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La gestione collettiva dell'agrobiodiversità. L'analisi dell'approccio multi-attore e partecipativo in processi di innovazione in Toscana.

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE AGRARIE, ALIMENTARI E

AGRO-AMBIENTALI

CORSO DI LAUREA IN PRODUZIONI AGROALIMENTARI E GESTIONE DEGLI

AGROECOSISTEMI

Curriculum Agricoltura Biologica

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

La gestione collettiva dell’agrobiodiversità. L’analisi dell’approccio multiattore

e partecipativo in processi di innovazione in Toscana.

Relatori:

Prof.ssa Adanella ROSSI Prof. Massimo ROVAI

Correlatore:

Prof. Marco MAZZONCINI

Candidata: Virginia ALTAVILLA

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SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 1

1. IL CONTESTO DI RIFERIMENTO ... 3

1.1 L’agroecologia e la tutela dell’agrobiodiversità ... 3

1.2 La gestione dell’agrobiodiversità ... 5

1.3 L’evoluzione nella gestione delle risorse genetiche: dalla conservazione ex situ alla gestione on farm ... 7

1.4 Il quadro normativo di riferimento ... 11

1.5 Il ruolo nuovo della ricerca nei sistemi agricoli sostenibili: l’approccio partecipato, multi-attoriale e transdisciplinare per un’innovazione anche sociale ... 14

1.6 Gli strumenti delle politiche dell’innovazione: i PEI-agri. Approccio di network, partecipativo, plurale ... 15

2. IL CASO STUDIO “CEREALI RESILIENTI” ... 16

2.1 Descrizione del caso studio... 16

2.2 Approccio analitico e aspetti metodologici ... 20

2.3 Analisi dei risultati ... 24

2.3.1 Analisi collettiva (1) ... 25

2.3.2 Analisi collettiva (2) ... 34

2.3.3 Analisi individuale ... 40

3 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ... 59

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INTRODUZIONE

La tutela dell’agrobiodiversità ha incontrato un’attenzione sempre maggiore da parte delle istituzioni sia nazionali che internazionali a partire dalla Convenzione di Rio de Janeiro nel 1992, dove viene firmata la Convenzione sulla diversità biologica (CBD) da 192 Paesi, tra cui l’Unione europea. L’Italia ratifica la CBD con la legge 194 del 14 febbraio 1994. Da allora la definizione di agrobiodiversità viene ampliata, passando a includere non solo la diversità nell’ambito delle specie e tra le specie e la diversità degli ecosistemi, ma anche la diversità sociale e culturale che si è plasmata nei diversi ambienti in un percorso di co-evoluzione. Questa visione della biodiversità considera l’uomo parte integrante degli ecosistemi e rivaluta il ruolo dell’agricoltore in qualità di stakeholder nella gestione dell’agrobiodiversità. È in tale contesto che si è andato evolvendo l’approccio nella tutela delle risorse genetiche, che rappresentano il nucleo centrale dell’agrobiodiversità, passando dal concetto di conservazione ex situ, alla conservazione in

situ fino alla gestione dinamica in azienda (on farm). La gestione dinamica favorisce il meccanismo

evolutivo degli organismi direttamente nei campi attraverso la gestione degli agricoltori, i quali ritrovano un ruolo centrale nell’acquisizione di nuove competenze e attraverso la riappropriazione di capacità che il modello di agricoltura industriale aveva messo in secondo piano.

Questo percorso di costruzione di un nuovo modello di gestione delle risorse genetiche e quindi di tutela dell’agrobiodiversità è stato favorito in Europa grazie all’azione di numerosi movimenti e associazioni. In Italia si è distinto in tal senso l’operato dell’associazione di secondo livello Rete Semi

Rurali (RSR). Grazie anche ai finanziamenti che l’Unione europea ha messo a disposizione degli Stati

membri sotto varie forme, tra cui il Programma Horizon 2020, la PAC e i Piani di Sviluppo Rurali (PSR), RSR a partire dal 2008 è stata partner di diversi progetti europei (tra cui SOLIBAM e DIVERSIFOOD, quest’ultimo conclusosi all’inizio del 2019), tramite i quali è stata riportata eterogeneità nei campi degli agricoltori, attraverso popolazioni di frumento tenero, duro e di orzo. In questi ultimi dieci anni queste popolazioni hanno avuto modo di espandersi in tutta Italia attraverso gli scambi degli agricoltori, adattandosi agli specifici ambienti. Grazie a questo lavoro di sperimentazione, che è stato portato avanti in forma simile in molti Paesi dell’UE, la Commissione europea ha deciso di derogare rispetto all’attuale legislazione sementiera con la Decisione di Esecuzione del 18 marzo 2014, concedendo agli Stati membri, in via del tutto sperimentale, la commercializzazione di materiale eterogeneo che non rientri nelle categorie di stabilità e uniformità richieste dalla Convenzione UPOV (Unione per la protezione di nuove varietà vegetali).

Parallelamente sono venuti a crearsi i presupposti per un ripensamento dell’approccio allo studio e alla sperimentazione delle modalità di gestione e incremento dell’agrobiodiversità. Ciò è avvenuto coerentemente con l’attribuzione di un ruolo centrale agli agricoltori nella gestione dell’agrobiodiversità, ben espresso dall’orientamento alla gestione on farm in cui, come ho detto sopra, si prevede che la sperimentazione e la coltivazione avvengano direttamente nei campi degli agricoltori, attraverso il loro coinvolgimento attivo. Altrettanto importante è la dimensione collettiva in cui l’operato degli agricoltori è stato collocato, considerando le molteplici relazioni tra gli stessi agricoltori, così come con altri attori della filiera e con altri soggetti coinvolti nella gestione

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dell’agrobiodiversità. Questo ha portato a sviluppare approcci multi-attoriali, partecipativi e transdisciplinari, questi ultimi rivolti ad integrare forme di conoscenza e abilità diverse, così da dare spazio di espressione anche ai saperi e all’esperienza pratica degli agricoltori e degli altri operatori. Questo approccio è in linea con quello che sta alla base delle recenti politiche dell’Unione Europea per agevolare i processi di innovazione in agricoltura (Partenariato Europeo per l’Innovazione - PEI). Queste politiche attribuiscono grossa importanza alle dinamiche di network, prevedendo infatti la costituzione a livello locale di Gruppi Operativi (G.O.) rivolti ad sviluppare progettualità sui territori attraverso un approccio multi-attoriale e transdisciplinare, coinvolgendo soggetti diversi non solo nella parte di sperimentazione ma anche nel percorso di individuazione degli obiettivi della sperimentazione stessa.

È in questo contesto che nel 2017 è stato approvato il progetto PEI “Cereali resilienti”, della durata di 6 mesi, finanziato dalla sottomisura 16.1 del PSR della Regione Toscana, oggetto di analisi del presente lavoro. Il progetto ha visto la partecipazione di diversi soggetti, tra i quali il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa (DiSAAA-a), RSR e diverse aziende agricole, tutti coinvolti sul territorio toscano nella proposta di innovazione rappresentata dalla realizzazione di sistemi di produzione e commercializzazione di sementi di popolazioni evolutive di frumento tenero. Il partenariato di questa prima breve fase progettuale ha visto il consolidamento del G.O. e la costruzione del Piano Strategico, in vista di una eventuale seconda fase, finanziata dalla sottomisura 16.2, finalizzata alla realizzazione del progetto.

Il presente lavoro ha dunque preso in esame gli aspetti e i processi che caratterizzano un progetto basato su un approccio multi-attoriale, partecipativo e transdisciplinare, quale è stato “Cereali resilienti”. In particolare, nell’analizzare le modalità di attuazione di tale approccio nei cinque territori interessati, esso si è concentrato su due aspetti diversi ma correlati: da una parte, le dinamiche di tipo collettivo che si sono sviluppate in momenti di interazione organizzati sui territori, in termini di partecipazione e coinvolgimento dei soggetti presenti; dall’altra, alcune caratteristiche specifiche degli agricoltori partecipanti agli incontri, come l’apertura all’innovazione e alla dimensione di rete, anch’esse importanti ai fini della realizzazione del progetto collettivo proposto. Il lavoro si sviluppa come segue.

Nel primo capitolo viene descritto il contesto di riferimento. In esso sono prese in considerazione: le modalità con cui in questi ultimi anni è stato affrontato il tema della conservazione dell’agrobiodiversità; il contesto legale della legislazione sementiera europea e le recenti aperture che hanno permesso la commercializzazione, in via sperimentale, di materiale eterogeneo; l’evoluzione nell’approccio della ricerca, nel tentativo di superare la distanza di ruoli, da sempre esistente, tra il mondo degli scienziati e quello degli operatori, nella generazione e utilizzazione dell’innovazione; le attuali politiche europee per l’innovazione in agricoltura.

