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Il porto come sistema di relazioni tra soggetti interni ed esterni: fotografia e prospettive del porto di Livorno

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane

Tesi di laurea

Il porto come sistema di relazioni tra soggetti

interni ed esterni:

fotografia e prospettive del porto di Livorno

CANDIDATA

RELATRICE

Alessandra Marino

Prof.ssa Lucia Bonechi

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1

Indice

Introduzione ... 4 4

Capitolo 1 - L’organizzazione come sistema aperto ... 6

1.1 La visione sistemica dell’organizzazione ... 6

1.1.1 Il rapporto organizzazione-ambiente nella teoria classica ... 7

1.1.2 L’ambiente nella concezione moderna ... 8

1.2 Il modello del tessuto causale ... 10

1.3 Un modello per la rilevazione dell’incertezza ambientale ... 12

1.4 Modelli meccanici e modelli organici ... 14

1.5 Le relazioni tra le organizzazioni ... 16

Capitolo 2 – Il sistema portuale ... 18

2.1 Il porto ... 18

2.2 La gestione dei porti prima della riforma ... 20

2.3 La legge di riforma della gestione portuale e l’istituzione dell’Autorità Portuale ... 23

2.4 La struttura dell’Autorità portuale ... 24

2.4.1 Il Presidente ... 25

2.4.2 Il Comitato portuale ... 26

2.4.3 Il segretariato generale ... 26

2.4.4 Il Collegio dei revisori dei conti ... 27

2.5 Il decreto legislativo n. 169 del 2016 e l’istituzione delle Autorità di Sistema Portuale ... 28

2.6 Autorizzazione all’esercizio di impresa portuale ... 31

2.7 La disciplina relativa all’autoproduzione ... 34

2.8 L’impresa terminalista ... 36

2.9 La cooperazione tra le imprese portuali ... 38

2.10 Il lavoro portuale... 40

2.11 Rappresentazione dei soggetti all’interno del porto ... 43

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2

Capitolo 3 – Il trasporto marittimo e il lavoro sul terminal ... 47

3.1 I comparti del trasporto marittimo ... 47

3.1.1 Il bulk shipping: i servizi trampistici ... 47

3.1.2 Lo shipping “specializzato” ... 48

3.1.3 I trasporti marittimi di linea ... 50

3.2 L’interporto ... 51

3.3. I trasportatori globali ... 52

3.4 Gli altri attori del settore trasportistico ... 53

3.4.1 L’agente marittimo... 54

3.4.2 Lo spedizioniere ... 55

3.4.3 L’operatore di logistica ... 55

3.4.4 L’operatore multimodale ... 56

3.4.5 Il mediatore marittimo o broker ... 56

3.5 Trasporto marittimo di container ... 56

3.6 I terminal commerciali ... 60

3.6.1 Il terminal container... 62

3.7 Figure professionali del terminal ... 64

3.7.1 Ship planner (pianificatore nave) ... 64

3.7.2 Yard planner (pianificatore di piazzale) ... 65

3.7.3 Rizzatore (lasher) ... 66

3.7.4 Capo turno... 66

3.7.5 Gruista ... 67

3.7.6 Deckman ... 67

3.7.7 Checker ... 68

3.8 Sbarco ed imbarco contenitori ... 68

Capitolo 4 – Il porto di Livorno ... 72

4.1 Il porto di Livorno ... 72

4.2 Analisi dei dati relativi al traffico di merci e passeggeri ... 73

4.3 Progetti per il porto di Livorno ... 77

4.3.1 Piattaforma Europa ... 77

4.3.2 Lo Sportello Unico Amministrativo ... 79

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3

4.4.1 TDT (Terminal Darsena Toscana) ... 81

4.4.2 SINTERMAR ... 82

4.5 Agenzia per il lavoro in porto ... 82

4.6 Intempo Spa ... 83

4.7 L’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Settentrionale ... 85

4.8 Intervista ... 86

Conclusioni ... 92

Bibliografia ... 94

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4

Introduzione

L’intento del presente lavoro è stato quello di analizzare il porto dal punto di vista organizzativo, in particolare nella sua funzione commerciale legata alla movimentazione delle merci.

Il settore portuale è estremamente variegato e complesso, comprende numerose attività e settori economici e coinvolge una moltitudine di soggetti pubblici e privati.

Se in letteratura, il porto viene ampiamente analizzato dal punto di vista giuridico ed economico, non può dirsi altrettanto per quanto concerne il suo assetto organizzativo.

In particolare, nel primo capitolo viene sottolineata l’importanza del rapporto tra l’ambiente e le scelte dell’organizzazione. Le organizzazioni sono infatti sistemi aperti, chiamate ad adattarsi continuamente ai cambiamenti esterni. La cooperazione tra organizzazioni rappresenta inoltre uno strumento efficace per gestire l’incertezza ambientale.

