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4. NOTE TRADUTTIVE
La traduzione di un’opera di Cristina Peri Rossi, sia essa di poesia, saggistica o narrativa, è un’operazione delicata e allo stesso tempo intrigante, vista la complessità stilistica e tematica della sua scrittura. Prima di passare ad una rassegna analitica di diverse questioni traduttive, vorrei servirmi di alcune affermazioni della scrittrice sulla traduzione come punto di partenza da cui proseguire, poi, ad illustrare le linee generali dell’approccio traduttivo adottato in questo lavoro.
Cristina Peri Rossi è allo stesso tempo autrice tradotta e traduttrice lei stessa (ha all’attivo una ventina di traduzioni dall’italiano, dal portoghese, dal francese e dall’inglese), perfettamente consapevole, dunque, dei meccanismi che determinano l’attività del tradurre. Peri Rossi, con l’atteggiamento passionale che la contraddistingue e lontana da un’impostazione rigidamente razionalista, definisce la traduzione come un processo di amore, come l’appropriazione del testo di un altro che conduce a una sorta di simbiosi in cui, se il traduttore si innamora del testo, “la fedeltà, il tradimento, la proprietà e l’appropriazione si configurano come meccanismi emozionali e appassionati”.1 Come nell’amore l’oggetto del desiderio del traduttore è sempre irraggiungibile: non si può possedere il testo di un altro, né lo si può riscrivere in un’altra lingua senza modificarlo, per cui, sostiene Peri Rossi, la fedeltà assoluta è impossibile. Nell’essere trasferito ad un’altra lingua, il testo tradotto si trasforma sempre in qualcosa di diverso, per cui sia l’autore che il traduttore si sentiranno sempre parzialmente frustrati. Il traduttore dovrebbe pertanto abbandonare la ricerca ossessiva della fedeltà per lasciarsi invece stimolare da quella che Peri Rossi definisce “simbiosi
* * *
1 Cristina Peri Rossi, “Mi experiencia como escritora traducida”, in Isabel García Izquierdo e Ana Cristina García de Toro (eds.), Experiencias de traducción: reflexiones desde la práctica traductora, Castellón de la Plana, Universitat Jaume I, Servicio de Publicaciones, 2005, p. 218.
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emozionale”, e cercare dunque di riscrivere il testo in un altro linguaggio, come se la voce dell’autore diventasse la sua voce, come se la “consustanziazione” con l’autore trasformasse i due linguaggi (quello del testo di partenza e quello del testo di arrivo) in uno solo.2 La relazione tra il traduttore e l’autore dovrebbe perciò essere, per Peri Rossi, amorosa, erotica:
Nadie conoce mejor que el traductor el texto que ha de ser traducido, pues su tarea consiste en sumergirse en el immaginario del autor o autora, sus fantasías y deseos. Por este motivo la relación se convierte en una especie de psicoanálisis. Es, hasta cierto punto, vampírica, fagocitadora, como el amor, y descarada, como la pornografía.3
La posizione di Cristina Peri Rossi sembrerebbe dunque suggerire di ignorare la fedeltà al testo originale come principio assoluto da rispettare nella pratica traduttiva, proponendo invece una traduzione “sentimentale” orientata dalla simbiosi emotiva del traduttore con l’autore e il testo di partenza. Questo, però, non vuol dire abbandonare qualsiasi metodologia o strategia traduttiva, quanto piuttosto allontanarsi dall’idea di traduzione come resa pedissequamente aderente all’originale in nome del principio di fedeltà, idea che spesso rende ancora più inaccessibile al lettore lo spirito che permeava il testo di partenza. Se Peri Rossi sostiene la necessità di abbandonare un approccio di fedeltà cieca e servile alla lingua e al testo di partenza, il suo auspicio non è certo quello di un’infedeltà totale rispetto all’opera da tradurre. Ciò che le preme ricordare, piuttosto, a chi affronta l’impresa della traduzione, è che il testo tradotto implica sempre necessariamente delle perdite, o quantomeno delle differenze, rispetto alla lingua di partenza, e che l’unica cosa a cui bisogna davvero restare fedeli è lo spirito,
* * * 2 Ibidem
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la coscienza del testo, il suo significato profondo, attraverso un linguaggio che può sì discostarsi da una traduzione strettamente letterale ma che deve rendere giustizia all’anima del testo.
4.1. Approccio traduttivo
Partendo dunque dal monito di Peri Rossi al traduttore, il mio primo approccio al testo di partenza è stato proprio un tentativo di penetrare nel romanzo, cercando di cogliere le sfumature presenti ad ogni livello, e stabilire col testo e la sua lingua una relazione che mi permettesse il più possibile di farne mio lo spirito e il significato profondo. Nella pratica, chiaramente, la traduzione è un’operazione molto più ragionata e razionale, complessa e articolata, perché il processo traduttivo non può rispondere all’istinto o all’emotività del traduttore ma deve sottostare ai dettami imperanti di una forza più grande, la lingua.
Nella sua accezione più semplice infatti, per traduzione si intende il tentativo di sostituire un messaggio e/o un enunciato scritto in una lingua con lo stesso enunciato e/o messaggio in un’altra lingua.4 Per diverse ragioni, ogni traduzione comporta sempre una certa perdita di significato, soprattutto a causa della continua tensione, della dialettica e del contrasto originati dalle limitazioni imposte da ciascuna lingua, per cui si tende ad oscillare in continuazione tra ipertraduzione (overtranslation, ovvero un aumento dei dettagli rispetto al testo di partenza) e ipotraduzione (undertranslation, con un aumento della generalizzazione rispetto all’originale) per cercare di supplire al divario tra le due lingue, che hanno sistemi lessicali,
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grammaticali e fonetici diversi e spesso segmentano in modo diverso la realtà fisica e i concetti intellettuali.5 Quest’ultimo aspetto, tuttavia, come sottolinea Newmark, è meno rilevante tra le lingue di culture affini e quanto più sono simili la lingua e la cultura, tanto più sono simili la traduzione e l’originale.6 Vedremo più avanti come in realtà l’affinità tra lingue, sebbene in molti casi possa agevolare il lavoro del traduttore, nasconda, in realtà, anche alcune insidie.
Un altro fattore linguistico che causa inevitabilmente una certa perdita di significato è l’uso individuale che il traduttore fa della sua lingua (il suo idioletto), che non coincide mai con quello dell’autore. Ognuno ha le proprie idiosincrasie lessicali, a volte perfino grammaticali, e può attribuire ad alcune parole dei significati personali. Il traduttore sarà dunque portato a scrivere in uno stile per lui naturale e cercherà di mantenere una certa eleganza e sensibilità, a meno che il testo non imponga una direzione diversa. L’uso della lingua di molti scrittori è infatti spesso volutamente lontano dai canoni convenzionali, e a volte persino in dichiarata contraddizione con essi, nel qual caso il traduttore dovrà rispettare lo scrittore e il testo, non i canoni e le convenzioni stilistiche.7 In circostanze come questa il traduttore dovrà prendere in considerazione quello che Newmark definisce il “criterio di qualità del linguaggio e autorevolezza del testo”: se il traduttore si trova davanti a un testo di qualità, in cui la forma è tanto importante quanto il contenuto e tutte le parole sono componenti essenziali del testo, opera di uno scrittore autorevole, allora dovrà dare la precedenza ad ogni sfumatura di significato suggerita dell’autore rispetto alla reazione del lettore.8