Nel secondo capitolo viene presentato e sviluppato il caso studio preso in esame, cioè la realizzazione di un progetto ricadente nell’ambito del PEI, basato su un approccio multi-attoriale, partecipativo e transdisciplinare. L’analisi del caso si sviluppa descrivendo l’approccio analitico e gli aspetti metodologici dello studio, quindi analizzando nel dettaglio i risultati, per arrivare infine ad alcune considerazioni di sintesi.

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1. IL CONTESTO DI RIFERIMENTO

1.1 L’agroecologia e la tutela dell’agrobiodiversità

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un crescente interesse da parte di numerosi studiosi e istituzioni nei confronti della ricerca di sistemi agricoli sostenibili e, più in generale, di una riorganizzazione del sistema agricolo alimentare rivolto ad una maggiore qualità del cibo, conservazione della biodiversità e giustizia sociale (Wezel et al, 2018). Tali obiettivi sono tuttavia indissolubilmente connessi con la sempre maggiore pressione demografica mondiale, che prevede la popolazione umana raggiungere quota 9.8 miliardi entro il 2050, secondo il World Population Prospect revisionato nel 2017 dalle Nazioni Unite. Si tratta quindi di individuare i sistemi che potranno coniugare la “Food security”, intesa come l'accesso fisico, economico e sociale ad un'alimentazione sana e culturalmente accettabile, con sistemi agricoli sostenibili, e quindi in grado di perdurare nel tempo preservando le risorse naturali, rispettando le condizioni sociali, e valorizzando le conoscenze e i saperi locali (Kremen et al, 2012). Partendo da questi presupposti è nata l’idea di una “intensificazione sostenibile”, il cui scopo sarebbe quello di coniugare la maggiore produzione di cibo con la sostenibilità ambientale. L'intensificazione sostenibile, come linea guida, è stata ampiamente utilizzata da organizzazioni internazionali di ricerca e politiche, quali il “Consultative Group on International Agricultural Research” (CGIAR), la “Food and Agriculture Organization” (FAO), il “Word Economic Forum” o la “Sustainable Development Solution Network” (SDSN) (Tittonel, 2014). Alcuni studiosi hanno fornito la seguente definizione: “mantenere o incrementare la produzione di cibo per ettaro senza compromettere l'ambiente ed esaurire le risorse naturali e allo stesso tempo incrementare il capitale naturale e il flusso di servizi ecosistemici” (Grinsven et al, 2015). In realtà l'intensificazione sostenibile rimane un concetto vago e ambiguo poiché non spiega come conciliare un evidente maggiore sfruttamento delle risorse naturali (suolo, acqua, minerali, vegetali) necessario ad una produzione più elevata con la loro preservazione (Grinsven et al, 2015). Inoltre la definizione lascia completamente fuori la componente sociale dell’agricoltura, rischiando quindi di ricadere nelle stesse dinamiche dell’attuale sistema di produzione e consumo.

L’agroecologia, sia a livello teorico, come scienza, che a livello di pratiche colturali, sembra invece soddisfare i requisiti richiesti per la realizzazione di un vero cambiamento nel sistema agricolo e alimentare mondiale. Dalla sua prima comparsa nel 1928 il termine “agroecologia” si è evoluto ed espanso, ricevendo sempre più importanza mano a mano che la comprensione delle problematiche legate alla produzione agricola da parte delle istituzioni si faceva più sofisticata (Wezel et al, 2018). Oggi il termine agroecologia ha fatto propri anche contenuti che spaziano da una serie di pratiche agricole più ecologiche alle rivendicazioni di movimenti rurali che incorporano tematiche quali la sovranità alimentare, la giustizia sociale e la conservazione delle conoscenze indigene (Wezel et al, 2018). In Europa recentemente sono nati movimenti sociali agroecologici, come, per esempio, il Coordinamento europeo La Via Campesina e Friend of the Heart Europe e l’associazione Agroecology Europe (Wezel et al, 2018), che ha dato dell’agroecologia una definizione esauriente: “Agroecology is considered jointly as a science, a practice and a social movement. It encompasses

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the whole food system from the soil to the organization of human societies. It is value-laden and based on core principles. As a science, it gives priority to action research, holistic and participatory approaches, and transdisciplinarity including different knowledge systems. As a practice, it is based

on sustainable use of local renewable resources, local farmers’ knowledge and priorities, wise use of biodiversity to provide ecosystem services and resilience, and solutions that provide multiple

benefits (environmental, economic, social) from local to global. As a movement, it defends smallholders and family farming, farmers and rural communities, food sovereignty, local and short marketing chains, diversity of indigenous seeds and breeds, healthy and quality food” (www.agroecology-europe.org). Le componenti centrali che contraddistinguono l’agroecologia sono ben evidenziate da questa definizione, che riesce a rendere coerente a livello europeo un modello che sempre più in tutto il mondo sta emergendo come risposta al modello di agricoltura industriale e a un certo indebolimento dell’altro principale modello alternativo, quello dell’agricoltura biologica. L’importanza di un uso sostenibile delle risorse locali, collegato alle conoscenze degli operatori, e la rilevanza riconosciuta all’agrobiodiversità come condizione necessaria alla creazione di sistemi resilienti e in grado di fornire servizi ecosistemici, diventano le nuove basi per lo studio di pratiche sostenibili, in un’ottica che comprenda l’intero sistema e includa i diversi stakeholder che ne fanno parte.

Le tre componenti, definite sopra, di agroecologia come scienza, pratica e movimento pongono dunque al centro del dibattito sulla transizione verso sistemi agro-alimentari sostenibili e resilienti il ruolo chiave della gestione delle risorse genetiche vegetali. L’agrobiodiversità, il suo utilizzo, la sua tutela e valorizzazione, e quindi, in definitiva, la sua gestione, diventa il perno centrale dell’agricoltura sostenibile. Questo ruolo di primaria importanza le deriva dal fatto che i modelli predominanti di agricoltura industriale hanno di fatto eroso gran parte delle risorse genetiche vegetali e animali, hanno inquinato suolo e acque e hanno semplificato in maniera importante un sistema estremamente complesso come quello agricolo, costituito e influenzato non solo dalle componenti “naturali” del sistema ma anche da quelle sociali e culturali, intimamente connesse le une alle altre (Thrupp, 2000). Se infatti da un lato è innegabile che negli ultimi 50 anni lo sviluppo dell’agricoltura ha portato a un incremento della produzione mondiale, allo stesso tempo tale modello ha comportato costi considerevoli in termini sia biofisici che economici, nel Sud come nel Nord del mondo. Queste tendenze non solo hanno provocato danni sociali, ma in alcuni casi hanno anche indebolito il sistema produttivo nel suo insieme (Thrupp, 2000).

L’agrobiodiversità come componente fondamentale e comune ai sistemi agricoli in tutto il mondo comprende numerose risorse biologiche legate all’agricoltura, di seguito brevemente elencate (Thrupp, 2000):

• risorse genetiche: il materiale “vivente” costituito da piante e animali;

• piante edibili e colture, incluse le varietà tradizionali (locali), le cultivar, e altro materiale sviluppato attraverso il miglioramento genetico;

• gli organismi del suolo essenziale per la fertilità, la struttura, la qualità e la salute del suolo; • insetti, batteri, funghi che forniscono un controllo nei confronti degli organismi dannosi di

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• le specie spontanee degli habitat naturali che possono fornire servizi ecosistemici all’agricoltura (per esempio controllo di organismi dannosi, stabilità delle produzioni, ecc…). Questa definizione di agrobiodiversità risulta tuttavia piuttosto ristretta, ma può essere ampliata incorporando al suo interno anche tutti quei meccanismi atti a mantenere la diversità, in particolare la conoscenza locale associata al mantenimento delle diverse specie e varietà che contribuisce a sostenere l’intima connessione tra l’agricoltura e il territorio in cui è inserita (Jerome Enjalbert et al., 2011).

In un senso più ampio dunque l’agrobiodiversità comprende sia il livello micro, costituito dai geni che caratterizzano ciascuna specie e varietà entro le specie, sia il livello macro che comprende le pratiche colturali, legate al sistema di valori e conoscenze di un determinato contesto, e la composizione del paesaggio (Pautasso et al, 2012). In questa ottica, la conservazione e la gestione dell’agrobiodiversità, come momenti centrali nel raggiungimento della sicurezza alimentare e nella progettazione di un sistema alimentare sostenibile, include al suo interno il “materiale genetico” necessario a creare diversità in ciascun sistema agricolo e il “capitale umano” necessario alla gestione di questo materiale.

