicamente al verbo paschein, “subire”, “patire”, indica qualcosa rispetto al quale si è passivi. Fin dall’etimologia, dunque, la passività appare essere l'elemento caratteristico delle emozioni provate dal soggetto, che infatti “viene mosso” (kineisthai) da esse, escludendo a prima vista qualsiasi possibilità di scelta su che cosa provare verso cose, persone e circostanze. A conferma di questo Aristotele sottolinea, infatti, come non si venga lodati o biasimati per ciò che si prova, o per ciò che si possiede per natura come le capacità, ma per i propri vizi e le proprie virtù, di cui si è pienamente responsabili.

Da questa descrizione emerge un'immagine delle emozioni che facilmente indurrebbe ad identificarle con meri impulsi ed affezioni privi di qualunque legame con la ragione, rispetto ai quali il soggetto è costretto in uno stato di passività. A sostegno di questo quadro vi è l’inserimento nell’elenco dei pathe dell’epithymia11, ovvero del desiderio appetitivo che rientra propriamente nell’anima irrazionale esclusa dall’ambito della boule e della proairesis. Come sottolineato da David Konstan, la relazione istituita tra pathe ed epithymia risulta assai problematica, ma permette di mettere in luce alcune caratteristiche distintive delle emozioni fondamentali per comprenderne la reale natura12: dal momento che l’epithymia indica i desideri e gli appetiti legati al corpo non sottoposti direttamente al controllo della ragione, come la sete e la fame, anche i pathe rischiano di apparire accomunati ad essi ed alla mancanza di attività deliberativa, escludendoli dalla sfera di responsabilità del soggetto. Come gli appetiti, infatti, i pathe sono sempre accompagnati da piacere e dolore, elementi che li legano irrimediabilmente alla sfera corporea, ma nonostante questi tratti di somiglianza, le                                                                                                                

11 EN II, 4 1105b 21-23.  

12 D. Konstan, The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature,

University of Toronto Press, Toronto 2001, p. 39. Cfr. S. Gastaldi, Aristotele e la politica delle passioni. Retorica, psicologia ed etica dei comportamenti emozionali, Tirrenia Stampatori, Torino 1990, pp. 3-10: Gastaldi mette in luce il legame dinamico che intercorre tra epithymia ed emozioni, ossia come la presenza o la frustrazione di certi appetiti o desideri corporei possa causare l’insorgere di determinate emozioni.  

(13)

emozioni risultano molto più complesse nella relazione che il soggetto instaura con le cose della realtà; infatti l’appetito assomiglia molto di più ad un mero impulso corporeo che manifesta un attaccamento spontaneo e irrazionale al piacere, le emozioni, invece, manifestano un legame con la sfera razionale coinvolgendo credenze e valutazioni rispetto alle cose e alle persone con cui il soggetto si relaziona, attribuendo ad esse valore ed importanza per la propria esistenza.

Sebbene, dunque, risulti già più comprensibile il motivo per cui le emozioni rientrano nell’ambito della virtù, dal momento che integrano elementi di natura cognitiva, si pone la questione di come conciliare la virtù, in quanto frutto di un processo deliberativo, ed elementi in apparenza contraddistinti da passività. Kosman suggerisce un'interpretazione di questa questione tale da accordare questi due aspetti che appaiono in contraddizione, sottolineando come le emozioni inglobino elementi di razionalità proprio in quanto inserite nella sfera di scelta e responsabilità del soggetto. La virtù, afferma Kosman, si esprime in un “acting well” ma anche in un “feeling well” 13 , il che consiste, in accordo con la teoria del giusto mezzo aristotelica, nel provare la giusta emozione, nella giusta misura e nei giusti tempi e modalità. L’interpretazione di Kosman coglie il legame che intercorre tra le azioni scelte, il carattere come frutto di tali scelte e la predisposizione a provare certe emozioni. Scegliendo di agire in un dato modo in determinate circostanze, il soggetto forma progressivamente il proprio carattere, e dunque anche la predisposizione a provare le emozioni che si accompagnano a quelle stesse azioni e circostanze. Sulla base di questo ragionamento, che ben si concilia con il pensiero aristotelico, le emozioni sono quindi parte fondamentale della vita etica ed elementi che rientrano nella sfera di responsabilità dell’individuo. Ciò si unisce, infatti, a quanto affermato da Aristotele riguardo alla responsabilità che ciascuno ha rispetto al proprio carattere virtuoso o vizioso:

                                                                                                               

13 L.A. Kosman, Being Properly Affected: Virtues and Feelings in Aristotle’s Ethics in A. Oksenberg

Rorty (edito da), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1980, p. 105.  