* * * 5 Cfr. ibidem
6 Ivi, p. 25. 7 Ivi, p. 26. 8 Ivi, p. 48.
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A prescindere dalla strategia generale adottata, sia essa di maggior riguardo nei confronti del testo oppure del lettore, credo che il principio da tenere sempre in considerazione sia quello di traduzione come negoziazione proposto da Umberto Eco, per cui la negoziazione è intesa come processo in cui si mettono in gioco conquiste e rinunce al fine di soddisfare ragionevolmente entrambe le parti in campo: da un lato, il testo di partenza, l’autore e la cultura in cui il testo nasce, dall’altro il testo di arrivo, i lettori e la cultura a cui la traduzione è destinata.9 Il principio proposto da Friedrich Schleiermacher, secondo cui “o il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore, e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore, e gli muove incontro lo scrittore” non è più applicabile, secondo Eco, a una traduzione moderna, che tenga conto anche, ad esempio, del mercato editoriale a cui l’opera è rivolta.10 La traduzione, infatti, è sempre basta su un compromesso e “scegliere di orientarsi alla fonte o alla destinazione rimane in questi casi un criterio da negoziare frase per frase”.11
Nel mio approccio alla traduzione del romanzo di Peri Rossi, dunque, ho cercato di tenere in considerazione prima di tutto l’impossibilità della traduzione di essere una riproduzione esatta del testo di partenza, ammettendo dunque l’inevitabilità di alcune perdite; riconosciuta poi la qualità e l’autorevolezza del testo (e dell’autrice), ho ritenuto opportuno cercare un compromesso tra un’aderenza il più possibile fedele al testo e una resa quantomeno naturale nella lingua di arrivo, ma sempre col proposito di rispettare lo stile dell’autore ed evitare interventi che potessero snaturare il
* * *
9 Cfr. Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2012 (ed. digitale), p. 16.
10 Ivi, p. 222. 11 Ibidem
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significato profondo e il profilo estetico del testo. In questo tentativo ho cercato di tenere sempre presente l’insidia della deformazione del testo a cui è naturalmente portato ogni traduttore, propensione che Antoine Berman sistematizza in tredici atteggiamenti traduttivi che egli definisce tendenze deformanti. Nella sistematica della deformazione illustrata da Berman si ritrovano alcuni concetti chiave che ritorneranno nel commento analitico alla traduzione (come quelli di chiarificazione, impoverimento qualitativo, ricchezza iconica, reticoli significanti soggiacenti) per cui propongo qui di seguito una brevissima sintesi della teoria della deformazione elaborata dall’autore.
Le tendenze deformanti nella traduzione
Antoine Berman è stato uno dei massimi teorici della traduzione e sostenitore di un approccio etico alla traduzione e nel suo celebre testo La traduzione e la lettera o l’albergo della lontananza individua, in seno alla pratica traduttiva, delle forze o tendenze che trascinano spesso il traduttore verso una cattiva traduzione, o quantomeno verso una traduzione etnocentrica che non rispetta l’alterità dell’originale.12 Senza entrare nell’aspetto del ruolo etico della traduzione di cui Berman si fa portavoce, e senza prendere in considerazione in questa sede le sue posizioni rispetto a strategie di tipo addomesticante o straniante, la sua analisi delle tendenze che rischiano di produrre un testo di arrivo deformato rispetto al testo di partenza può rappresentare un buon punto da cui partire per indirizzare quanto più possibile nella giusta direzione l’approccio pratico alla traduzione.
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12 Il presente paragrafo dedicato alle tendenze deformanti contiene una sintesi della sistematica della deformazione proposta in Antoine Berman La traduzione e la lettera o l’albergo della lontananza, trad. it. Gino Giometti, Macerata, Quodlibet, 2003, pp. 41-56.
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In ogni traduzione, secondo Berman, opera un sistema di deformazione del testo di partenza, ovvero della “lettera”, che impedisce alla traduzione di attingere al suo vero spirito. L’autore chiama l’insieme di queste tendenze “sistematica della deformazione”, di cui propone un’analisi che assume anche un senso psicanalitico, dal momento che il sistema delle tendenze deformanti è per lo più inconsapevole e si presenta appunto come un fascio di forze che deviano la traduzione dal suo fine ultimo (che per Berman è il fine etico). L’analitica della traduzione e la sistematica della deformazione di Berman si pongono in maniera critica in particolare verso la traduzione etnocentrica e ipertestuale, ma mettono in luce le tendenze a cui è esposto qualsiasi traduttore e che anzi farebbero parte del suo essere in quanto tale, determinando a priori la sua attività.
Tra le tendenze deformanti illustrate da Berman, vorrei segnalare in particolare quelle a cui ho dovuto prestare maggiormente attenzione, e a volte purtroppo cedere, nel corso del mio lavoro di traduzione. Una di queste è senz’altro la razionalizzazione, che deforma l’originale poiché riporta ad una linearità più razionale le arborescenze sintattiche tipiche della grande prosa (ripetizioni, incisi, lunghe frasi ecc.), alterando così segno e statuto del testo. La chiarificazione, invece, tende a rendere esplicito, chiaro, ciò che nel testo di partenza è volutamente implicito, ambiguo, oscuro o represso. Il passaggio dalla polisemia alla monosemia, ad esempio, è un modo di chiarificazione, così come la traduzione parafrastica o esplicativa. Conseguenza delle prime due tendenze è l’allungamento, che fa sì che ogni traduzione sia di solito più lunga del testo di partenza. Sia la razionalizzazione che la chiarificazione, infatti, comportano un allungamento, una “spiegatura” di ciò che invece nell’originale è
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volutamente “piegato”.13 Le traduzioni parafrastiche o esplicative possono forse semplificare la lettura ma, secondo Berman, rendono in realtà più opaca la logica interna del testo e ne cambiano il ritmo. Si tratta in sintesi di quella che viene chiamata “sovratraduzione” o “ipertraduzione” (overtranslation nei termini di Newmark).
Un’altra tendenza che deforma il testo di partenza è la nobilitazione, basata sulla convinzione che un testo debba prima di tutto essere bello, piacevole, e che innesca un processo di retoricizzazione del discorso che vuole l’eleganza come norma suprema, a prescindere che il testo di partenza sia elegante o meno. La nobilitazione si configura dunque come una ri-scrittura che utilizza il testo di partenza come materia prima per produrre un testo che non corrisponde all’originale. Una tendenza deformante che intacca la qualità del testo è anche l’impoverimento qualitativo dovuto alla sostituzione di termini, costruzioni, espressioni dell’originale con traducenti che non possiedono la stessa ricchezza né di significato né sonora, quella che Berman chiama la “ricchezza iconica” dell’originale.14 Quando invece a diversi termini del testo di partenza corrisponde nel testo di arrivo un solo traducente (se si utilizza, ad esempio, unicamente il traducente “volto” per i tre termini spagnoli “semblante”, “cara”, “rostro”) si produce un impoverimento quantitativo del testo. Tutte le tendenze fin qui elencate hanno come risultato l’omogeneizzazione del testo, ovvero la tendenza ad unificare e rendere omogeneo su tutti i piani il tessuto del testo di partenza. Secondo Berman la tendenza all’omogeneizzazione “affonda profondamente le sue radici nell’essere del traduttore” ed è quindi molto difficile da estirpare.15
* * * 13 Ivi, p. 46.
14 “È iconico il termine che, in rapporto al suo referente, “fa immagine”, produce una coscienza di somiglianza”, Ivi, p. 48.