L’agroecologia come approccio olistico allo studio del sistema agricolo e alimentare pone dunque in maniera forte la questione della gestione delle risorse genetiche, e lo fa avendo ben presente che un tema così complesso non può essere affrontato in maniera riduzionistica, e quindi unicamente attraverso la scienza, ma deve far leva anche sulla componente sociale, e di conseguenza su un sistema di conoscenze che sia plurale e che coinvolga tutti i diretti interessati, agricoltori in primo luogo, ma non solo. Questo porta alla necessità di affrontare questo tema attraverso una diversità di approcci, che consentano di tener conto della variegata natura della materia, della difficoltà che si riscontra talvolta nel distinguere i fattori biologici da quelli sociali nella sua gestione, e della interdipendenza esistente tra i diversi fattori che intervengono (Pautaro et al, 2012).

1.2 La gestione dell’agrobiodiversità Le risorse genetiche vegetali

Le risorse genetiche vegetali per l’alimentazione e l’agricoltura sono quella parte dell’agrobiodiversità che comprende le specie agricole e le loro varietà, le specie selvatiche affini ed utili all’uomo (RSR, 2015).

Le colture agrarie derivano da un processo millenario di domesticazione, attraverso il quale l’uomo, nel corso dei secoli, ha modificato le specie selvatiche fino ad ottenere quelle coltivate, determinando profondi cambiamenti a livello genetico. In ogni specie, dopo una prima riduzione relativamente drastica della diversità nel passaggio dal progenitore selvatico al tipo coltivato, la continuativa e diffusa opera di scambio e selezione da parte dell’uomo, unita alla selezione operata dagli ambienti di coltivazione, ha determinato l’emergenza delle numerose varietà locali che caratterizzano oggi ogni specie agricola, innalzando nuovamente i livelli di diversità (RSR, 2015). Durante i millenni che hanno preceduto l’inizio del moderno miglioramento genetico, gli agricoltori sono stati dunque gli artefici della costruzione dell’agrobiodiversità, grazie ai loro spostamenti o agli

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scambi di semi o di altro materiale da propagazione (inclusi le diverse razze di animali). Proprio in virtù della eterogeneità che caratterizzava tali materiali, questi avevano la caratteristica di adattarsi gradualmente ai diversi climi, suoli e usi (Ceccarelli, 2016), andando a creare quell’immenso patrimonio che è giunto fino a noi, evolvendosi e moltiplicandosi nel corso dei millenni, sottoforma di varietà locali.

Il termine varietà “locali” sottolinea la distinzione rispetto alle varietà moderne. Le prime possono essere definite (Negri et al, 2009, Polegri e Negri, 2010) come una popolazione variabile, identificabile per alcuni tratti e dotata di un nome locale; non provengono da un programma di miglioramento genetico formale e sono caratterizzate da un adattamento specifico alle condizioni ambientali dell’area di coltivazione (per esempio sono tolleranti agli stress biotici e abiotici di quell’area) e sono strettamente associate agli usi, le conoscenze, le abitudini delle persone che le hanno coltivate e migliorate nel corso del tempo. Le varietà moderne sono invece il frutto di un programma di miglioramento genetico formale, condotto da ricercatori presso centri di ricerca. Di solito sono selezionate per avere un’ampia adattabilità ai diversi ambienti di coltivazione grazie ad un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi che consentono di uniformare l’ambiente di coltivazione; ha quindi modo di esprimersi appieno il potenziale genetico delle varietà, caratterizzate da uniformità genetica per alcuni tratti distintivi (di solito questi sono l’altezza, la resa, la resistenza a determinati stress biotici e abiotici, la precocità). Il percorso di costituzione delle varietà “moderne” non prevede il coinvolgimento degli agricoltori in nessuna delle fasi di sperimentazione; ciò significa che la prima volta che essi verificano la validità della varietà rispetto al proprio ambiente di coltivazione è dopo l’acquisto della stessa.

L’erosione delle risorse genetiche vegetali: cause, conseguenze e primi rimedi

L’erosione genetica vegetale1 può essere collegata all’espandersi dell’agricoltura moderna, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso (Altieri e Merrick, 1987). In particolare l’erosione genetica viene normalmente associata all’adozione di varietà uniformi ad alta produzione (note come HYV, High Yelding Varieties), su vaste superfici, che ha portato molti agricoltori all’abbandono delle varietà locali, geneticamente eterogenee e quindi non selezionate per la produzione; tuttavia molti studiosi (Frankel and Bennett 1970; Frankel and Hawkes 1975; Harlan 1975a) evidenziano come tali nuove varietà ad alta produzione siano generalmente meno affidabili delle varietà locali che hanno rimpiazzato quando coltivate con pratiche tradizionali (con basso utilizzo di input esterni quali fertilizzanti, diserbanti, pesticidi, ecc…) (Barlett 1980). Inoltre la coltivazione su vaste aree di varietà geneticamente uniformi, caratteristica largamente presente nei moderni sistemi produttivi, rende la produzione agricola estremamente vulnerabile a fattori limitanti, come malattie crittogamiche e insetti dannosi (Altieri and Merrick, 1987). Gli agroecosistemi che si sono sviluppati lontano dai centri di origine delle piante presentano infatti difese più semplificate contro i patogeni e gli insetti,

1 Con erosione genetica si indica quel fenomeno che ha provocato nel corso degli ultimi 50 anni, secondo recenti stime

della FAO, la scomparsa di circa il 75% della diversità genetica tra le piante coltivate nel mondo. La causa principale di tale fenomeno viene attribuita all'elevata uniformità genotipica e al sostanziale restringimento della base genetica delle specie domesticate dall'uomo, vegetali e animali, che caratterizzano i modelli di miglioramento genetico moderno, oltre al sostanziale abbandono delle varietà e razze locali e tradizionali (www.entecra.it)

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rendendo le colture più suscettibili ad attacchi epidemici (Browning 1974), situazione che raramente si presenta nei sistemi agricoli tradizionali, caratterizzati da una vasta eterogeneità genetica intra- e inter-varietale (Rick 1973; Segal et al. 1980).

Con la transizione verso modelli di agricoltura low input o biologica nei Paesi industrializzati, la necessità di saper gestire condizioni variabili è diventata cruciale, per questioni sia economiche che ambientali (Jerome Enjalbert et al., 2011). In questo contesto è stato suggerito come un nuovo approccio nella progettazione di un’agricoltura sostenibile dovesse essere basato su un miglior uso dei servizi ecologici che l’agroecosistema offre, inclusa l’agrobiodiversità e le risorse genetiche ad essa collegate (Jerome Enjalbert et al., 2011). Per questi motivi negli ultimi anni molti agricoltori che praticano un’agricoltura “sostenibile” hanno ricominciato a far uso di varietà non totalmente uniformi, o addirittura a miscugli varietali o popolazioni per potenziare l’effetto tampone che la diversità genetica di queste varietà/popolazioni dimostra nei confronti di stress biotici e abiotici quali malattie, stress idrico, carenze nutrizionali, salinità, instabilità del clima (RSR, 2015).

La diversità è talmente importante per l'evoluzione, l’adattamento e il miglioramento delle specie coltivate da renderne necessaria la conservazione nel tempo. Questo aspetto ha iniziato a essere percepito con urgenza tra gli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso, quando la comprensione delle conseguenze che avrebbe avuto la perdita di risorse genetiche e la vulnerabilità delle colture geneticamente uniformi ha iniziato a consolidarsi a livello internazionale. Nel 1974 si istituì l’International Board for Plant Genetic Resources (IBPGR) (Altieri e Merrick, 1987). Ruolo dell’istituto è quello di coordinare una rete globale di banche del germoplasma per garantire l’accesso a ricercatori e selezionatori varietali al materiale genetico necessario allo sviluppo di nuove varietà (Plucknett et al. 1983).

Il materiale da propagazione (semi, tuberi, talee, bulbi, ecc.) delle varietà locali che mano a mano venivano dismesse dagli agricoltori sono state raccolte dai loro luoghi di origine e sono state trasferite in banche del germoplasma dove sono conservate (Altieri e Merrick, 1987). Questa pratica di conservazione del materiale genetico, generalmente conosciuta come conservazione ex situ, è stata ed è tutt’ora, almeno per quanto riguarda il Nord del mondo, il metodo più utilizzato per conservare la diversità agricola (Altieri e Merrick, 1987).