(14)

“Se quindi dipende da noi compiere le azioni belle e le azioni turpi, e allo stesso modo anche il non compierle […] dipenderà da noi essere persone dabbene o dappoco. […] Perciò si danno punizioni anche per l’ignoranza, quando uno sembri colpevole della sua ignoranza, per esempio nel caso degli ubriachi le punizioni sono doppie. Infatti il principio è nell’ubriaco: era padrone di non ubriacarsi, ed è questa la causa dell’ignoranza. Si puniscono anche quelli che ignorano qualche punto della legge […] dato che era in loro potere il prendersene cura. «Ma forse è una persona tale, da non curarsi di quelle cose». Eppure del divenire persone di quel genere sono essi stessi la causa, per la loro vita disorganizzata, e sono causa anche del loro essere ingiusti e intemperanti […] le attività compiute di volta in volta li rendono tali” (EN III 7, 1113b 11-1114a 8).

La hexis virtuosa o viziosa possiamo sostenere a buon diritto che si esprime nel provare in modo corretto o meno emozioni in relazione alle diverse circostanze, inglobando quell’elemento di spontaneità proprio dell’insorgere delle emozioni di fronte al loro oggetto; la virtù in quanto hexis si discosta, infatti, in maniera netta da quella condizione che si può definire di autocontrollo, che rappresenta lo stadio iniziale del processo di acquisizione della virtù, in cui il soggetto si sforza dolorosamente di compiere determinate azioni in contrasto con i propri impulsi e desideri, e che via via in forza dell’abitudine si trasforma da ultimo in una disposizione stabile, grazie alla quale quelle azioni un tempo dolorose vengono infine compiute spontaneamente e piacevolmente. Il piacere, infatti, afferma Aristotele, è segno della virtù, così che compiere azioni belle e provare emozioni in linea con essa risulta non solo facile, ma addirittura piacevole. Questo piacere che si accompagna all’agire e al sentire, è espressione di un equilibrio intrapsichico ormai consolidato e che è frutto di un processo di cui il soggetto è pienamente responsabile, così che la persona virtuosa si può dire responsabile del suo carattere virtuoso e delle emozioni che è incline a provare; come tale essa non è mai preda delle emozioni nel momento in cui le prova, ma al contrario di chi è vizioso, sente emozioni in modo adeguato esprimendo un giusto equilibrio tra la ragione e la propria parte affettiva dell’anima, rapportandosi in modo adeguato alla situazione specifica, nella giusta misura e per i giusti motivi. Se da una parte la hexis virtuosa si manifesta nel provare adeguatamente le giuste emozioni in rapporto alle giuste circostanze, dall’altra tale equilibrio tra la ragione e la parte affettiva dell’anima si rivela anche nell’assoluta mancanza

(15)

d’inclinazione a compiere certe azioni e a provare determinate emozioni, di cui non si dà alcun giusto mezzo:

“non ogni azione né ogni passione accoglie la medietà. Alcune infatti hanno nomi che le connettono strettamente alla cattiveria, come ad esempio malevolenza, impudenza, invidia e, tra le azioni, adulterio, furo, omicidio. Infatti, tutte queste cose, e quelle simili, sono biasimate per essere ignobili esse stesse, e non i loro eccessi né i loro difetti” (EN II, 6 1107a 9-11).

Ad esempio prendendo in esame la virtù della praotes che è definita giusto mezzo rispetto all’ira, questa si esprimerà nell’adirarsi nel momento adatto, per i giusti motivi riguardo a cose o persone adeguate, per il fine e nel modo giusti; se invece si considera l’invidia, guardando la definizione che Aristotele ne dà nella Retorica, ossia “una forma di dolore di fronte alla vista della buona fortuna in relazione ai beni di cui si è detto e a proposito di persone di pari condizione, non per ottenere essi stessi qualcosa, ma solo a causa di costoro” (Rhet. II, 10 1387b), è possibile vedere come essa non abbia alcun legame con il bene proprio o altrui, così che non può rientrare in alcun modo nell’ambito della virtù.