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Nella traduzione la deformazione può provocare anche una distruzione dei ritmi, propri non solo del testo poetico ma anche di qualsiasi prosa, che si produce per esempio operando dei tagli alla lunghezza dei periodi o dei cambi nell’uso della punteggiatura. Altra forza capace di corrompere il testo di partenza è quella che Berman chiama distruzione dei reticoli significanti soggiacenti, ovvero dei significanti che si concatenano tra loro e possono avere un valore fortemente simbolico, anche se spesso non possono essere apprezzati a una prima lettura:
Ogni opera comporta un testo “soggiacente”, dove alcuni significanti chiave si rispondono e s’incatenano, formano dei reticoli sotto la “superficie” del testo, voglio dire: del testo manifesto, dato alla semplice lettura. Così di quando in quando ritornano alcune parole che formano, non fosse che per la loro somiglianza o il loro modo intenzionale, un reticolo specifico. 16
Per Berman la traduzione dev’essere letterale nel senso di rispetto per la “lettera”, che designa tutte le dimensioni attaccate dal sistema di deformazione appena illustrato. Tuttavia, sostiene Berman, per liberarsi delle proprie tendenze deformanti al traduttore non basta semplicemente prenderne coscienza, ma deve invece porre la propria attività traduttiva al centro di una vera e propria analisi, e anche così non può che sperare di affrancarsi solo parzialmente da questo sistema di deformazione.17
Cosciente, dunque, della tendenza alla deformazione intrinseca ad ogni tentativo di traduzione, ho cercato di individuare i punti critici del testo in cui si presentava un più alto rischio di deformazione in modo da restare il più possibile fedele alla “lettera” del testo, nell’accezione di Berman, prestando soprattutto attenzione al peculiare rapporto
* * * 16 Ivi, p. 51.
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tra la lingua di partenza e la lingua di arrivo. Se infatti la vicinanza linguistica tra spagnolo e italiano potrebbe far pensare alla traduzione tra le due lingue come un’operazione semplice e senza ostacoli rilevanti, in realtà proprio l’apparente semplicità dell’impresa può far sì che il traduttore dallo spagnolo incorra in gravi equivoci ed errori.
Solidarietà traduttiva tra lingue affini
Come evidenzia Matteo Lefèvre nel suo testo dedicato alla traduzione dallo spagnolo, un primo elemento utile al confronto tra spagnolo e italiano quando si tratta di traduzione riguarda il concetto di affinità linguistica.18 Spagnolo e italiano, infatti, appartengono al gruppo delle lingue romanze e neolatine e la loro antica origine comune fa sì che le due lingue presentino una notevole somiglianza per quanto riguarda lessico e strutture grammaticali, tanto che la linguistica contemporanea definisce spagnolo e italiano lingue affini. L’affinità tra la lingua spagnola e quella italiana non risiede solo nell’ampia porzione di vocabolario condiviso, ma emerge anche a livello morfologico, sintattico e semantico per cui a livello della frase sia gli elementi dell’enunciato come soggetto, predicato e complemento, sia gli elementi coesivi che determinano l’organizzazione e il significato della frase, nella maggior parte dei casi rispettano la stessa disposizione nelle due lingue.
La similarità di elementi lessicali e strutture morfosintattiche costituisce certo una potenziale e vantaggiosa risorsa nella traduzione di lingue affini, non esente comunque da rischi e possibilità di errore. Il fatto che spagnolo e italiano siano nate entrambe
* * *
18 Cfr. per quanto segue Matteo Lefèvre, La traduzione dallo spagnolo. Teoria e pratica, Roma, Carocci, 2015, in particolare il capitolo “Aspetti e problemi generali della traduzione spagnolo-italiano”, pp. 49-68.
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dall’evoluzione del latino ha costituito senz’altro un vantaggio perché gran parte del lessico di queste due lingue si fonda sulla stessa radice o almeno su un etimo condiviso, per cui moltissimi termini appaiono immediatamente riconoscibili (e traducibili) dai parlanti di entrambe le comunità linguistiche. Questo aspetto permette per esempio al parlante italiano di individuare e riconoscere senza troppi sforzi il significato di gran parte del vocabolario spagnolo e anche il traduttore, quindi, non avrà grandi difficoltà nel trovare il traducente appropriato per termini particolarmente somiglianti all’italiano. Tuttavia, proprio l’alto coefficiente di similarità tra le due lingue, dovuto alla parentela linguistica, non produce esclusivamente un trasferimento positivo ma nasconde anche molteplici insidie. A radici comuni di un determinato termine italiano col suo “simile” spagnolo, per esempio, spesso non corrisponde un’equivalenza semantica o funzionale, così come determinate costruzioni possono avere un uso diverso nella lingua di arrivo.
Lefèvre cita a tal proposito:19
Tanto en el oral como en el escrito llaman la atención […] las correspondencias estructurales y la grande cantidad de coincidencias léxicas; tanto es así, que el hablante tiene la inmediata sensación de comprender la otra lengua y de poderla hablar sin demasiado esfuerzo. Pero, a medida que se va profundizando el contacto, surgen dificultades insospechadas: las afinidades conllevan a menudo divergencias sutiles.20
A una grande simmetria tra spagnolo e italiano, dunque, corrispondono alcuni fenomeni di dissimmetria che affiorano sia a livello sintattico e di strutture grammaticali (ad esempio costruzioni o reggenze preposizionali che cambiano da una
* * * 19 Ivi, p. 52.
20 Maria Vittoria Calvi, “Aprendizaje de lenguas afines: español e italiano”, in F. Sierra Martínez e C. Hernández González (eds.), Diálogos hispánicos, Amsterdam, Rodopi, p. 23.
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lingua all’altra) sia a livello di singoli termini e che creano specifici problemi che emergono nella ricerca di traducenti appropriati e funzionali. Sul piano lessicale la dissimmetria è più evidente tra quelli che sono comunemente chiamati falsi amici, ovvero quei vocaboli che trovano corrispondenze con quelli di un’altra lingua sul piano morfologico, fonetico e grafico ma non sul piano semantico, e possono dunque trarre in inganno. Spagnolo e italiano hanno numerosissimi falsi amici lessicali, alcuni più noti e individuabili anche da un traduttore inesperto, altri più insidiosi.21
Un altro fattore che interviene nel processo traduttivo tra spagnolo italiano è quello della solidarietà semantica che si stabilisce tra associazioni privilegiate tra lemmi garantite dall’uso, le cosiddette collocazioni. Il problema emerge soprattutto nel momento in cui il traduttore deve riprodurre le strutture sintattiche nel testo di arrivo, la cui lingua presenta spesso un diverso rapporto tra i costituenti della stessa espressione. I legami lessicali e sintattici delle collocazioni, infatti, seppur stabiliti da una consuetudine linguistica più che da una norma grammaticale precisa, diventano spesso quasi obbligati dal momento che in determinati contesti si presentano sempre nella stessa forma. Il traduttore deve allora riconoscere tali collocazioni nel testo di parenza e riproporre una struttura appropriata anche nella lingua di arrivo.22 In ogni caso il traduttore deve sempre analizzare a fondo la natura del legame tra due parole per riuscire a capire se si tratta di una collocazione legata all’uso linguistico e perciò obbligata, se è piuttosto dettata da esigenze di registro o se si tratta invece di un accostamento originale suggerito dall’idioletto dell’autore.
* * *
21 Lefèvre propone l’esempio dello spagnolo “torpe” (termine che troviamo anche in La nave de los locos), il cui traducente italiano è “goffo” e non “turpe”, o quello di “exprimir” che significa “spremere”, e non “esprimere”, Matteo Lefèvre, op. cit., p. 54.
22 L’esempio citato da Lefèvre è quello del legame tra “dar” / “pronunciar” / “dictar” una “conferencia”, che non ha una corrispondenza esatta nella lingua italiana per cui invece si tiene, al massimo si dà, ma non si pronuncia né si detta una conferenza. Cfr. ibidem
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Infine, uno degli aspetti più complessi da affrontare in traduzione, e quindi anche nella trasposizione linguistica e culturale dallo spagnolo all’italiano, è quello di alcuni culturemi, ossia di quei termini che, nel nostro caso, incarnano la piena “spagnolità” di un testo (riguardanti soprattutto l’universo ispanico a livello di usi e costumi, di cucina, di arredamento, di vestiti ecc.) e che necessitano pertanto di scelte lessico-semantiche ben ponderate.23
* * * 23 Cfr. ivi, p. 59.
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4.2. Commento analitico alla traduzione
Il carattere sperimentale di La nave de los locos la rende un’opera non sempre facile da affrontare per il lettore, ma chi legge il romanzo in prospettiva traduttiva non può che rimanere affascinato da questo testo che si pone nei confronti dell’aspirante traduttore come un’intrigante sfida.