1.3 L’evoluzione nella gestione delle risorse genetiche: dalla conservazione ex situ alla gestione on farm

La conservazione ex situ ha indubbiamente mostrato di essere una risposta pronta ed efficiente alla perdita repentina di agrobiodiversità che si è verificata con l’introduzione e l’espansione in tutto il mondo delle moderne varietà ad elevata produttività, contribuendo ad impedire la scomparsa di alcune tra le principali e più importanti specie coltivate (Frankel e Bennett 1970; Frankel e Hawkes 1975; Wilkes 1983). Tuttavia questo metodo non ha rappresentato la soluzione definitiva alla conservazione delle risorse genetiche vegetali, a causa di varie problematiche che con il tempo sono emerse in maniera sempre più evidente (Oldfield 1984). Tra queste si possono includere: i notevoli sforzi organizzativi e costi di gestione richiesti, che spesso sono causa di una difficile gestione del

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materiale; le modificazioni genetiche che talvolta avvengono nelle condizioni di conservazione del materiale e per la scarsa importanza data alla conservazione di colture minori o parentali selvatici, che invece rappresentano una potenziale riserva di caratteri genetici; il ‘congelamento’ dei processi evolutivi dovuto allo stoccaggio dei semi in condizioni di frigo conservazione e fuori dai campi, il quale impedisce alle varietà di adattarsi alle mutevoli condizioni climatiche, pedologiche e socio-culturali che costituiscono da millenni la spinta evolutiva alla base del miglioramento genetico delle piante (Altieri e Merrick, 1987). Quest’ultima considerazione rappresenta forse la più forte motivazione che ha spinto, in queste ultime decadi, numerosi ricercatori (Frankel e Bennett 1970; Frankel e Hawkes 1975; Frankel e Soul6 1981; Prescott- Allen e Prescott-Allen 198l, 1983; Wilkes 1983) a ripensare alla conservazione delle risorse genetiche vegetali, transitando dal modello di conservazione ex situ al modello in situ fino al modello on farm. La conservazione in situ delle risorse genetiche prevede la loro riproduzione nell’ambiente di coltivazione invece che nelle stazioni sperimentali o nei campi delle banche del germoplasma. Questo approccio è tutt’ora molto utilizzato dalle banche del germoplasma, che si avvalgono di un sistema di moltiplicazione che si basa sulla riproduzione delle varietà presenti nella banca direttamente dagli agricoltori che ne fanno richiesta, che assicurano dunque alla banca una rigenerazione del materiale propagativo e allo stesso tempo possono utilizzare il materiale proveniente dalla banca nella propria azienda agricola. La conservazione on farm (“in azienda”) delle varietà locali, e quindi a rischio di erosione genetica, consiste invece nella coltivazione delle piante e dei loro parentali selvatici nei luoghi dove hanno evoluto le loro caratteristiche attuali (Altieri e Merrick, 1987; Brush, 1995, Jarvis e Hodgkin, 2000). La conservazione on farm, che è una modalità di gestione dinamica delle risorse genetiche, consente ai processi naturali e umani di selezione di continuare. Inoltre, la conservazione on farm è generalmente utilizzata per descrivere un processo di gestione attraverso il quale gli agricoltori mantengono le varietà tradizionali, sviluppate nelle condizioni locali, continuando a migliorarle nel tempo. In questa prospettiva la conservazione di specifici genotipi diventa secondaria rispetto alla continuazione del processo evolutivo che consente al materiale genetico di adattarsi nel tempo (Altieri e Merrick, 1987).

La gestione on farm: una gestione dinamica della biodiversità

Il fine della gestione dinamica (da ora DM, Dynamic Management) delle risorse genetiche è, come sopra esposto, quello di conservare una “riserva” di variabilità genetica piuttosto che specifici alleli in un dato locus o cultivar che sono già fissate geneticamente (Jerome Enjalbert et al., 2011). Il principio è quello di mantenere il contesto nel quale le forze evolutive possano agire sulla diversità genetica delle varietà/popolazioni coltivate in modo che queste possano adattarsi alle diverse condizioni climatiche, a nuove malattie e alle pratiche colturali. L’efficienza della DM risiede nella conservazione di un’ampia variabilità genetica all’interno di popolazioni, distribuite su una grande scala di ambienti differenti, all’interno dei quali il ruolo della diversità viene massimizzato grazie alla pressione selettiva locale (Jerome Enjalbert et al., 2011), che permette un adattamento specifico a quel contesto (Ceccarelli et al. 2010).

Anche se la DM è stata proposta per la prima volta nel 1984 (Paillard et al., 2000), al di fuori del contesto della conservazione biologica, può comunque essere considerata una forma di gestione in

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situ. In accordo con la Convenzione sulla Biodiversità Biologica, approvata nel 1992 durante il Summit Mondiale dei Capi di Stato a Rio de Janeiro, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED), “in situ significa la conservazione degli ecosistemi e degli habitat naturali e il mantenimento e ricovero di popolazioni e specie nel loro ambiente naturale e, nel caso di specie domestiche e coltivate, nel contesto nel quale hanno sviluppato le loro proprietà distintive”; quest’ultimo caso è normalmente collegato alla gestione on farm (UNCED 1992, da Jerome Enjalbert et al., 2011).

La DM può essere condotta secondo diversi approcci: può rientrare in un programma di sperimentazione realizzato da un istituto di ricerca (DM sperimentale), oppure può essere condotta direttamente nei campi degli agricoltori (in questo caso si parlerà perciò di on farm DM) (Jerome Enjalbert et al., 2011). Nel presente elaborato prenderò in considerazione il secondo approccio qui descritto.

Esperienze di DM on farm delle risorse genetiche vegetali si stanno moltiplicando in tutta Europa (Jerome Enjalbert et al., 2011), soprattutto come risposta da parte dei vari stakeholder che operano nel mondo del biologico alla grave mancanza di varietà adatte a un tipo di agricoltura a basso impiego di input e a basso impatto ambientale, come appunto quella biologica. Dietro queste iniziative c’è l’operato di organizzazioni collettive impegnate in queste tematiche. Tra le realtà che si occupano di DM in Europa possiamo citare Réseau Semences Paysannes in Francia, Red de Semillas in Spagna, Arche Noah in Austria, e Rete Semi Rurali (RSR) in Italia. Si tratta di network multi-attore che lavorano a vari livelli, sia sul territorio nazionale, sia, in rete, su quello europeo. Ne fanno parte consorzi o cooperative di agricoltori, altre associazioni che si occupano di questioni rurali e/o di promozione culturale, e vari attori della filiera agroalimentare interessati a processi produttivi caratterizzati da un basso impatto ambientale, un equo compenso per gli agricoltori e la realizzazione di una elevata qualità nutrizionale ed organolettica, nonché a un nuovo rapporto con i consumatori finali, che si cerca di rendere consapevoli e coinvolgere attivamente nel processo. Il lavoro di queste reti parte dal presupposto che le cosiddette “varietà antiche” o locali portino un valoro aggiunto ai produttori, sia in termini di minori costi di produzione sia in termini di prezzo di vendita, grazie alle reti di consumatori sensibili e consapevoli che sostengono economicamente gli agricoltori attraverso l’acquisto diretto dei loro prodotti (Jerome Enjalbert et al., 2011). Da un punto di vista più strettamente agronomico l’evidenza di campo mostra come le varietà locali, le vecchie varietà o popolazioni e miscugli varietali siano più adatte ai sistemi di coltivazione biologici grazie all’eterogeneità che funziona da agente tampone contro eventi imprevedibili, come attacchi parassitari, o condizioni climatiche instabili. Molti agricoltori effettuano un qualche tipo di selezione sulle popolazioni che coltivano, sia per mantenere caratteri desiderabili, sia per incrementare l’adattamento e le performances di queste popolazioni alle caratteristiche specifiche del proprio contesto, agendo in tal senso come una selezione naturale accelerata (Jerome Enjalbert et al., 2011; Jarvis et al., 2016).

Ai vantaggi di tipo agronomico-ambientale offerti dalla gestione della agrobiodiversità on farm si aggiungono vantaggi di tipo sociale. Da questo punto di vista, la DM on farm presenta notevoli differenze dalla gestione ex situ, poiché prevede il coinvolgimento diretto degli agricoltori, di cui

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valorizza le competenze e l’esperienza, oltre a numerosi altri stakeholder, in un’ottica di network e di transdisciplinarietà.