A proposito del legame che intercorre tra hexeis, pathe e praxeis, vale la pena approfondire il ruolo che l’educazione ha nella formazione degli stati abituali virtuosi. In relazione alla necessità di educare i giovani Martha Nussbaum afferma: “They need to be educated and brought into harmony with a correct view of the good human life”14, e dato che le emozioni sono “forces motivating to virtuous action […] and recognitions of truth and value”15, in primis l’educazione alla virtù fa sì che la persona educhi la propria parte affettiva portandola in armonia con la ragione, così da acquisire i corretti strumenti di lettura e significazione della realtà in base a cui agire. Le emozioni sono per Nussbaum i mezzi con cui vengono attribuiti significato e rilevanza alle cose del mondo in relazione alla propria esistenza, sono strumenti di interpretazione del reale e di riconoscimento del valore; una volta                                                                                                                

14 M.C. Nussbaum, Aristotle on Emotions and Rational Persuasion, in A. Oksenberg Rorty (edito da),

Essays on Aristotle’s Rhetoric, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1996, p. 316.

(16)

acquisiti tali strumenti di pari passo con il processo di sviluppo della virtù, si diviene in grado di agire conformemente ad essi. Il virtuoso sviluppa un’ottima capacità di giudizio della realtà non solo razionale ma anche affettiva, sa attribuire il giusto valore alle cose e sa come in conformità a questo valore sia meglio agire. Lo sviluppo della hexis virtuosa consiste, dunque, nel possesso stabile dei giusti strumenti d’interpretazione e valutazione del reale che si accompagnano ad una altrettanto ben formata capacità di giudizio razionale, su cui poi fondare il buon agire.

Il modello da seguire in questo processo educativo è quello dell’uomo eccellente che, afferma Aristotele, “giudica ogni cosa in modo corretto, e a lui appare evidente la verità in ogni singolo caso […] si distingue soprattutto per il fatto di vedere il vero nei singoli casi, ed essere come un canone e un’unità di misura” (EN III, 6 1113a 29-34).

Il processo di acquisizione della virtù non consiste nell’apprendimento di concetti od abitudini imposte, ma nell’assimilazione graduale e profonda di un modus vivendi che porta come risultato finale a quel flourishing, per dirlo con le parole di Nussbaum, che consiste nella completa realizzazione di sé, di tutti i propri talenti e potenzialità. Ciò oltre alla mera comprensione necessita anche della praxis, non è possibile, infatti, alcun ammaestramento mediante le sole parole16, è indispensabile anche la messa in pratica degli insegnamenti; solo

l’agire permette una piena assimilazione del “to hoti” (EN I, 2 1095b 6), mentre le parole possono contribuire alla comprensione del “dioti” (EN I, 2 1095b 7) solo a seguito di una già avvenuta acquisizione dello stato abituale virtuoso17. Aristotele, dunque, è in questa prospettiva che vuole realizzare nell’Etica Nicomachea la spiegazione del “perché” rivolgendosi a coloro che già hanno assimilato il “che” e devono solo accingersi a                                                                                                                

16 Cfr. C. Rapp, L’arte di suscitare le emozioni nella Retorica di Aristotele, in «Acta Philosophica», II

(2005), n. 14, tr. di M. Solinas e L. Tuninetti, pp. 313-326. A questo proposito si può sostenere come l’analisi condotta da Aristotele nella Retorica riguardo al discorso retorico non abbia come fine alcun ammaestramento morale, tuttavia è possibile riscontrare il forte legame che intercorre tra quanto sostenuto nell’Etica Nicomachea, ed il contenuto della Retorica in relazione al contesto politico, dal momento che sia educazione che retorica sono fortemente legate alla dimensione della polis.

(17)

comprenderne la ragione intima, così che possano consolidare la propria educazione e rafforzare quella volontà che li spinge a perseguire la virtù, rendendola pienamente consapevole. L’attaccamento alla virtù che Aristotele dà qui per presupposto, è il risultato di un’educazione pregressa e fondamentale, dal momento che imposta in maniera abbastanza definitiva le linee guida dell’esistenza di un individuo; affinché tra queste sia compresa anche la virtù è necessario che quello sia stato fin da principio adeguatamente educato ricevendo i giusti insegnamenti in un ambiente formativo favorevole.

Esiste, perciò, certamente un forte legame tra l’educazione e la vita buona, a cui l’uomo deve aspirare per raggiungere la sua eudaimonia, ma le condizioni iniziali per le quali questo possa avvenire sono in gran parte dettate dalla tyche, la sorte; questa gioca un ruolo fondamentale nell’esistenza e può influenzare fortemente fin da principio lo sviluppo dell’intera personalità di un individuo, nonchè il suo intero percorso di vita esponendone l’esistenza a rischi e pericoli, che possono modificarne profondamente il carattere per quanto stabilmente formato. Martha Nussbaum mette in luce questo ruolo fondamentale della sorte, sottolineando come le emozioni siano reazioni del soggetto alle proprie zone di vulnerabilità, in relazione a tutte quelle cose che non possono essere sottoposte al suo completo e diretto controllo, come le azioni compiute da altri od accadimenti casuali o inevitabili18.