Per la mia proposta di traduzione ho scelto di non tradurre l’intero romanzo ma di soffermarmi sulla prima metà e sulle ultime sezioni del testo, lasciando da parte i capitoli centrali dal XIV al XVIII. Ho deciso infatti di concentrare i miei sforzi sui capitoli che a mio parere contenevano gli aspetti più interessanti e rilevanti dal punto di vista traduttivo. Questa scelta è stata possibile grazie alla particolare struttura del romanzo in cui i capitoli si configurano come unità semi-autonome e non definiscono un intreccio nella loro progressione. La decisione di eliminare alcune parti dalla traduzione non incide infatti sul significato profondo e sullo spirito dell’intero romanzo che può essere carpito anche da una lettura non integrale dell’opera.
Si è ampiamente parlato nel capitolo introduttivo della straordinaria ricchezza di riferimenti intertestuali presenti nel testo, ed è proprio da questi che vorrei partire nell’illustrare il mio lavoro di traduzione. Un altro aspetto a mio parere molto interessante è la questione del trattamento dei nomi propri, ampiamente trattata dai teorici della traduzione, con cui mi sono dovuta confrontare. Ci sono poi, soprattutto sul piano lessicale, tutta una serie di altri singoli casi su cui ho dovuto concentrare più a lungo la mia attenzione. Infine, una particolarità di questo romanzo, come si è già detto, è l’inserimento nel tessuto testuale di frammenti di diversa natura, tra cui, per esempio, un testo in versi o una serie di frammenti scritti, ci dice il narratore, da
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bambini tra i sette e i dodici anni, che presentano una serie di errori ortografici e riproducono realisticamente la scrittura infantile.
Titoli e riferimenti intertestuali
Come si è visto, il primo riferimento intertestuale che si incontra nel romanzo è proprio il titolo. Ad un primo approccio ci si potrebbe chiedere quale sia il traducente più appropriato per la parola “loco”, che in italiano ha come equivalenti i termini “matto”, “pazzo” e “folle”. Tuttavia, proprio il fatto che il romanzo di Peri Rossi è strettamente legato ad altre opere omonime, non ci sono stati dubbi nell’adottare nella traduzione lo stesso titolo con cui tali opere sono conosciute in Italia (prime tra tutte il testo di Brandt e il dipinto di Bosch): La nave dei folli. In questo modo anche il pubblico italiano può cogliere il rimando intertestuale espresso dal titolo, cosa che non sarebbe stata possibile scegliendo ad esempio come titolo La nave dei matti, perfettamente plausibile se ci si fosse attenuti a una traduzione letterale che non tenesse conto di tutta la rete di rimandi intertestuali impliciti nel testo.
Lo stesso principio vale per la traduzione delle epigrafi che aprono il romanzo (di Fernando Pessoa, J. G. Ballard e George Steiner), per cui ho scelto di utilizzare le traduzioni italiane che circolano in Italia, fatta eccezione per il frammento attribuito a Steiner, per il quale non sono riuscita in alcun modo a trovare il riferimento esatto e di cui ho perciò fornito una traduzione mia, il più possibile letterale.24 Anche per la citazione biblica che apre il secondo capitolo mi sono avvalsa dello stesso criterio: la
* * *
24 Cfr. Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, traduzione di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2011 (15° ed.), p. 73 e James Graham Ballard, Crash, trad. it. Gianni Pilone Colombo, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2004 (edizione digitale).
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citazione inserita da Peri Rossi è infatti riconducibile a un passo preciso dell’Esodo, indicato dal numero del capitolo e del versetto, di cui si riporta la versione più diffusa nei paesi di lingua spagnola. 25 Per la traduzione in italiano, piuttosto che optare per la versione della Bibbia più diffusa in Italia, ho preferito scegliere una versione che contenesse il termine “straniero” (in molte versioni si trova invece “forestiero”), in modo da mantenere l’isotopia ricorrente nel testo.26 Questa scelta ha comportato poi tutta una serie di conseguenze nella traduzione del paragrafo immediatamente successivo, come l’omissione di alcune parole contenute nella citazione originale ma non nella versione italiana.27
Nella stessa pagina, a qualche riga di distanza, si incontra un’altra citazione, questa volta dall’Iliade di Omero: “¡Magnánimo Tidida! ¿Por qué me preguntas sobre el abolengo?”.28 La citazione riportata da Peri Rossi, in realtà, non ha un esatto corrispettivo in nessuna delle versioni ufficiali in lingua spagnola che sono riuscita a reperire, e le versioni più vicine sono “¡Magnánimo Tidida! ¿Por qué me interrogas sobre el abolengo?” e “¡Magnánimo Tidida! ¿Por qué me preguntas por mi linaje?” (sottolineato mio). La frase riportata da Peri Rossi sembra dunque unire le due versioni, ma per la traduzione italiana ho ritenuto opportuno utilizzare la versione più nota e tra le più autorevoli, quella dell’Iliade tradotta da Vincenzo Monti (che recita “Magnanimo Tidide! A che dimandi il mio lignaggio?”) in modo che il lettore del testo di arrivo possa più facilmente rintracciare il riferimento.
* * *
25 Si tratta della versione utilizzata per esempio nella Bibbia conosciuta come Reina-Valera-Gómez. 26 La versione scelta è quella della cosiddetta Nuova Diodati, diffusa in Italia tra i cristiani protestanti. 27 Per esempio le parole “Como se halla. Como” del testo originale non hanno un corrispettivo nella versione italiana dello stesso versetto e l’espressione viene perciò omessa anche successivamente nel corpo del testo tradotto.
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A questa prima citazione ne segue un’altra che si riferisce esattamente allo stesso verso e che, secondo il protagonista, sarebbe un’altra delle tante traduzioni circolanti dell’Iliade: “¿Por qué me interrogas sobre mis antepasados?”.29 In realtà sembra che questa versione non abbia corrispondenti in nessuna delle edizioni dell’Iliade in lingua spagnola da me consultate, per cui ho deciso in questo caso di non utilizzare una traduzione ufficiale italiana ma di fornire una traduzione mia.
Il testo cita inoltre numerosissimi titoli di brani musicali e nella maggior parte dei casi si tratta di titoli di canzoni inglesi o americane tradotti in spagnolo. Tuttavia, dal momento che il romanzo non fa riferimento ad una precisa ambientazione ispanica, ho scelto di sostituire nel testo di arrivo il titolo in spagnolo con il titolo con cui il brano è più conosciuto al pubblico in Italia, talvolta in italiano, talvolta in inglese a seconda dei casi. Polvo de estrellas (p. 11), ad esempio, è il titolo spagnolo della celebre Stardust (1927) di Hoagy Carmichael. La canzone venne tradotta in italiano nel 1948 col titolo Polvere di stelle e si diffuse nelle versioni di artisti come Natalino Otto e Claudio Villa, ed è inoltre colonna sonora dell’omonimo film di Alberto Sordi (1973). Si tratta dunque di un brano noto nel nostro paese con il titolo in traduzione italiana, per cui in questo caso ho scelto di utilizzare il titolo Polvere di stelle. Anche il successivo Algo para recordar (p.11) è il titolo in traduzione spagnola del brano che fa da colonna sonora al film americano An affair to remember (1957), distribuito in Italia col titolo Un amore splendido, che ho deciso di utilizzare nel testo di arrivo. Altri esempi sono quelli di El tercer hombre (p. 12), colonna sonora del film The third man (1949), conosciuto in Italia con il titolo Il terzo uomo, e Mi tonto corazón (p. 12), titolo spagnolo del brano My Foolish Heart colonna sonora dell’omonimo film. Tuttavia in
* * * 29 Ivi, p. 11.