Il ruolo degli agricoltori nella gestione dinamica dell’agrobiodiversità in azienda

Come osservano alcuni autori (Woode e Lenne, 1997), l’agricoltura tradizionale è caratterizzata da elementi che si sono persi nel percorso di modernizzazione del sistema agricolo, in particolare legati al know-how degli agricoltori, considerati da sempre i custodi della biodiversità. Vengono evidenziate per esempio alcune caratteristiche positive, tra le altre:

• la ricerca costante, da parte degli agricoltori, di nuovi caratteri per le loro piante; • l’abilità degli agricoltori di sperimentare con questa diversità;

• la competenza degli agricoltori nella gestione di un “portfolio” dinamico di varietà.

Tradizionalmente gli agricoltori acquisivano nuove varietà dallo scambio (Grisley, 1994; Johnson, 1972), acquistandole dal mercato (de Schlippe, 1956), o infine tramite ibridazione naturale tra varietà normalmente propagate vegetativamente (Wood e Lenne, 1993). Se l’innovazione si rivelava empiricamente un successo, veniva prontamente adottata (Woode e Lenne, 1997).

Jerome Enjalbert e colleghi riportano come gli agricoltori coinvolti nella DM on farm pratichino una serie di attività, che vanno dal mantenimento delle varietà locali (conservazione on farm) al miglioramento genetico partecipato (da ora PPB, Plant Participatory Breeding). Il PPB diventa una parte fondativa del processo di DM on farm, in quanto rimette al centro il lavoro degli agricoltori nella selezione e conservazione della agrobiodiversità.

La gestione dinamica della biodiversità on farm: il caso italiano

A livello europeo esiste un’esperienza di DM on farm di durata ormai quasi decennale. Gran parte di questa è stata sviluppata all’interno di vari progetti europei, a iniziare dal progetto SOLIBAM, realizzato nel periodo 2010-2014 (nell’ambito del 7° Programma Quadro), che vedeva coinvolti dodici paesi dell’unione in una sperimentazione su popolazioni di frumento, altri cereali e ortive. In Italia il progetto ha coinvolto Rete Semi Rurali, insieme a Università, altri centri di ricerca e aziende agricole.

L’obiettivo del progetto SOLIBAM è stato quello di collaudare strategie innovative per lo sviluppo di nuovi approcci alla selezione varietale, con particolare attenzione al miglioramento della resa, della qualità, della sostenibilità e della stabilità delle colture in un contesto di mancanza di varietà specificamente adatte all’agricoltura biologica o a basso input (RSR, 2016).

Nell’ambito del progetto è stata avviata una delle prime sperimentazioni di PPB all’interno delle aziende agricole coinvolte. La selezione partecipata punta ad arricchire la base genetica delle varietà permettendo l’adattamento ad ambienti diversi e a diverse pratiche, con l’obiettivo di creare nuove varietà locali. Questo tipo di lavoro è possibile quindi solo se le varietà da valutare sono a disposizione degli agricoltori e vengono coltivate secondo le pratiche agricole proprie degli specifici contesti. Per questo motivo il PPB viene sviluppato solo in progetti in cui le prove sono condotte on

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farm. In questo processo di ricerca partecipata, il progetto SOLIBAM ha coinvolto nella sperimentazione anche i cittadini/consumatori, utilizzatori finali dei risultati della ricerca. Il coinvolgimento dei diversi attori (agricoltori, consumatori, trasformatori) nelle varie fasi del processo di ricerca ha dimostrato di essere un ottimo modo per migliorare l’efficienza della selezione varietale e simultaneamente incrementare la diversità a livello agricolo e nell’intera catena alimentare.

Per quanto riguarda in modo specifico l’agricoltura biologica e a basso input, la ricerca decentrata e partecipata sembra essere il modo migliore per potenziare questi sistemi. Attraverso di essa, le conoscenze locali di cui sono portatori gli agricoltori vengono a integrarsi con la competenza scientifica propria dei ricercatori, in un processo di co-creazione di nuova conoscenza, che rappresenta uno dei cardini per lo sviluppo di nuova conoscenza del modello agroecologico.

Grazie ai dati raccolti nel corso del progetto SOLIBAM, sono seguiti altri progetti europei che, tra le varie attività, hanno approfondito ulteriormente la gestione dinamica on farm di popolazioni e varietà locali in sistemi di agricoltura low input o biologica. Tra questi si può citare il progetto DIVERSIFOOD (Horizon 2020), rivolto, in un’ottica fortemente transdisciplinare e partecipativa, ad esplorare e creare condizioni per la reintroduzione di agrobiodiversità nei sistemi agroalimentari. Al suo interno hanno contribuito in tal senso le attività di ricerca-azione sulla selezione/riproduzione in azienda di vecchie e nuove varietà e di popolazioni, sulla gestione collettiva di case delle sementi e sulle modalità di valorizzazione culturale ed economica dei prodotti finali.

Questi percorsi di sperimentazione hanno creato condizioni favorevoli per l’apertura del sistema normativo europeo in materia di sementi alla commercializzazione di popolazioni (intese qui come materiale eterogeneo e quindi diverso dalle varietà), che rappresenta un fattore fondamentale per lo sviluppo delle attività oggetto della ricerca eseguita nel presente lavoro.

1.4 Il quadro normativo di riferimento

Il sistema sementiero attuale in Europa

A partire dalla seconda metà del XIX secolo la qualità del seme e in particolare la sua caratteristica di contenitore di materiale genetico sono state sempre più al centro dell’attenzione delle politiche nazionali e internazionali come fattori essenziali per rese elevate e produzioni di qualità (Louwaars, 2008). In questa prospettiva, nei Paesi industrializzati le sementi sono venute ad essere considerate non più in qualità di veicoli di tecnologia ma come commodity commerciali. Lo sviluppo del settore sementiero a livello internazionale ha portato a una crescente influenza di questo sull’agenda politica dei singoli stati nazionali. Nell’ambito degli accordi economici, e in particolare quelli del World Trade Organization (OMC, Organizzazione Mondiale del Commercio), la liberalizzazione del mercato ha interessato anche il settore delle sementi. Inoltre, l’accordo TRIPs (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) del WTO ha richiesto a ciascun Paese di stabilire un sistema di proprietà intellettuale per le varietà di piante (Louwaars, 2008). Nel sistema formale si è dunque affermata l’applicazione di modelli di proprietà intellettuale sempre più restrittivi (diritti del costitutore, copyright, indicazioni geografiche e brevetti) a tutela dell’innovazione portata avanti

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dalla ricerca privata/pubblica su cui si basano le varietà commerciali, concedendo al titolare del diritto (un selezionatore o la sua istituzione di appartenenza) un monopolio esclusivo per un determinato periodo di tempo.

Nel 1961 l’Europa ha adottato la Convenzione UPOV, la soluzione più comunemente adottata dai Paesi come sistema alternativo al brevetto per la protezione delle varietà vegetali. UPOV sancisce il diritto del costitutore sulla varietà migliorata, prevedendo il pagamento di royalties per l’uso commerciale del seme o del materiale vegetativo. A partire dal 1978 la convenzione prevede due eccezioni alle restrizioni ai diritti del costitutore: l’esenzione per la ricerca e il privilegio dell’agricoltore. Queste eccezioni permettono di usare liberamente anche varietà protette, a fini di miglioramento genetico, sperimentazione in campo e autoriproduzione della semente (cioè per usi non commerciali). Con le modifiche apportate nel 1991 la decisione sull’applicazione di queste due eccezioni sono state lasciate ai singoli Paesi, permettendo di adottare un sistema più restrittivo, molto più simile al brevetto (RSR, 2015). Inoltre, per poter essere commercializzata, una varietà deve prima essere iscritta al catalogo europeo e nazionale, previa autorizzazione dell’ente certificatore (in Italia la certificazione è a carico del CREA DC). Al fine della certificazione una varietà deve rispettare i criteri DUS: distinzione, uniformità e stabilità. Al momento della presentazione della domanda d’iscrizione la nuova varietà si deve differenziare per uno o più caratteri importanti da qualsiasi varietà nota nella UE; le piante che compongono la nuova varietà, a parte qualche rara eccezione, devono essere simili o geneticamente identiche per l’insieme delle caratteristiche considerate; la varietà deve restare conforme alla definizione dei suoi caratteri essenziali al termine delle sue riproduzioni o moltiplicazioni successive.