In questa esistenza così fragile e precaria il modello da seguire a fini educativi è, come già accennato, quello del saggio, che consapevole proprio di questa fragilità sa dare maggior valore alle cose che possiede e che costituiscono a buon diritto la sua eudaimonia. Il saggio è colui che possiede la phronesis, la saggezza che rientra tra le virtù dianoetiche insieme alla sophia, trattate nel libro VI dell’Etica Nicomachea. Aristotele distingue il sapere teorico da                                                                                                                

18 Cfr. M.C. Nussbaum, The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and

Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1986, tr. di R. Scognamiglio: La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Società editrice il Mulino, Bologna 2004. In questo libro la filosofa svolge un’indagine approfondita sul ruolo giocato dalla sorte nell’esistenza umana analizzando l’aspirazione del pensiero etico greco a liberare la vita eccellente dall’influenza della tyche valorizzando il controllo esercitato dalla ragione.

(18)

quello pratico: il primo appartenente alla parte propriamente razionale dell’anima, segue solo la logica indipendentemente dal sentire emotivo, e non determina in alcun modo l’agire pratico; il secondo invece è fortemente legato ad entrambe le sfere che costituiscono la vita etica. Aristotele definisce la phronesis come “uno stato abituale unito a ragionamento vero, relativo ai beni umani, pratico” (EN VI, 5 1140b 20) e che “riguarda le cose umane e quelle su cui è possibile deliberare, infatti, diciamo che l’attività tipica del saggio è soprattutto questa, il ben deliberare” (EN VI, 8 1141b 8-10). Egli è dotato della capacità di individuare il kalon in ogni situazione dal momento che ha sviluppato la capacità percettiva che si distingue da quella dei sensibili propri, ma è più affine a quella della matematica: essa coglie ciò che è ultimo (eschaton) dato che questo è oggetto della prassi, coglie cioè il particolare, la singola circostanza a cui adeguare la giusta reazione emotiva e la giusta azione. Tale operazione viene effettuata dal nous deputato alla conoscenza intuitiva immediata, in questo caso pratica; esso riesce a vedere “il particolare alla luce del fine”19. Tale capacità in unione con quella deliberativa fa sì che il ragionamento pratico sia corretto e adeguato al caso particolare.

Il sapere pratico tuttavia, non si riduce al saper ben deliberare sulla base dell’intuizione immediata del kalon nella situazione specifica, ma coinvolge anche il desiderio (orexis) e quella parte affettiva dell’anima che viene accolta nella sfera razionale. La virtù afferma Aristotele “è uno stato abituale che produce scelte e la scelta è un desiderio deliberato, proprio per questo se la scelta è la migliore, il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto” (EN VI, 2 1139a 23-26). Perché ciò avvenga il ragionamento e il desiderio, e dunque la scelta, devono essere rivolti al bene umano, dato che chi è saggio conosce in cosa esso consiste e lo sa anche realizzare: “sembra quindi che la caratteristica propria del saggio sia la capacità di ben deliberare su ciò che è bene e utile per lui, non negli ambiti particolari, come ciò che lo è per la salute o per il vigore fisico, ma in ciò che lo è per la vita buona in generale” (EN VI, 5 1140a 25-27).

                                                                                                               

(19)

Il saggio, dunque, sa cos’è la virtù e la mette in pratica e lo fa perché desidera farlo, mostrando un’armonia tra la parte razionale e irrazionale dell’anima, che è portata mediante quel processo educativo iniziato prontamente dalle prime fasi della crescita a conformarsi ai dettami razionali, sviluppando cioè la capacità di sentire le giuste emozioni rispetto alle cose giuste e ad agire nel modo adeguato per perseguire ciò che è conosciuto correttamente come il bene particolare in vista di quello generale.