Nel secondo capitolo viene analizzato, dal punto di vista giuridico ed economico, il porto quale sede di attività di impresa legata alle attività di carico e scarico delle merci. Il porto si caratterizza per una peculiare configurazione sistemica tra le imprese presenti, a partire dai terminalisti, imprese concessionarie di aree e banchine portuali ed autorizzate all’espletamento delle operazioni portuali, come delineato dalla legge n. 84 del 1994, di riforma della portualità italiana.

Il terzo capitolo presenta i vari comparti ed attori del trasporto marittimo, settore strettamente connesso a quello portuale, passando poi all’analisi del terminal container e degli attori che vi operano. Sia per il trasporto marittimo dei container, sia per lo sbarco dei container sul terminal, il capitolo cerca inoltre di esplorare le relazioni tra gli attori coinvolti nei rispettivi flussi di lavoro.

Nel quarto capitolo viene analizzato il caso specifico del porto di Livorno: da un’analisi descrittiva del porto e dei suoi traffici, vengono presentati i progetti strategici e la configurazione delle imprese presenti, concludendo infine con un’intervista alla responsabile dell’ufficio Relazioni Esterne

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5

dell’Autorità Portuale di Livorno, per quanto concerne lo stato attuale e le prospettive future dello scalo livornese.

A conclusione di questa introduzione desidero ringraziare la Prof.ssa Lucia Bonechi, per la disponibilità e precisione dimostratemi nel percorso di stesura di questa tesi.

Un ringraziamento anche all’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Settentrionale per la disponibilità e le interessanti informazioni fornitemi.

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6

Capitolo 1

L’organizzazione come sistema aperto

1.1 La visione sistemica dell’organizzazione

Un sistema è un insieme di elementi interagenti o interdipendenti. Tale definizione di sistema è talmente ampia che si presta sia per le scienze biologiche che sociologiche, sia per spiegare il funzionamento degli organismi viventi e dei sistemi sociali, sia per rappresentare, nel campo ingegneristico, una macchina, un impianto o una loro parte.

Anche un’organizzazione può essere definita come un sistema, ovvero come un “insieme organizzato di elementi e relazioni aziendali, separati mediante confini da un ambiente, che è sempre più complesso del sistema stesso”.

Rispetto alla definizione generale di sistema, nella definizione moderna di sistema applicata ad un’organizzazione si evidenzia una forte, prioritaria dipendenza dell’insieme di elementi e relazioni costituenti il sistema con l’ambiente esterno, sempre presente in tutti i sistemi, ma oggi particolarmente importante perché un’impresa possa operare con successo nel territorio di sua competenza.

L’effetto sinergico, secondo cui la risultante di un’attività frutto di un approccio di sistema è maggiore dei risultati prodotti dalle sue singole parti, e l’interdipendenza, secondo cui se una parte del sistema subisce un qualsiasi cambiamento, tutte le altre ne risentono, sono caratteristiche classiche dell’approccio sistemico. Tali caratteristiche orientano gli studi organizzativi non soltanto verso l’analisi del ruolo e degli obiettivi delle organizzazioni, ma anche verso l’individuazione delle relazioni, delle interconnessioni e delle interdipendenze tra le loro parti, sia all’interno della struttura stessa, che tra questa e l’ambiente esterno.

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7

1.1.1 Il rapporto organizzazione-ambiente nella teoria classica

Nel pensiero organizzativo il rapporto tra l’ambiente e le scelte dell’organizzazione è stato interpretato in modo diverso in funzione delle caratteristiche ambientali e delle assunzioni sulla razionalità degli attori. Per molto tempo si è ritenuto che, per progettare in modo efficace ed efficiente un’organizzazione, fosse sufficiente definire con chiarezza gli obiettivi da raggiungere, la strategia da seguire e le attività da compiere, disegnando successivamente una struttura formale dove fossero chiare le responsabilità e i compiti di ciascuno. Secondo questa concezione, il comportamento e i risultati dell’organizzazione dipendono esclusivamente da quello che succede all’interno di essa, e l’ambiente, inteso come tutto ciò che è esterno all’organizzazione, non ha alcuna rilevanza dal punto di vista della progettazione.

Alla base di tale concezione ci sono assunzioni molto restrittive che si verificano in situazioni molto particolari, ma che è opportuno esplicitare per evidenziarne poi i relativi punti deboli.

In primo luogo, si ritiene che i problemi e le difficoltà che un’organizzazione si trova ad affrontare siano di natura esclusivamente interna. Se nessun soggetto o entità che si colloca al di fuori dell’organizzazione è in grado di influenzarne il comportamento, le variabili di cui la progettazione deve tenere conto possono essere circoscritte, e si può pensare di poter trovare la soluzione migliore.