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questo caso non ho scelto di inserire il titolo con cui il film è stato distribuito in Italia, Questo mio folle cuore, ma il titolo con cui è conosciuta la versione italiana della canzone, Estasi d’amore. Per quanto riguarda invece Las hojas muertas (p. 43) ho preferito il titolo originale inglese Autumn leaves. In realtà il brano fa da colonna sonora a un film omonimo che è stato distribuito in Italia col titolo di Foglie d’autunno ma, mentre negli altri casi il brano o ha lo stesso titolo del film (come nel caso di Il terzo uomo) o è conosciuto nel nostro paese con un titolo italiano, in questo caso anche in Italia il titolo della canzone mantiene il titolo inglese. Anche per El tiempo pasará (p. 43), traduzione di As time goes by, titolo della celebre colonna sonora del film Casablanca (1942), ho scelto di utilizzare il titolo in inglese per le stesse motivazioni. Per quanto riguarda i titoli di opere letterarie, invece, questi sono stati chiaramente tradotti coi titoli delle edizioni italiane, e lo stesso vale per i titoli deformati dal narratore inattendibile. Così, ad esempio, El jardín de los anhelos che se bifurcan (p. 40) è stato tradotto con Il giardino degli aneliti che si biforcano, che fa eco a Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges. Per analogia, anche se si tratta di un titolo scaturito dalla fantasia dell’autore, ho deciso di tradurre anche La muerte de un jugador de ajedrez chino (p. 41) di un fantomatico Akira Kusawata con Morte di un giocatore di scacchi cinesi e Mujeres y utopías di tale César Moro (p. 42) con Donne e utopie.
Nomi propri e toponimi
Nel caso dei nomi vale normalmente il principio generale secondo cui i nomi propri non devono essere tradotti ma conservati tal quali. In realtà, come sottolinea Maurizio Viezzi, la validità di tale principio ammette tantissime eccezioni ed è intrinsecamente
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legata alle coordinate spaziali, temporali e culturali del testo di partenza e del testo di arrivo.30 Spesso è infatti opportuno ricorrere a modalità di trattamento dei nomi propri per consentire al destinatario del testo di arrivo di accedere alla dimensione significativa del nome proprio e fruire più proficuamente dell’intero testo. Il ricorso alla traduzione del nome proprio dev’essere ovviamente motivato in ogni contesto specifico e rispettare le esigenze e le priorità della strategia traduttiva adottata. I nomi propri chiaramente non possono sempre essere tradotti e anche quelli traducibili non sempre si traducono, come nel caso dei nomi di persone reali. Diverso il caso dei nomi fittizi, perché la scelta dei nomi propri nella creazione artistica è motivata, deliberata, significativa per il conseguimento di un certo effetto. È questo il motivo per cui i nomi di personaggi fittizi vengono spesso tradotti, soprattutto in certi tipi e generi di testo (per esempio nei testi allegorici o di letteratura per l’infanzia), in particolare quando il nome presenta una certa valenza significativa funzionale alla narrazione. I nomi propri portatori di significato, o nomi eloquenti, come sottolinea Viezzi, possono svolgere diverse funzioni tra cui, ad esempio, la caratterizzazione del personaggio o il perseguimento di un effetto umoristico.31 Il nome eloquente, infatti, concentra in sé un valore identificativo e descrittivo ma anche funzioni indirette come quella di individuare la nazionalità. Si comprende allora come il ruolo dei nomi eloquenti diventa significativo e problematico dal punto di vista traduttivo, ancor di più quando il loro valore descrittivo e pragmatico, come nel caso del nome del nostro protagonista, è strettamente legato alla trama.
* * *
30 Cfr. Maurizio Viezzi, Denominazioni proprie e traduzione, Milano, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2004, http://www.lededizioni.com/lededizioniallegati/viezzi.pdf [ultima cons. 8 dicembre 2016], p. 64.
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Anche Laura Salmon osserva che i nomi propri, tradizionalmente considerati privi di significato come elementi esterni alla lingua del testo, sono invece oggi considerati parimenti significanti come tutte le altre parole di una lingua.32 Spesso, anzi, il loro potenziale evocativo è stratificato su livelli multipli da cui emerge il significato complessivo di un nome proprio: un livello etimologico, la cui trasparenza, col tempo, è annullata dall’uso; un livello fonologico/grafico, significativo dal momento che il modo di pronunciare e di scrivere un nome proprio offre informazioni su chi lo porta e chi lo pronuncia, soprattutto in relazione alla provenienza geografica; un livello morfologico che ci dà informazioni ad esempio rispetto al genere; un livello antonomastico/parodico (come per i cognomi Rossi o Smith); un livello geo-etnico; un livello di marcatezza pragmatica, per cui un nome comune e non marcato per una certa lingua può invece risultare marcato come insolito, buffo oppure pretenzioso e arcaico nella lingua di arrivo.33
Theo Hermans propone una serie di strategie traduttive da adottare nella resa dei nomi propri a seconda del tipo. Hermans divide i nomi, visti in prospettiva traduttiva, in due categorie: i nomi convenzionali (conventional), cioè i nomi non motivati e che non hanno significato di per sé, e i nomi invece carichi di significato (loaded), nomi letterari in qualche modo motivati.34 Questi ultimi possono essere solo debolmente suggestivi, evocativi oppure apertamente espressivi quando sono più evidenti i legami col lessico della lingua, e dunque presentano una più alta carica semantica.
* * *
32 Cfr. Laura Salmon, "La traduzione dei nomi propri nei testi finzionali. Teorie e strategie in ottica multidisciplinare", il Nome nel testo, VIII, (2006), p. 81.
33 Cfr. ivi, pp. 81 e 82.
34 Cfr. Theo Hermans, “On translating proper names, with reference to De Witte and Max Havelaar”, in M. J. Wintle (ed.) Modern Dutch Studies. Essays in Honour of Professor Peter King on the Occasion of his Retirement, London/Atlantic Highlands, The Athlone Press, 1988, p. 13.
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Hermans individua ameno quattro strategie che il traduttore può mettere in atto quando si trova davanti ai nomi propri:
They can be copied, i.e. reproduced in the target text exactly as they were in the source text. They can be transcribed, i.e. transliterated or adapted on the level of spelling, phonology, etc. A formally unrelated name can be
substituted in the target text for any given name in the source text. And
insofar as a name in a source text is enmeshed in the lexicon of that language and acquires 'meaning', it can be translated.35
Il nome proprio può dunque essere semplicemente copiato, ovvero riprodotto nella stessa forma in cui appare nel testo di partenza; può essere trascritto, e quindi traslitterato o adattato nella grafia; può essere sostituito da un nome formalmente non collegato; infine può essere tradotto se il nome proprio appartiene al lessico della lingua di partenza ed è perciò dotato di significato.
In realtà, sostiene Salmon, se un nome significativo, connotato nella lingua di partenza, viene semplicemente copiato, cioè trasferito senza modifiche nella lingua di arrivo, non si sta scegliendo semplicemente di rispettare il testo, anzi, si sceglie di ricodificare con un segno opaco ciò che invece nel testo di partenza era altamente significativo, privando così il destinatario di tutte le associazioni evocate dal nome proprio nel testo originale, nel quale si presentava come un nome eloquente su almeno uno dei livelli prima citati. I nomi propri dovrebbero quindi essere ricodificati nella lingua di arrivo in modo da innescare risposte funzionalmente equivalenti a quelle che provocavano nella lingua di partenza.36
* * * 35 Ibidem
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Peter Newmark è stato il primo tra i teorici della traduzione contemporanei a considerare la complessità della traduzione dei nomi propri letterari. In particolare Newmark, nonostante consideri ancora i nomi propri come esterni alla lingua, ha evidenziato la necessità di ricodificare la connotazione di un nome nella lingua di arrivo. Secondo Newmark, in generale vale il principio per cui il nome proprio di persona non debba essere tradotto, a meno che non abbia già una traduzione accettata o non sia usato come metafora.37 Ma se l’opera è un’allegoria senza riferimenti nazionali, come nel nostro caso, i nomi propri possono essere tradotti in modo che abbiano la stessa efficacia e connotazione degli originali. Se infatti è vero che i nomi propri solitamente non hanno significato o connotazioni, in La nave de los locos alcuni nomi propri, in particolare quello del protagonista, sono nomi eloquenti e portatori di significati anche compositi.