Di contro alla virtù del saggio vi è l’individuo vizioso, che ha acquisito una hexis che esattamente all’opposto della virtù, non consiste né nel provare le emozioni adeguate, né nel compiere le giuste azioni, ma nel cadere nell’eccesso o nel difetto rispetto a queste; egli è cieco rispetto al kalon e perciò mira a raggiungere un fine consistente necessariamente in un bene distorto e solo apparente. Oltre a virtù e vizi vi sono poi due casi descritti da Aristotele in cui si prefigura un conflitto interiore: l’autodominio (enkrateia) e l’incapacità di dominarsi (akrasia). Tale conflittualità interna all’anima viene prevista dal filosofo già a livello strutturale, dal momento che questa è divisa in due parti, ma si esprime poi nel processo proairetico in relazione a piaceri e dolori: “Ora è chiaro che quelli che sanno dominarsi e sopportare pazientemente, e allo stesso modo quelli che non si dominano e sono deboli di carattere, lo sono riguardo piaceri e dolori” (EN VII, 6 1147b 22-23); tra questi rientrano non solo i piaceri dei sensi, ma anche desideri come onore, fama e ricchezza. La proairesis che vediamo coinvolta nelle disposizioni virtuose, è la parte finale del processo deliberativo volto alla ricerca dei mezzi idonei a raggiungere il fine, che può essere stabilito dalla volontà (boulesis) che guarda al proprio bene, o dal desiderio (epithymia) che invece è rivolto al piacere. Il desiderio che mira al piacere è il motore che spinge ad agire l’individuo akratico che non riesce a dominare i propri impulsi e desideri a causa dell’assenza della fondamentale mediazione dell’intelletto, che gli permetterebbe di raggiungere il giusto equilibrio rispetto ai piaceri a cui tende, senza sfociare nell’eccesso. Chi invece si trova in una condizione di

(20)

autodominio agisce contro i propri impulsi e desideri, ed evita con dolore di compiere quelle azioni che lo porterebbero a raggiungere un fine piacevole. Le azioni virtuose, al contrario, sono compiute con piacere20 e sono frutto di una disposizione stabile rivolta al bene, mentre quelle dell’individuo vizioso sono poste al servizio di un qualche desiderio predominante, che mira al piacere o all’onore. I modi di vita citati da Aristotele, con cui la massa identifica la felicità, sono infatti due, quello votato al piacere dei sensi, e quello politico che mira all’onore; l’unico vero modo di vivere però, che si identifica con l’eudaimonia, è quello teorico che corrisponde alla vita dell’intelletto, ossia allo sviluppo della propria natura razionale in tutte le sue potenzialità. Questi tre modi vivendi corrispondono a tre stati abituali, ovvero a disposizioni del carattere che orientano l’agire deliberato dell’individuo sempre verso quell’unico obiettivo. Per fare, dunque, in modo che il soggetto sia portato a scegliere costantemente in vista del bene ed un modo di vita virtuoso, è necessaria un’educazione adeguata che regolamenti ed ordini i desideri dell’anima ponendo al vertice il bene. Akrasia ed enkrateia sono il risultato, infatti, della mancata educazione della parte sensitiva, che costringe l’individuo a vivere in una perenne situazione di conflitto interiore, caratterizzato dal prevalere dei desideri slegati dal bene e che si pongono a guida dell’anima in contrasto con la parte razionale. Ciò significa che l’enkrates e l'akrates riescono ad intravedere quale sarebbe la via del bene, ma non riescono a perseguirla completamente in modo adeguato, dato che il primo agisce in contrasto con il desiderio dominandosi a fatica, mentre il secondo viene vinto da esso. La virtù, al contrario, non consiste nel reprimere i proprio desideri, ma nell’allinearli alla ragione e al bene, educando la propria parte affettiva e desiderativa creando una situazione di armonia interiore: essa spinge a desiderare solo ciò che è bene, escludendo necessariamente altri tipi di desideri di onore, fama, ricchezza, e ad agire di conseguenza in                                                                                                                

20 Il piacere per Aristotele non è negativo in sé, anzi afferma che “Nulla impedisce che un qualche tipo

di piacere sia il sommo bene, anche se vi sono alcuni piaceri cattivi” (EN VII, 14 1153b 7-8); inoltre anche la felicità stessa consiste in una qualche forma di piacere, sebbene si tratti di un piacere educato ed allineato ai dettami azionali.

(21)

vista della vera felicità.