Il sistema così creato ha ridotto il margine di azione degli agricoltori rispetto alla produzione e alla circolazione delle sementi, sia perché ne ha limitato le capacità di accesso alle risorse sia perché questi regimi di proprietà intellettuale non sono adatti a proteggere e valorizzare l'innovazione collettiva e basata su un sapere spesso orale o informale. In questo modo le politiche agricole, le legislazioni sementiere e le normative sulla proprietà intellettuale hanno di fatto relegato ai margini della legge queste attività, con un grave danno non solo per il mantenimento e la creazione della diversità agricola ma anche per quelle agricolture a basso impatto che non trovano ad oggi sul mercato varietà che più rispondono alle loro esigenze di adattamento locale, stabilità e qualità. Le aperture nel quadro normativo: le varietà da conservazione e la deroga alla legislazione sulle popolazioni

L’Unione Europea è parte contraente della CBD2, i cui obblighi sono riportati nella “Strategia Comunitaria per la Diversità Biologica” del 1998, in vigore dal 2011. Questa strategia ambisce ad arrestare la perdita di biodiversità entro il 2050, con una tappa intermedia al 2020, e a facilitare la transizione dell’Europa verso una economia più “verde”. L’Unione Europea è anche parte

2 La Convenzione sulla diversità biologica (CBD, dall'inglese Convention on Biological Diversity) è un trattato

internazionale adottato nel 1992 al fine di tutelare la diversità biologica (o biodiversità), l'utilizzazione durevole dei suoi elementi e la ripartizione giusta dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento delle risorse genetiche.

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contraente del Protocollo di Nagoya (Regolamento EU 511/2014) e del Trattato FAO3. Nel 2001, inoltre, la Commissione europea ha approvato il Piano d’azione a favore della biodiversità nel settore dell’agricoltura.

Per cercare di coniugare gli aspetti della conservazione della diversità agricola con la legislazione sementiera, nel 1998 la UE ha coniato il nuovo concetto di “varietà da conservazione” (Direttiva UE 98/95), anche in risposta al crescente movimento di agricoltori biologici e di cittadini attenti a queste tematiche. Questa direttiva riconosce espressamente che “è essenziale garantire che vengano conservate le risorse genetiche vegetali, […] un fondamento giuridico a tal fine dovrebbe essere introdotto per consentire, nel quadro della normativa concernente la commercializzazione delle sementi, la conservazione, mediante l’utilizzazione in situ, delle varietà minacciate da erosione genetica” (publications.europa.eu). La possibilità di commercializzazione delle varietà da conservazione, con criteri e procedimenti ad hoc, crea quindi uno spazio di legalità per i materiali fino ad allora “informali”, per non dire “illegali” a livello commerciale.

L’intenzione è quella di favorire un mercato specifico, con regole più appropriate alle necessità degli utilizzatori di queste varietà e alimentato da piccole ditte sementiere decentralizzate sul territorio, che possa coesistere in parallelo al settore sementiero delle grandi imprese al servizio dell’agricoltura convenzionale. Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, le direttive di attuazione dei principi contenuti nella Direttiva 98/95 sono uscite solo a partire dal 2008.

Un altro importante esempio che va nella direzione di un maggior riconoscimento dei sistemi sementieri informali si può leggere nella Decisione di Esecuzione della Commissione del 18 marzo 2014, che ha aperto la possibilità di commercializzare in via sperimentale materiale eterogeneo. L’oggetto della sperimentazione sono le popolazioni o altri materiali con un basso livello di uniformità che non permette la loro iscrizione nel catalogo. Per la prima volta il dogma dell’uniformità alla base della definizione di varietà viene messo in dubbio.

La situazione italiana

Queste aperture nella legislazione sementiera verso la registrazione e commercializzazione di materiale geneticamente eterogeneo si inserisce in un percorso decennale di sperimentazione su varietà e popolazioni, che ha coinvolto numerosi Paesi dell’Unione Europea, tra cui l’Italia.

Grazie al lavoro di Rete Semi Rurali l’Italia è stato tra l’altro il primo Paese membro a promulgare una legge sulle varietà da conservazione con una norma nazionale prima dell’approvazione della direttiva europea 2008/62 sulle specie agrarie. Nel 2007 il Parlamento italiano ha infatti approvato la legge 46/2007, contenente l’articolo riguardante la commercializzazione delle Varietà da Conservazione da parte degli agricoltori. Per rendere operativa questa possibilità è stato necessario anche modificare il quadro delle norme che regolano il settore fitosanitario, costruendo un sistema

3Il trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche e per l'alimentazione e l'agricoltura (International Treaty on Plant

Genetic Resources for Food and Agriculture ITPGRFA), comunemente conosciuto come "trattato internazionale" o "trattato internazionale sui semi", è un accordo internazionale multilaterale che mira a garantire la sicurezza alimentare attraverso la conservazione, lo scambio e l'uso sostenibile delle risorse fitogenetiche mondiali per l'alimentazione e l'agricoltura, così come pure l'equa condivisione dei benefici che possa nascere dal suo uso, in accordo con la Convenzione sulla diversità biologica.

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di deroghe specifiche per gli agricoltori che vogliono commercializzare il seme di varietà da conservazione. In termini applicativi, per gli agricoltori interessati a vendere sementi di varietà da conservazione è necessario risiedere nell’areale di origine della varietà in questione ed avere una specifica licenza dai Servizi Fitosanitari Regionali, in maniera semplificata rispetto alle ditte sementiere (RSR, 2015).

Nel 2017 grazie alla Decisione di Esecuzione della Commissione del 18 marzo 2014 che consentiva, in via derogatoria, l’iscrizione di popolazioni al registro nazionale (solo per le specie di frumento tenero e duro, orzo e mais), Rete Semi Rurali ha potuto registrare le popolazioni di frumento tenero e frumento duro denominate SOLIBAM (dal nome del progetto europeo in cui è stata oggetto di sperimentazione). Sempre nel 2017 la popolazione di frumento tenero SOLIBAM è stata oggetto di un progetto PEI (Partenariato Europeo per l’Innovazione), nell’ambito del PSR della Regione Toscana, finalizzato a valutare la creazione di sistemi sementieri locali.

1.5 Il ruolo nuovo della ricerca nei sistemi agricoli sostenibili: l’approccio partecipato, multi-attoriale e transdisciplinare per un’innovazione anche sociale

La transizione verso modelli di agricoltura “sostenibile” richiede anche un nuovo approccio all’innovazione, che superi l’approccio specialistico nella sua generazione e quello di un suo trasferimento top-down (dalle stanze della ricerca direttamente in campo), entrambi considerati ampiamente inadeguati, e guardi piuttosto all’innovazione come frutto dell’interazione in contesti multi-attoriali, e come tali anche in grado di adottare un approccio integrato (Knickel et al., 2009; Klerkx et al., 2012).

In qualità di modello per l'agricoltura sostenibile, l'agroecologia richiede un cambiamento dei ruoli dei soggetti direttamente coinvolti e, in tale ambito, anche la partecipazione degli stessi nei progetti di ricerca. Quest'ultimo punto ha suscitato molta attenzione nel mondo della ricerca che, soprattutto in progetti nel Sud del mondo, ha restituito centralità agli agricoltori attraverso il loro coinvolgimento diretto nell'attività di sperimentazione, a partire dai loro bisogni come utilizzatori finali della nuova conoscenza (Warner, 2005). Anche nei paesi industrializzati alla partecipazione dei produttori ai processi di apprendimento sociale è attribuita un’importanza crescente, soprattutto quando questi sono funzionali ad una riprogettazione del sistema aziendale alla luce di condizioni ecologiche specifiche e locali (Warner, 2005).

L’innovazione sociale dal basso presuppone che gli attori del sistema (siano essi agricoltori, consumatori o ricercatori) “cambino la loro mentalità” (Schneider, 2009, pag. 476) attraverso lo sviluppo del pensiero critico e attraverso le interazioni e il dialogo. La comunicazione diventa essenziale per imparare gli uni dagli altri, per costruire un clima di fiducia e per garantire solidi risultati da tali interazioni (Schneider, 2009). Questo però richiede un rinnovato approccio, sia da parte degli agricoltori, abituati a ricevere passivamente la conoscenza da altri, sia da parte degli stessi ricercatori, che devono abbandonare il loro tradizionale ruolo di esperti. Il nuovo approccio deve quindi interessare gli obiettivi della ricerca (es. preservazione delle risorse naturali, salubrità dei prodotti finali, riorganizzazione delle filiere, anche in termini di redistribuzione del potere e di

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equa ripartizione del valore economico) e le modalità stesse di svolgimento della ricerca (interazione tra agricoltori e ricercatori nella produzione e circolazione della conoscenza, riconoscimento economico dell’impegno degli agricoltori).