In questa traduzione è dunque valso il principio generale di mantenere invariati i nomi propri. Un’eccezione, però, è il nome proprio del protagonista, che nel testo di partenza è Equis, lemma con cui in spagnolo viene indicata la lettera X, corrispondente al suono [ks]. Come è evidente fin da subito, non si tratta di un nome proprio convenzionale, ma appartiene senza dubbio all’altra categoria di nomi propri segnalata da Hermans, quella dei nomi carichi di significato; è, dunque, un nome eloquente. Anche senza un’analisi particolarmente approfondita possiamo notare fin da subito che la lettera X, oltre a tutte le connotazioni illustrate nel capitolo dedicato al romanzo, denota nell’immaginario comune l’incognita per eccellenza, e più in particolare nel nostro caso, la non appartenenza ad alcun luogo né ruolo sociale o generico-sessuale. Se, come avverte Salmon, mi fossi limitata semplicemente a copiare il nome del
* * * 37 Peter Newmark, op cit., p. 129.
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protagonista, senza alcuna trasformazione, il nome avrebbe perso tutta la sua significatività, dal momento che il lettore italiano difficilmente sarà portato ad associare la parola Equis alla lettera X. La mia scelta è stata invece quella di ricodificare il nome del protagonista Equis in Ics, nome che porta con sé tutte le connotazioni dell’originale e suscita nel lettore italiano una risposta equivalente a quella che il testo di partenza produceva nel destinatario di lingua spagnola.
Negli altri casi ho invece deciso di copiare i nomi propri originali mantenendo invariata anche la grafia, perché appartengono a quella categoria di nomi propri inconfondibilmente convenzionali, anche se alcuni risultano parzialmente motivati (Lucía è colei che condurrà il protagonista alla luce della rivelazione). Diverso il caso del nome Vercingetórix per cui ho deciso di adattare invece la grafia, più che all’italiano, al latino (senza dunque tradurre il nome con il corrispondente italiano Vercingetorige). Il nome del personaggio di Vercingetorix, rinchiuso per un tempo indefinito in un campo di concentramento, rimanda infatti all’omonimo condottiero gallo che si era consegnato a Cesare durante l’assedio di Alesia e fu tenuto prigioniero a Roma per sei anni prima di essere ucciso. Mantenere la tilde (totalmente naturale per le regole di accentuazione spagnole) nel nome di Vercingetorix, che nell’originale non porta con sé alcuna caratterizzazione geo-etnica, avrebbe significato conferirgli invece una provenienza ispanica non esplicitata dal testo che avrebbe probabilmente opacizzato il riferimento al nome latino.
Un altro caso particolare di traduzione di un nome proprio è quello del cavallo Faisán. Nel capitolo XX troviamo infatti citati dei nomi di alcuni cavalli da corsa: “Faisán. Emperador. Junior. Heliogábalo”.38 In questo caso ho deciso adattare
* * * 38 Cristina Peri Rossi, La nave…, p. 181.
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all’italiano i nomi di Emperador ed Heliogábalo (Imperatore ed Eliogabalo) in quanto parzialmente espressivi o quanto meno evocativi. Per quanto riguarda il nome Faisán, invece, ho scelto di optare per la sostituzione del nome proprio con un termine formalmente non collegato.39 Ho ritenuto opportuno infatti considerare quello che Laura Salmon definisce livello di marcatezza pragmatica:40 Faisán indica chiaramente il fagiano ma, mentre per un lettore spagnolo questo nome suona assolutamente accettabile e non marcato per un cavallo (nei paesi ispanici ci sono infatti diversi cavalli da corsa chiamati Faisán), al lettore italiano un eventuale traducente “Fagiano” per un cavallo da corsa sarebbe risultato buffo e ridicolo e avrebbe prodotto un effetto di ironia in questo caso totalmente non voluto e assente nel testo di partenza. Ho deciso dunque di sostituire il termine originale con il nome Falco, che appartiene sempre al campo semantico dei volatili e risulta neutro e non marcato per il pubblico italiano (tanto che in Italia ci sono dei cavalli da corsa che portano questo nome).
Per quanto riguarda i toponimi ho adottato strategie diverse a seconda della situazione. Alla nota numero tre del quinto capitolo viene ad esempio menzionata la città di Trampa, dove Ics ha commissionato ad un libraio alcuni dei libri inventati o dai nomi distorti di cui si è già parlato in relazione alla traduzione dei titoli (ad esempio Il giardino degli aneliti che si biforcano). Anche in questo caso si è tenuto conto della carica semantica di cui il nome è portatore. Ci troviamo infatti davanti a un nome eloquente che ci anticipa l’inattendibilità delle informazioni che seguono, è come se il narratore avvertisse il lettore di prestare attenzione alla trappola che benevolmente gli sta tendendo. Per queste ragioni ho dunque tradotto il nome della città di Trampa con
* * * 39 Cfr. Theo Hermans, op. cit., p. 13.
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Trappola. Diverso il caso di Pueblo de Dios che ho deciso di lasciare invariato perché l’etimologia di questo toponimo è ampiamente illustrata nel testo e le relative connotazioni sono facilmente desumibili dal contesto: “El pueblo a que llegó Equis tenía un nombre místico – Pueblo De Dios – debido […] a que en la Edad Media fue morada y residencia de un hombre místico – antiguo cortesano seductor y disoluto – el cual se dedicó a alabar en sus libros a Dios, en diversas lenguas […]”.41
Per quanto riguarda i toponimi di fantasia Old York, Merlín, Delicate Jersey, Texaco, Ombu-Beach, Psicos-Aires, Asnápolis, Megalópolis, Sonata-Kreutzeur, Anagrama e Quac-quac, tutti nomi in qualche modo eloquenti, alcuni sono stati mantenuti anche in traduzione, mentre altri sono stati adattati per grafia e accento: Anagrama in traduzione è Anagramma, Asnápolis diventa Asinapolis, Megalopolis perde la tilde.42 Il toponimo Sonata-Kreutzeur fa riferimento a una sonata di Ludwig van Beethoven intitolata però Sonata a Kreutzer, per cui ho scelto, in traduzione, di adottare il nome corretto e scrivere dunque Sonata-Kreutzer.
Altri casi sul piano lessicale
Oltre agli interventi su categorie generali come quelle delle citazioni intertestuali e dei nomi propri, durante il lavoro traduttivo mi sono dovuta confrontare con altri casi particolari per lo più a livello lessicale.
Una prima difficoltà mi si è presentata già alle prime pagine, all’inizio del secondo capitolo, con la sequenza di termini “Extranjero. Ex. Extrañamento”.43 Si tratta di termini che contribuiscono a creare quei reticoli significanti soggiacenti al testo di cui
* * * 41 Cristina Peri Rossi, La nave…, p. 74.