Le emozioni nel pensiero aristotelico: Retorica

Se nell'Etica Nicomachea il discorso relativo alle emozioni ricopre una parte più ridotta in quanto inserito nella trattazione più ampia della virtù e del bene ultimo, l'eudaimonia, nella Retorica troviamo un esame più particolareggiato dei pathe, dal momento che rappresentano un oggetto di interesse privilegiato all’interno dell’indagine sulla techne retoriche, che viene definita da Aristotele come “la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun oggetto” (Rhet. I, 2 1355b)21. L’intento del filosofo, infatti, è quello di fornire ammaestramenti sull'arte della persuasione, che può vertere su qualsiasi argomento di discussione, e dato che “le cose non sembrano uguali per chi prova sentimenti d’amicizia o di odio, per chi è incollerito o tranquillo” (Rhet. II, 1 1377b) sorge la necessità di analizzare anche l'ambito dei pathe. Sebbene l’unitarietà strutturale dell'opera susciti qualche perplessità dato che sono state riscontrate delle possibili contraddizioni al suo interno22, si può

                                                                                                               

21 La techne retoriche è una disciplina che viene associata da Aristotele alla dialettica in quanto

“entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifica” (Rhet. I, 1 1354a). Tale affermazione contrasta nettamente con quanto sostenuto da Platone nel Fedro, dato che egli subordina la retorica alla dialettica, giudicandola del tutto indifferente al contenuto di verità del discorso e votata all'unico scopo di persuadere il pubblico. Aristotele associa la retorica anche alla scienza etica, infatti scrive che “la retorica è una sorta di ramificazione della dialettica e della scienza etica, che è giusto definire politica” (Rhet. I, 2 1356a); ciò pone in evidenza il legame che intercorre tra retorica e politica, che però il filosofo non specifica chiaramente riflettendo sulle modalità ed i limiti anche etici in cui il polites possa far uso della retorica nel contesto cittadino. Cfr. S. Halliwell, The Challenge of Rhetoric to Political and Ethical Theory in Aristotle in A. Oksenberg Rorty (edito da), Essays on Aristotle’s Rhetoric, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1996, pp. 175-190.

22 Molti commentatori hanno messo in luce la contraddizione che risulta dall’affermazione di

Aristotele nel libro I di volersi distinguere dai suoi predecessori che avevano fatto leva a fini persuasivi soprattutto sulle passioni, in quanto poi egli stesso dedica grande spazio all’analisi dei pathe nel libro II. Christof Rapp in L'arte di suscitare le emozioni nella Retorica di Aristotele, op.cit., nota come, tuttavia, tra le due cose non esista una contraddizione: egli pone l’accento sulla questione del metodo, ossia sul fatto che, secondo la sua interpretazione, Aristotele non critica i predecessori per essersi occupati dei pathe nell’ambito della retorica, ma di essersi occupati soprattutto di questi tralasciando l’aspetto altrettanto importante della struttura logico-argomentativa del discorso; questi, inoltre, non hanno studiato come indurre le emozioni individuando il loro stretto legame con credenze ed opinioni del soggetto, perché non consapevoli della loro natura di fenomeni psichici che inglobano contenuti cognitivi. Ecco, dunque, che Aristotele mediante una più approfondita analisi delle emozioni

(22)

rintracciare il percorso logico della trattazione: i primi due libri, infatti, contengono un'analisi delle cosiddette pisteis, i mezzi di persuasione che l'oratore deve usare per persuadere il pubblico; questi sono di tre tipologie, in corrispondenza degli elementi che costituiscono il discorso, ossia l’oggetto, chi parla e chi ascolta: “si dovrà non solo prendere in considerazione il discorso, perché risulti efficace nella dimostrazione e persuasivo, ma anche necessariamente mostrare se stessi in un dato modo e porre colui che giudica in una data disposizione d'animo” (Rhet. II, 15 1377b). Il primo elemento è dunque in primis la struttura argomentativa del discorso, che deve essere in grado di convincere l'uditorio di ciò che viene in esso sostenuto, poi il carattere morale dell'oratore, che deve dimostrare di essere credibile e affidabile, ed infine le disposizioni d'animo e le emozioni che l'oratore deve saper suscitare negli ascoltatori. La prima tipologia di pistis è di tipo logico, le altre due, invece, fanno appello alla sfera emotiva del pubblico, in quanto sono legate alla soggettività di chi pronuncia il discorso e di chi lo ascolta.

Nel libro I, dopo avere distinto le tre pisteis, ci si occupa in particolare del carattere di chi parla e delle tre tipologie di retorica in base al tipo di uditorio cui ci si rivolge, deliberativa, epidittica e giudiziaria: la prima è legata al contesto delle assemblee della polis e ha come fine quello di consigliare riguardo alle questioni della politica, che mira al raggiungimento della felicità della comunità23; la seconda ha per oggetto l’elogio o il biasimo delle qualità di una persona o di una cosa; la terza è quella dei tribunali ed è funzionale a muovere delle accuse o a difendersi da esse.