Tutte le forme di conoscenza arricchiscono il contenuto del sapere. La conoscenza esperienziale degli agricoltori può contribuire alla progettazione di sistemi adatti al contesto specifico in cui vengono utilizzati, per esempio attraverso la selezione di determinate varietà di piante o di razze di bestiame. Il sapere scientifico può fornire spiegazioni per quel che concerne i processi e fenomeni che sono difficili da osservare e quindi da comprendere ad occhio nudo.

Uno dei punti focali dei progetti partecipativi è rappresentato dal ruolo che il sapere trasmesso “peer-to-peer” (tra agricoltore e agricoltore) assume nel sistema. L'importanza di questo sistema di conoscenza non si limita solo alla condivisione di contenuti, ma comprende anche la creazione e trasmissione del sapere, in un processo che diventa collaborativo, aperto al confronto e potenzialmente allargato a tutti i diretti interessati. In questo senso si parla di ‘co-creazione di sapere’, invece che di semplice condivisione del sapere.

Le innovazioni che emergono da questo tipo di processi, che l'agroecologia sostiene e favorisce, non sono solo di tipo tecnico ma anche di tipo sociale e politico. Tali innovazioni però necessitano spesso di lungo tempo per potersi affermare, poiché sono il frutto di ripetuti incontri e condivisioni. Nel caso dei progetti di partnership ciò risulta evidente. Solo attraverso una reiterata negoziazione è infatti possibile che alcune categorie di produttori, solitamente poco inclini a scelte che si basino su valori che non comprendano come primo elemento il fattore economico, si avvicinino ad un modello di gestione aziendale basato su principi di rispetto ambientale e di giustizia sociale. L'importanza della partecipazione diretta dei produttori all'interno del progetto infatti non si esaurisce solamente nel contributo alla gestione della partnership, ma è legata anche alla legittimazione delle attività svolte agli occhi degli altri produttori (Warner, 2005). Per questo motivo la creazione di una rete di agricoltori che si scambiano le proprie esperienze e condividono le proprie conoscenze, apprendendo quindi in un modo del tutto nuovo, risulta un pilastro fondamentale del nuovo approccio della ricerca.

1.6 Gli strumenti delle politiche dell’innovazione: i PEI-agri. Approccio di network, partecipativo, plurale

Riuscire ad accrescere i processi di innovazione in agricoltura è stato un obiettivo importante dell’Unione Europea per il periodo di programmazione 2014-2020. Per riuscire a raggiungere tale obiettivo l'Unione ha sostenuto uno dei principi ispiratori delle politiche rurali dell'ultimo ventennio: la progettazione e implementazione guidata dal basso (bottom-up). L’obiettivo è quello di promuovere percorsi che siano in grado di coinvolgere le aziende agricole, in quanto basati sulle effettive esigenze degli agricoltori, secondo strategie che comportino un’innovazione non solo tecnologica ma anche sociale.

Il nuovo "Partenariato Europeo in materia di produttività e sostenibilità dell'agricoltura" - più in breve, “Partenariato Europeo per l’Innovazione”, PEI – è stato la cornice creata dall’UE per

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raggiungere gli obiettivi di innovazione; nel caso dell’agricoltura di parla di PEI-Agri (PEI-Agri). La proposta prevede la costituzione di "Gruppi operativi", costituiti da una diversità di attori, su tematiche di interesse comune, i quali, attraverso il diretto coinvolgimento degli utilizzatori finali – in questo caso gli agricoltori – mirano a ottenere l’utilizzo immediato dell’innovazione proposta dal Gruppo operativo. Ogni Gruppo operativo ha il compito di elaborare un piano, denominato “Piano strategico”, che descriva il progetto innovativo da realizzare, i risultati ottenuti e il concreto contributo dell’iniziativa per i destinatari dell’innovazione. Ciascun soggetto del Gruppo operativo è coinvolto per apportare il proprio contributo all’innovazione secondo un approccio “multi-perspective”: in questo modo anche gli agricoltori riescono ad apportare la propria visione, e si instaura un processo di mediazione e di confronto tra le diverse prospettive degli attori coinvolti, ognuno dei quali porta con sé un bagaglio di conoscenze e di esperienze differente, arricchendo così i contenuti del progetto innovativo. I fondi per finanziare i progetti derivano dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr) che contribuisce direttamente alla costituzione, gestione, programmazione (inclusi studi propedeutici, animazione e divulgazione dei risultati), nonché le iniziative e gli interventi in azienda dei "Gruppi operativi" (www.europa.eu).

2. IL CASO STUDIO “CEREALI RESILIENTI”

2.1 Descrizione del caso studio

Nel presente lavoro prendo in esame il caso studio di un progetto PEI (“Cereali resilienti”), finanziato dal Piano di Sviluppo Rurale (PSR) della Regione Toscana che si è svolto nel periodo aprile – novembre 2017. L’obiettivo di questa analisi è di valutare come il contesto che si è venuto a creare a livello europeo e nazionale, precedentemente descritto, abbia influenzato un processo di gestione dell’agrobiodiversità a livello locale. Più nello specifico, attraverso il caso studio analizzerò come l’approccio partecipativo, multi-attoriale e transdisciplinare sia stato implementato e in che misura abbia raggiunto i diversi obiettivi del progetto, evidenziando elementi positivi come anche criticità.

La Regione Toscana tramite il PSR ha messo a disposizioni finanziamenti con il bando per l’attuazione dell’operazione relativa alla sottomisura 16.1, dal titolo “proposta per l’impostazione (setting up) di un Gruppo operativo (GO) del PEI AGRI – annualità 2016”. (Bando PSR, modulo B, pag. 1). Questa prima fase del PEI si propone di iniziare un processo di formazione di un Gruppo operativo, che entrerà nella fase operativa solo nella seconda fase progettuale, tramite la sottomisura 16.2. I soggetti che partecipano a questa prima fase sono dunque impegnati nello sviluppare relazionalità e progettualità da mettere in atto della fase successiva. Non tutti i partner sono destinatari dei finanziamenti (alcuni sono solo “osservatori”, con la prospettiva di entrare nella seconda fase del progetto). Nello specifico, il finanziamento ha coperto le attività del progetto al 100%, per un totale di 49.940 euro (modulo B, punto 4 “Ripartizione dei costi”, pag. 13).

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Una breve premessa: le popolazioni SOLIBAM

Il progetto “Cereali resilienti” si è innestato, come detto in precedenza, in un processo reso possibile dalla deroga alla legislazione in materia di commercializzazione di materiale eterogeneo concessa dalla Decisione della Commissione europea, in via sperimentale, nel periodo 2014-2018. Grazie a questa apertura nella legislazione sementiera, nel 2017 è stato possibile iscrivere al Registro nazionale delle varietà una popolazione di frumento tenero e una popolazione di frumento duro con il nome, rispettivamente, di SOLIBAM tenero Floriddia e SOLIBAM duro Floriddia (Floriddia è il nome dell’agricoltore che ha portato avanti la sperimentazione sulle popolazioni presso la propria azienda agricola dal 2011 al 2017 con il supporto di RSR).

Le popolazioni considerate derivano dal lavoro realizzato nel corso di 3 progetti di ricerca a livello europeo SOLIBAM, COBRA e DIVERSIFOOD. Il primo progetto è stato Strategies for Organic and Low Input Integrated Breeding and Management (SOLIBAM, 2010-2014 - www.solibam.eu), finanziato dal VII Programma Quadro. Mentre erano in corso le attività di SOLIBAM il programma di ricerca Core-Organic II ha finanziato un consorzio di 41 partner in 18 paesi europei per coordinare e validare le ricerche fatte nei diversi paesi sulle popolazioni (Composite Cross Population /CCP). Il progetto Coordinating Organic Plant Breeding Activities for Diversity (COBRA www.coreorganic2.org/COBRA) si è chiuso nella primavera del 2016. Con la chiusura di questi due progetti, il lavoro sperimentale sulle CCP ha trovato prosecuzione all’interno di un altro progetto di ricerca europeo finanziato dal programma Horizon 2020. Si tratta di DIVERSIFOOD (Embedding crop diversity and networking for local high quality food system - www.diversifood.eu), che riprende il lavoro e i risultati di SOLIBAM e COBRA estendendo il numero di specie coinvolte e includendo studi socio-economici specifici a livello delle filiere coinvolte. Grazie a questi progetti, cui RSR ha partecipato direttamente o tramite alcuni dei suoi soci, sono disponibili anche in Italia alcune CCP di frumento tenero, duro e orzo testate dal 2010 in più ambienti della penisola.