42 Cfr. ivi, p. 38. 43 Ivi, p. 10.
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parla Berman. La presenza della lettera X rimanda infatti al nome del protagonista e inoltre i tre termini sono estremamente significativi per le connotazioni e implicazioni che permeano l’intero romanzo: l’idea di non appartenenza, di lontananza, di estraneità, di incognita. In questo caso non ho potuto fare altro che arrendermi a un’inevitabile impoverimento qualitativo rispetto a quella che Berman definiva “ricchezza iconica” dell’originale, data dalla ripetizione della sequenza “Ex”, ma ho cercato di compensare la perdita preservando una certa continuità fonica tra i tre termini ed evitando di disperdere la rete di significanti e isotopie ricorrenti nel testo. La parola “extrañamiento” ha come primi traducenti “esilio” ed “espatrio”, coerenti dal punto di vista del significato con l’elemento paratestuale della citazione biblica prima citata. Tuttavia, ho preferito mantenere l’assonanza con “straniero” e utilizzare il termine “estraniamento”, traducente comunque supportato dai dizionari. La parola “estraniamento” è intesa in questo caso come sinonimo di estraneazione, e indica la condizione di chi si sente estraneo, indifferente all'ambiente che lo circonda, perfettamente coerente, dunque, con la rete di significati che sottende il testo. La continuità fonica tra “estraniato” ed entrambi i termini precedenti risiede nella somma delle iniziali di “straniero” ed “ex”.
Nonostante il carattere sperimentale del romanzo, non ci sono in realtà molti casi di sperimentazione lessicale. Nei capitoli tradotti si incontra solo un neologismo vero e proprio, “berceo”, che si riferisce al moto oscillante del mare:
Observa el proprio Artemius que si bien el movimiento del mar (al cual, curiosamente, llama berceo y a veces meceo o mecimiento) tenía un poder hipnótico sobre los orates […] este fenomeno no se producía en Glaucus Torrender […]. Mientras los otros pasajeros, seducids por el berceo del
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mar – según palbras del ingeniero de navegación – entraban en procesos de aguda hipnosis […] Glaucus vigilaba, atento la derrota de la nave […].44
Nelle fonti lessicografiche consultate il termine “berceo” indica una pianta della famiglia delle graminacee, simile allo sparto. Tuttavia, dato il contesto, escluderei una possibile relazione col termine botanico, mentre sono più propensa a credere che si tratti invece di un neologismo, visto anche l’uso del corsivo da parte dell’autrice e il fatto che il narratore dica che il personaggio di Artemius utilizzi curiosamente questo termine per riferirsi al movimento del mare. Un’ipotesi è che il termine “berceo” sia probabilmente coniato sul francese “bercer”, che significa cullare (da notare che il personaggio a cui è attribuito si trova su una nave salpata da un porto delle Fiandre, zona in cui in diverse epoche ha prevalso la lingua francese). Nel testo di partenza ci troviamo dunque di fronte ad un probabile neologismo la cui radice non è castigliana, mentre la desinenza in –eo riprende il suffisso deverbale spagnolo presente nel successivo “meceo”. Le opzioni che mi si presentavano, dunque, erano due: la prima era quella di mantenere il termine invariato, dal momento che si tratta di un termine opaco e oscuro anche per il pubblico di lingua spagnola. L’altra opzione era quella di utilizzare il termine “cullìo” che mantiene l’aspetto neologico, in quanto non appartenente al vocabolario italiano, e allo stesso tempo risulta semanticamente trasparente per la presenza della radice del verbo “cullare” unita al suffisso deverbale –ìo (che in italiano ha valore intensivo nella formazione di un certo numero di nomi maschili che indicano azioni prolungate o ripetute, esattamente come lo spagnolo –eo in “meceo”) presente nel successivo “dondolio”. La mia scelta è ricaduta su quest’ultima possibilità, pur dando spazio, in questo modo, a quella tendenza alla
* * * 44 Cristina Peri Rossi, La nave…, pp. 50 e 51.
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chiarificazione ostracizzata da Berman e tuttavia a mio parere necessaria in un caso come questo in cui la forma “berceo” sarebbe risultata davvero oscura.
Un ulteriore difficoltà che mi sembra interessante evidenziare è stata quella posta dal termine “la serpiente”. In un passo del romanzo si dice che la faccenda tra il serpente tentatore ed Eva non fu altro che un bisticcio tra donne, ma nel testo di arrivo un’affermazione posta in questi termini non avrebbe avuto senso, perché se il serpente in spagnolo è di genere grammaticale femminile il traducente italiano è invece maschile. Per ovviare al problema ho deciso di aggiungere una precisazione che giustificasse l’affermazione, anche se in questo modo si è prodotto inevitabilmente un allungamento del testo:
Adamo era molto responsabile e serio ma Adamo non sapeva che mentre lui andava per i campi di Dio, lei se ne stava a chiacchierare col serpente, femmina pure lei, che la ingannò perché era molto astutta e quello fu un bisticcio tra donne.45
Un altro problema da affrontare è stata la tradizione del termine “chorizo” nel seguente passaggio:
[Equis] entró al comedor público y pagó uno de los almuerzos baratos, dos platos, postre y agua mineral. Como siempre, el lugar estaba lleno. Vio las paredes pintadas de verde, con algunas manchas de humedad. Chorizo nadando en aceite, y al costado, un huevo frito.46
Il chorizo, insaccato tipico della penisola iberica e di alcuni paesi ispanoamericani, costituisce quello che in traduttologia viene comunemente chiamato culturema. Il
* * *
45 Cfr. ivi, p. 160. L’errore grammaticale è voluto, in quanto la frase è attribuita a un bambino, come si vedrà più avanti.
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culturema è un’unità linguistica specifica che indica in prevalenza elementi della realtà, ruoli istituzionali o contenuti ideologici di una determinata cultura.47 Senza soffermarci sulle varie e numerose strategie di traduzione normalmente proposte in questi casi, riportiamo di seguito i fattori da tenere in considerazione quando si traduce un culturema: il tipo di relazione tra le due culture; il genere culturale in cui il termine si inserisce; la funzione del culturema nel testo originale; la natura del culturema; le caratteristiche del destinatario ed infine la finalità del traduttore.48 Non esistono soluzioni univoche per la traduzione dei culturemi, ma bisogna sempre esaminare il complesso di questi fattori per decidere quale strategia traduttiva adottare. Matteo Lefèvre suggerisce che, in caso di culturemi gastronomici, in sede di traduzione l’opzione migliore sia sempre quella di lasciare inalterato il lemma spagnolo, optando quindi per un prestito puro, inserendo eventualmente tra le righe o al margine una breve descrizione del piatto. Tuttavia, prendendo in esame la funzione del culturema nel testo di partenza, non mi sembra che in questo caso il termine abbia un particolare valore di identificazione geografica o culturale. Secondo Newmark, ad esempio, un termine culturale periferico rispetto al testo dovrebbe di norma essere reso con una traduzione approssimata o con un equivalente culturale, piuttosto che trascritto tal quale.49 In questo passaggio il culturema chorizo mi sembra secondario rispetto al testo, considerato soprattutto il fatto che l’intero romanzo non ha un’ambientazione né geografica né culturale determinata. Se avessi scelto di lasciare invariato il termine spagnolo, avrei invece dato al lettore italiano un preciso riferimento alla cultura
* * * 47 Matteo Lefevre, op. cit., p. 225.
48 Rosa Maria Rodríguez Abella, “La traducción de los culturemas en el ámbito de la gastronomía (Análisis de los folletos de TURESPAÑA)”, Rivista Internazionale di Tecnica della Traduzione, n. 10 (2008), p. 53.
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ispanica, neutralizzando quell’universalità che dà carattere all’intera opera. La mia scelta è stata dunque quella di adottare il traducente “salsiccia” che risulta neutro e non marcato per il pubblico italiano proprio come il termine “chorizo” lo era per il lettore di lingua spagnola.
Più avanti, nello stesso capitolo, troviamo un’altra espressione legata ad una realtà culturale ben precisa:
“SENSACIONAL ESPECTÁCULO TRES PASES CONTINUOS
PORNO SEXY:
SENSACIONALES TRAVESTIES ¿HOMBRES O MUJERES?” VEÁLOS Y DECIDA USTED
MISMO (Franja verde)
L’espressione “franja verde” era utilizzata in Uruguay per identificare gli spettacoli per adulti dal contenuto osceno ed era dovuta alla fascia verde, imposta dalla municipalità di Montevideo, che attraversava in diagonale le locandine di rappresentazioni considerate oltraggiose per la morale pubblica poste all’ingresso dei teatri. Un’espressione come “fascia verde” sarebbe stata del tutto oscura per un lettore italiano (e anzi fuorviante, perché in Italia il colore verde è associato agli spettacoli televisivi adatti ai minori non accompagnati da un adulto), motivo per cui ho scelto di tradure l’espressione con quella equivalente per la lingua e la cultura italiana di “solo per adulti”.