L'analisi dei pathe è contenuta nel libro II nei capitoli 1-17. La definizione che ne dà Aristotele è la seguente: “le emozioni sono i fattori in base a quali gli uomini, mutando                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

individua anche un modo più efficace per ottenere la persuasione mediante quelle, ma senza tralasciare gli altri aspetti, mirando a rendere la retorica una disciplina fondata sul logos.

23 Nell’Etica Nicomachea Aristotele afferma, infatti, che l’eudaimonia, il bene umano, è il fine della

politica: “Siccome la politica si serve delle altre scienze pratiche, e in più legifera su cosa si deve fare, e da cosa ci si deve astenere, il suo fine comprenderà in sé quello delle altre scienze, in modo che verrà ad essere l bene umano. Difatti anche se è lo stesso per il singolo e per la città, è evidente che cogliere e preservare il bene della città è cosa migliore e più perfetta” (EN I, 1 1094b 4-9).

(23)

opinione, differiscono in rapporto ai giudizi, e sono accompagnate (hepetai) da dolore (lype) e piacere (hedone): ad esempio l'ira, la pietà, la paura, e tutte le altre simili o contrarie a queste”24. Le emozioni in questione sono: ira (orghe), mitezza (praotes), amicizia (philia), odio, (echtra), paura (phobos), ardimento (tharsos), vergogna (aischyne), impudenza (anaischyntia), pietà (eleos), sdegno (nemesan), invidia (phthonos), emulazione (zelos), disprezzo (kataphronesis)25; nella loro analisi Aristotele prende sempre in esame tre aspetti: in quale disposizione d'animo si è portati a sentire una certa emozione, verso quali persone e in quali circostanze; è necessario infatti, per l'oratore conoscere tutti e tre gli aspetti, per avere una conoscenza completa di che cosa siano realmente le emozioni nelle loro caratteristiche generali e particolari, ed utilizzarle così efficacemente a fini persuasivi26. La disposizione d’animo e le circostanze in cui si trova il soggetto determinano le condizioni psichiche e fattuali a favore o meno del sorgere di determinate emozioni. Per quanto riguarda l’oggetto,                                                                                                                

24 Rhet. II, 1 1378 a.

25 Cfr. S. Gastaldi, Aristotele e la politica delle passioni. Retorica, psicologia ed etica dei

comportamenti emozionali, op. cit., pp. 16-17:  la limitazione a queste emozioni da parte di Aristotele viene interpretata da Gastaldi come una selezione di quelle che servono a definire la psicologia del polites: “Aristotele seleziona, infatti, come pertinente all’ambito retorico, solo quel ristretto gruppo che il discorso, riportandosi alle sedi istituzionali della città, ha lo scopo di suscitare in destinatari bene individuati, i cittadini. […] si avvalora l’impressione che la fenomenologia passionale prodotta da Aristotele […] si configuri piuttosto come una riflessione autonoma, e in sé conclusa, sulle dinamiche psicologiche operanti nei cittadini”.

26 Cfr. M.C. Nussbaum, Aristotle on Emotions and Rational Persuasion, op. cit., p. 305. Quello che

possiamo notare è che nel caso della Retorica a differenza delle modalità d’indagine adottata nell’Etica Nicomachea, la trattazione aristotelica non prende le mosse da quelle che sono le opinioni più diffuse e autorevoli (endoxa) su ciò che sono le emozioni, ma è deciso ad analizzarle nel dettaglio per permettere all’oratore di essere consapevole di ciò in cui esse davvero consistano, così da riuscire poi a suscitarle con successo nel pubblico e persuaderlo di ciò che sta sostenendo. Diversa, invece, è la questione riguardo al I libro, in cui Aristotele sembra far appello alle concezioni etiche più diffuse in relazione al carattere dell’oratore, che deve riuscire a suscitare sentimenti di favore e benevolenza nel pubblico, mostrandosi in possesso di quelle doti che sa comunemente apprezzate. Sul rapporto tra opinioni diffuse nelle Retorica ed il pensiero etico di Aristotele cfr. T.H. Irwin, Ethics in the Rhetoric and in the Ethics, in A. Oksenberg Rorty (edito da), Essays on Aristotle’s Rhetoric, University of California Press, Berkeley Los Angeles London 1996, p. 142: “The Rhetoric is not a work of ethical theory. It is about making speeches to persuade audiences of ordinary people; […] we might expect persuasive arguments to rely quite often on ethical beliefs and assumptions that Aristotle himeself rejects. […] If this is the right view of the Rhetoric, then it may still be important for understanding the Ethics. For the Ethics claim to begin from the «common beliefs»; and if the Rhetoric is indeed a work on persuasive argument, we might expect it to give us some idea of some of the common beliefs held on ethics, since Aristotle claims that they are a source of persuasive arguments (1355a 17-18, 1356b 33-34)”.  