Grazie alla eterogeneità che le contraddistingue le popolazioni messe in prova nei campi degli agricoltori hanno subito un processo di adattamento ai diversi ambienti di coltivazione e si presentano quindi molto diversificate tra di loro, pur derivando dallo stesso pool genico. Questa caratteristica le rende ottimali per l’agricoltura biologica e a basso input, in cui non è possibile utilizzare mezzi chimici per modificare le condizioni ambientali in cui si trovano le colture. Per questo motivo l’adattabilità risulta essere un carattere essenziale per questo tipo di sistemi agricoli. Inoltre la diversità genetica, che si esprime attraverso una variabilità fenotipica, consente di ottenere un certo grado di resistenza a malattie e attacchi parassitari (Altieri e Merrick, 1987) e anche questo elemento è centrale per chi coltiva secondo il metodo biologico.

Il progetto “Cereali resilienti: diversità dei cereali per l’adattamento ai cambiamenti climatici” Il Piano strategico in cui è stata descritta dettagliatamente ogni fase del progetto aveva come titolo completo: “Cereali resilienti, Diversità dei cereali per l’adattamento ai cambiamenti climatici”. La tematica di riferimento del PSR era la numero 6/20 “Verifica e adattamento dei sistemi colturali agricoli ai cambiamenti climatici”.

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L’obiettivo generale che il progetto si proponeva è in esso così esplicitato (modello B, sezione III “Proposta di piano strategico da sviluppare”): riportare diversità nel settore cerealicolo biologico e a basso input, caratterizzato da un’assenza di varietà specifiche per il biologico e da una instabilità maggiore rispetto al sistema di produzione convenzionale, caratteristica quest’ultima esasperata dai cambiamenti climatici in atto. L’innovazione al centro del progetto sono le popolazioni, nel caso specifico la popolazione di frumento tenero denominata “SOLIBAM tenero Floriddia.

I partner previsti dal progetto erano otto:

1. Azienda agricola biologica Rosario Floriddia (capofila): situata in Toscana fra le Colline Pisane della Valdera, si estende per circa 300 ettari. Nel 1987 inizia la conversione al metodo dell'agricoltura biologica, nel 2006 passa alla semina di grani di vecchie varietà e dal 2009 in poi vengono coltivati esclusivamente cereali antichi. Nel 2006 entra in funzione il primo mulino a pietra artigianale. Nel 2011 viene realizzato l'impianto di molitura a pietra dotato di un sistema di selezione e pulizia dei cereali all'avanguardia. Contemporaneamente vengono realizzati il pastificio artigianale e il forno a legna per la produzione di pasta biologica, pane ed altri prodotti da forno. L'Azienda collabora con diverse aziende agricole biologiche e biodinamiche, con RSR (tramite il progetto DIVERSIFOOD), con le Facoltà di Agraria di Firenze e di Pisa. Ogni anno presso l’azienda Floriddia si tiene l’evento nazionale di “Coltiviamo la Diversità! Un mese di cereali” durante il quale si possono frequentare workshop di approfondimento sulle tematiche dei cereali e delle filiere, laboratori di panificazione e produzione di pasta e pizza, si possono visitare le parcelle di moltiplicazione ed i campi sperimentali di RSR (progetto SOLIBAM, progetto DIVERSIFOOD) e UNIFI (progetto SEMENTE PARTECIPATA). Nel progetto Cereali resilienti è capofila ed è il partner di riferimento per la macro-area geografica: collina interna.

2. Rete Semi Rurali (RSR): associazione di secondo livello che opera per l'affermazione del valore della biodiversità coltivata. Si è costituita nel 2007 e conta oggi 38 soci: organizzazioni che operano a livello nazionale, regionale e locale per la conservazione dinamica della biodiversità coltivata. RSR è fondatrice, insieme ad altre organizzazioni di altri paesi europei, del Coordinamento Europeo Liberiamo la Diversità. Attraverso i propri soci e direttamente come partner, RSR opera nell'ambito dei programmi di mobilità e di ricerca finanziati dalla Commissione europea. Con il progetto SOLIBAM, RSR ha cominciato a interessarsi al tema della coltivazione di popolazioni eterogenee di frumento, orzo e pomodoro in agricoltura biologica. Con il progetto DIVERSIFOOD (H2020) RSR ha proseguito tale impegno con esperimenti on farm che hanno l'obiettivo di valutare la capacità di adattamento di popolazioni evolutive e miscele di varietà di frumento tenero e duro (Toscana, Molise, Sicilia e Piemonte).

3. Progetto Sterpaia s.s.a.: Il Progetto Sterpaia nasce per mettere in atto il progetto di filiera locale elaborato dal Centro per la Biodiversità Alimentare Villa Pertusati di Rosignano Marittimo concretizzato dalla sottoscrizione di un protocollo d’intesa fra Provincia di Livorno, Amministrazioni Comunali della Val di Cornia, Parchi Val di Cornia Spa, Università di Firenze, Coordinamento Toscano Produttori Biologici e Val di Cornia bio. Attualmente la SSA

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Progetto Sterpaia ospita nei campi del Parco Costiero della Sterpaia e in collaborazione con UNIFI e RSR campi sperimentali e di moltiplicazione di varietà locali e popolazioni. La particolare collocazione dei campi permette la ricerca di varietà e popolazioni adatte alla coltivazione in ambiente salmastro. Nel progetto infatti è il partner di riferimento per la macro-area geografica: area costiera.

4. Dip. di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali Università di Pisa: Il gruppo di economisti agrari del DiSAAA-a ha una lunga esperienza di ricerca nell'ambito dello sviluppo rurale sostenibile. Si è distinto nel panorama scientifico italiano per il suo approccio multidisciplinare che ha aperto l'economia agraria agli studi sociali e alle tematiche relative all'ambiente agrario. In particolare il gruppo di ricerca ha una approfondita esperienza sullo studio di filiere agro-alimentari, sull'impatto socio economico in agricoltura sostenibile, su strategie aziendali individuali e collettive, in metodologie partecipative e multidisciplinari. Sono partner del progetto H2020 DIVERSIFOOD.

5. Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica (FIRAB): nella sua attività istituzionale, risponde alle esigenze di innovazione produttiva e commerciale del settore biologico e biodinamico valorizzando il lavoro delle aziende che sperimentano opzioni tecniche e approcci di gestione delle risorse naturali, dando vita a positive ricadute ambientali e sociali. FIRAB favorisce la divulgazione e la condivisione delle esperienze di ricerca, promuovendo momenti di confronto tra agricoltori e il rafforzamento della rete di aziende sperimentali in Italia e in Europa.

6. Az. agricola Bosco di Silvano Bocciolini: All'interno dell'azienda agricola sono presenti parcelle seminate con vecchie varietà, distribuite dal DISPAA dell'UNIFI nell’ambito del progetto SEMENTE PARTECIPATA (LIFE+) e sono adottati sistemi di rotazione colturale per mantenere l'equilibrio tra fertilità del terreno e il potenziale produttivo e qualitativo, a fronte di una riduzione degli input energetici (concimi, fitofarmaci e diserbanti). Silvano conserva in situ le varietà locali per proseguire l'evoluzione delle popolazioni e il loro adattamento ambientale, si occupa inoltre della loro valutazione, moltiplicazione e mantenimento in purezza. L’azienda possiede licenza sementiera per le ortive. Nel progetto è il partner di riferimento per la macro-area geografica: pianura

7. Mandriato s.s.a.: azienda agricola a conduzione familiare da tre generazioni, dal 2013 ha avviato la conversione in biologico della superficie aziendale. L'azienda ha orientato le proprie scelte produttive verso la multifunzionalità investendo nell'offerta agrituristica e nella formazione, nel rafforzamento della propria capacità produttiva olivicola, nella differenziazione delle produzioni con la reintroduzione dell'allevamento di animali, l'apicoltura, l'avvio di una filiera della canapa e la sperimentazione di varietà locali e popolazioni evolutive di frumento. Nel progetto è il partner di riferimento per la macro-area geografica: collina marittima.

8. Associazione culturale La Piazzoletta: l’associazione, con sede a Semproniano sul Monte Amiata, svolge il ruolo di custode delle sementi e si occupa di tutte le fasi della gestione della semente, dall’acquisto della granella agli agricoltori soci a prezzo pattuito fino alla

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È redattrice certificata di Simplified Technical English e sviluppa insieme ai suoi clienti e al suo Staff di VB Consultech metodi di lavoro e corsi incentrati nella preparazione