270 Il frammento in versi
Lo sperimentalismo che permea La nave de los locos emerge soprattutto a livello della struttura del testo perché, come ampiamente illustrato nel capitolo dedicato al romanzo, l’opera risulta tanto eterogenea grazie all’inserimento nel corpo narrativo di frammenti descrittivi, digressivi, di cronaca e persino poetici.
Nel capitolo V, infatti, inserito a sua volta all’interno di una nota di chiusura, si trova un testo di quarantuno versi.50 Nonostante si tratti di versi liberi, senza dunque una lunghezza predefinita o uno schema rimico regolare, si possono individuare delle assonanze e alcune rime che contribuiscono a conferire al testo una certa musicalità. Nella traduzione del frammento in versi quella affinità linguistica tra spagnolo e italiano di cui si è discusso sopra si è dimostrata pienamente vantaggiosa. Grazie alle analogie lessicali e alla corrispondenza delle strutture sintattiche, infatti, non c’è stato bisogno di stravolgere l’aspetto formale ed estetico del testo, che riesce così in gran parte a conservare il ritmo dell’originale. Per quanto riguarda le rime e le assonanze, più difficili da preservare, ho cercato di mantenerle laddove possibile: assolutamente identica resta la rima “mia”/ “cortesia” (vv. 5 e 6 “mía”/ “cortesía”), si conservano le assonanze “medievali”/ “mari” (vv. 9 e 12 “medievales”/ “mares”) e “mani”/ “amarci” (vv. 18 e 19 “manos”/ “amarnos”) e la rima “equivalenti”/ “differenti” (vv. 17 e 20 “equivalentes”/ “diferentes”); l’assonanza “strade”/ “vorace” (vv. 14 e 15) è nuova rispetto al testo di partenza (che aveva invece “calles”/ “voraz” non assonanti) e compensa quella perduta tra “mares”/ “calles” (vv. 12 e 14). Inevitabile, invece, la rinuncia alle rime “mía”/ “vacía” (vv. 36 e 39) e quella “ciudad”/ “soledad” (vv. 22 e 25) fondamentale dal punto di vista dei reticoli significanti soggiacenti all’intero testo.
* * * 50 Cristina Peri Rossi, La nave…, pp. 39 e 40.
271 Gli errori ortografici intenzionali
Altro inserto che conferisce la caratteristica eterogeneità strutturale al testo si trova nella sezione intitolata “Eva”.51 Si tratta di ventidue piccoli frammenti che il personaggio di Graciela, in veste di ricercatrice, ha raccolto da alcuni alunni compresi tra i sette e i dodici anni e che riguardano le loro convinzioni sulla vita di Adamo ed Eva. I frammenti sono infarciti di errori ortografici, comuni tra i bambini in età scolare e legati soprattutto al fatto che nella lingua spagnola ad uno stesso fonema possono corrispondere grafemi diversi o che un grafema può non avere un’effettiva realizzazione fonica.
L’errore più frequente nel testo è l’uso del grafema s in sostituzione di c e di z, indipendentemente dal contesto, a causa del fenomeno del seseo diffuso nella maggior parte delle aree di lingua spagnola (per cui al fonema /s/ corrispondono i grafemi s, z e c). Così troviamo “felis” al posto di “feliz”, “hiso” invece di “hizo”, “dise” per “dice”. Altro errore ricorrente è dovuto al betacismo caratteristico della lingua spagnola e alla conseguente confusione tra i grafemi v e b sia in contesto intervocalico (come “estava” invece di “estaba”, o “eba” invece di “Eva”) ma anche davanti a consonante (ad esempio “havlar” al posto di “hablar”). Diffusa anche l’omissione di h (che in spagnolo non ha una corrispettiva realizzazione fonica) a inizio parola (“asta” invece di “hasta”), oppure il suo inserimento arbitrario all’interno della parola (“asthuta” invece di “astuta”). Altri errori sparsi qua e là sono l’assenza della tilde come nella forma imperfetta “habia” (per “había”), la semplificazione del gruppo colto -ct- associata all’assenza di tilde in “eletrica” (invece di “eléctrica”), mentre in qualche
* * * 51 Ivi, pp. 157-161.
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frammento manca il punto fermo tra una frase e l’altra o le virgole a separare gli elementi di un’enumerazione.
Nella mia proposta di traduzione ho cercato dunque di riprodurre lo stesso numero di errori cercandone altri che risultassero equivalenti per la lingua italiana. Alcune volte è stato possibile preservare l’errore ortografico all’interno della stessa parola o della stessa locuzione (per cui per esempio “felis” in traduzione diventa “felicie”, “dise” diventa “dicie”, “asta que” è sostituito da “fino a cuando”, “asthuta” da “astutta”) mentre in altri casi, quando risultava difficile sostituire l’errore dello spagnolo con un altro che fosse ugualmente credibile in italiano, ho compensato inserendone di nuovi in punti diversi ma cercando sempre di mantenere inalterato il numero di errori presenti in ciascun frammento: la confusione tra b e v, ad esempio, è stata compensata in un’occasione dall’errore, molto diffuso nella scrittura italiana, di “un pò” invece di “un po’”, mentre in altri casi troviamo ad esempio la forma del verbo essere alla terza persona singolare del presente senza accento (“e” al posto di “è”) o il verbo avere nella stessa persona senza h iniziale (per cui si trova “a” al posto di “ha”).
I casi sopra elencati rappresentano solo una parte dei numerosi punti del testo che presentavano, se non delle vere e proprie difficoltà, quanto meno delle asperità su una superficie testuale a prima vista piana e agevole. Gli esempi riportati interessano per la maggior parte il livello lessicale del testo mentre dal punto di vista della sintassi non ci sono strutture particolarmente problematiche da segnalare. Per quanto riguarda l’uso della punteggiatura, in alcuni casi particolarmente significativo, ho cercato di restare il più fedele possibile al testo originale almeno finché la lingua italiana lo consentiva, cercando sempre di rispettare il ritmo del testo anche quando è stato necessario apportare qualche modifica. A livello di pragmatica del discorso da segnalare solo la
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scelta, in alcuni casi, della seconda persona singolare dove invece lo spagnolo presentava la forma di trattamento “usted”, come nel cartello dal tono implorante della ragazza che vaga da sola per New York (“Me siento muy sola. Por favor, hable usted conimgo”, p. 70), nella catena della fortuna (p. 175) o nell’annuncio posto all’esterno del locale dove Ics incontrerà Lucía (“Véalos y decida usted mismo”, p. 189), situazioni comunicative in cui l’italiano preferisce la forma di vicinanza “tu”.
Come si è detto, la proposta di traduzione presentata in questa tesi non copre l’intero testo originale e alcuni capitoli del romanzo rimangono esclusi da questo lavoro. Questa scelta, tuttavia, non intende sminuire la rilevanza delle parti omesse, anzi, sarebbe interessante in un prossimo futuro affrontare anche la traduzione delle pagine che sono state tralasciate in questa sede. Nonostante abbia scelto di inserire in questo lavoro le sezioni che a mio avviso contenevano gli elementi più interessanti da un punto di vista traduttivo, sono infatti convinta che l’intero romanzo meriti di essere riscoperto non solo dalla critica ma anche dal pubblico italiano. La ricchezza tematica che questo testo racchiude, infatti, lo rende un romanzo ancora attuale a distanza di oltre trent’anni dalla sua pubblicazione.
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