(24)

esso è costituito sempre da una persona umana in relazione alle sue azioni o alla condizione favorevole o sfavorevole in cui si trova per sua responsabilità o per eventi fortuiti27.

Ciò che risalta nella definizione dei pathe è l'accento che Aristotele pone sul loro carattere cognitivo e sulla loro relazione con la sfera della razionalità, dal momento che queste giocano un ruolo fondamentale nella persuasione proprio per il fatto che inglobano le credenze e le opinioni del soggetto riguardo ad un oggetto investito di rilevanza affettiva. Il tipo di valutazione coinvolta nelle emozioni ha, infatti, carattere cognitivo, anche se non propriamente razionale, dato che si differenzia da quella lucida e consapevole realizzata dalla ragione calcolante, che opera sulla base della logica; infatti, quella coinvolta nei pathe può essere realizzata anche con una certa dose di inconsapevolezza, in quanto spontanea ed immediata, perché basata su opinioni e credenze già formate e presenti nel soggetto, che si attivano al presentarsi dell’oggetto.

Tuttavia, come già visto nell'Etica Nicomachea, l'altro elemento costitutivo fondamentale delle emozioni è il legame con la dimensione corporea attraverso le sensazioni di piacere e dolore, che le associano all'epithymia, da cui però sono distinte proprio in virtù dello stretto legame con la ragione, tanto che a differenza che nell'Etica Nicomachea quella non appare nell’elenco dei pathe della Retorica28; le emozioni, infatti, sono fenomenologicamente legate al corpo e causano reazioni fisiche a volte anche molto evidenti, come il rossore della vergogna o il pallore della paura, ma l'aspetto che per Aristotele risulta più rilevante è il loro                                                                                                                

27 A questo proposito trovo molto interessanti le osservazioni di Aaron Ben-Ze’ev in The Subtlety of

Emotions, op. cit., p. 31: l’oggetto delle emozioni è sempre una persona umana tanto che qualora si tratti di oggetti inanimati vengono ad essi attribuite caratteristiche di soggetti agenti; inoltre egli distingue tra oggetto emotivo o cognitivo, che è al centro dell’attenzione del soggetto, e oggetto valutativo su cui è catalizzata la preoccupazione emotiva: “The emotional object is the focus of our attention; it is the cognitive object. The focus of emotional concern is the evaluative object, it is the basis for our evaluative stand. The agent who feels the emotion is the emotional object of embarrassment, but the focus of concern of this emotion is the way others evaluate this person. Sometimes the emotional object and the focus of concern are directed at the same person: in compassion, the person who suffers is both the emotional object and the focus of concern”.

28 L’assenza dell’epithymia nell’elenco delle emozioni denota la volontà di Aristotele di distinguerle

da qualunque altro fenomeno psichico ascrivibile alla categoria dei pathe intesi come mere passioni; tra queste, infatti, rientra anche il desiderio corporeo, privo di contenuti cognitivi che possano legarlo alla sfera della razionalità e del giudizio.

Riferimenti

Documenti correlati

“visibilità” della sua compassio- ne lo fa apprezzare dai pazienti, la conseguenza per il medico è un benefico aumento della auto- stima e della sicurezza professio-

L’Autore propone un test per mi- surare il quoziente di empatia (da 0 a 80) e classifica l’empatia in sette gradi, tra i quali la popolazio- ne si distribuirebbe secondo una

Tra i tanti che osservarono nessuno intervenne, neppure quello così straziato dalle urla della vittima da alzare il volume della radio per non sentirle (un patire con l’altro, che

La consapevolezza di sé e, quindi della nostra sofferenza, ci aiuta a comprendere quella degli altri (em- patia) e da qui può nascere in noi il desiderio che ne siano liberati

con la neocorteccia cerebrale e ha la funzione di promuovere i com- portamenti sociali affiliativi, di in- tegrazione all’interno di un gruppo (affiliative focused), facendoci

L’empatia e la compassione rego- lano positivamente le emozioni, favorendo la resilienza, se la com- passione verso gli altri è unita alla compassione verso di sé (self-

La perdita della compassione è uno dei principali sintomi del burnout, una terapia basata sulla compassione può essere il modo per sconfiggerlo. Gli Autori descrivono la

Dal punto di vista pratico, essendo consapevoli dei tempi lunghi che sono necessari per realizzare qual- siasi cambiamento in ambito uni- versitario, proponiamo che si co- minci