Per rendersi conto che questa posizione non è del tutto soddisfacente, è sufficiente pensare a come, nella realtà, i comportamenti di diversi soggetti, come per esempio quelli di clienti o fornitori, influenzino il comportamento di un’organizzazione.

In secondo luogo, si ritiene che l’organizzazione sia sostanzialmente autosufficiente, che cioè sia un sistema chiuso, che può funzionare indipendentemente dalle caratteristiche dell’ambiente esterno. In generale anche questa condizione non si verifica.

In terzo luogo, si assume implicitamente che l’ambiente sia omogeneo, cioè che tutte le organizzazioni si confrontino con il medesimo ambiente e

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che, di conseguenza, la differenza tra le organizzazioni dipenda solo dai metodi di gestione applicati. Al contrario le organizzazioni si trovano ad operare in condizioni ambientali tra loro molto diverse, le quali influiscono sui risultati che possono pensare di raggiungere.

Se si accetta che l’ambiente sia ininfluente per quanto riguarda il funzionamento dell’organizzazione, la cui struttura appare quindi il semplice risultato delle scelte operate dal management, si hanno precise conseguenze per quanto riguarda sia la progettazione organizzativa sia i compiti manageriali.

Si è detto di come la progettazione organizzativa venga sostanzialmente semplificata: definiti gli obiettivi, si ritiene possibile identificare quelle soluzioni strutturali e quell’insieme di regole che permettono di conseguirli nel modo migliore. Una volta individuata la soluzione adeguata, il funzionamento dell’organizzazione non va che modificato in minima parte, solo nel caso in cui ci siano degli scostamenti rispetto a quanto progettato.

Riguardo ai compiti manageriali, questi risultano per certi versi esaltati, perché si assume che il management abbia una discrezionalità pressoché illimitata, e per altri versi circoscritti, perché si svolgono entro i ristretti confini dell’organizzazione, e questo costituisce in qualche modo un limite all’espletamento della funzione manageriale stessa.1

1.1.2 L’ambiente nella concezione moderna

Un sistema chiuso non dipende dall’ambiente in cui si trova: è autonomo, delimitato e isolato dal mondo esterno. Abbiamo visto come i primi studi organizzativi e di management fossero orientati a questo tipo di sistemi, poiché consideravano l’ambiente come dato e assumevano che l’organizzazione potesse essere resa più efficace attraverso una progettazione interna.

1 M.Benassi, “L’ambiente”, in G. Costa, R.C.D. Nacamulli, (a cura di), Manuale di Organizzazione Aziendale, Vol II – La progettazione organizzativa, Torino, Utet Libreria,

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Nella pratica un vero e proprio sistema chiuso difficilmente può esistere, ed infatti, per comprendere le organizzazioni, occorre considerarle come sistemi aperti, che devono interagire con l’ambiente per sopravvivere, adattandosi continuamente ai cambiamenti esterni.

Per ambiente organizzativo si intende tutto ciò che è esterno all’organizzazione ed è in grado di influenzare la stessa o una sua parte. L’ambiente è suddivisibile in settori, contenenti ciascuno elementi simili. Per ogni organizzazione si possono individuare dieci settori: materie prime, risorse umane, risorse finanziarie, mercato, tecnologia, condizioni economiche, settore di appartenenza, governo, fattori socio-culturali e fattori internazionali. I settori possono a loro volta essere suddivisi tra ambiente generale e ambiente di riferimento.

L’ambiente generale (mega environment) è costituito da tutti quegli aspetti che non influenzano in modo diretto le attività quotidiane di un’organizzazione e che sono assunti come dati, comprendendo dunque quei settori che non hanno un impatto diretto sulle attività quotidiane di un’azienda, ma che possono influenzarle indirettamente. Spesso comprende i settori relativi al governo, ai fattori socio-culturali, alle condizioni economiche, alla tecnologia e alle risorse finanziarie.

L’ambiente di riferimento (task environment), invece, ha un impatto più diretto sull’organizzazione ed è quindi oggetto di un’attenzione più precisa, anche al fine di commisurare le scelte strategiche e strutturali. Copre i settori con i quali l’organizzazione interagisce in modo diretto e che hanno un impatto immediato sulla capacità dell’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi. Comprende tipicamente il settore di appartenenza, le materie prime e il mercato, ed eventualmente le risorse umane e i fattori internazionali. L’ambiente di riferimento è quella porzione di ambiente che l’organizzazione si ritaglia attraverso le scelte relative alle combinazioni produttive fondamentali, ai servizi e prodotti offerti e ai mercati serviti. E’ il suo spazio di azione, in cui si collocano i soggetti, individuali o collettivi, con i quali attiva scambi di risorse per sopravvivere e mantenere condizioni di economicità. Il campo di azione diventa operativo solo se l’organizzazione viene riconosciuta e legittimata

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da coloro che sono a contatto con essa. La scelta del campo di azione può essere limitata, o ampliata, anche da norme legali sulla concorrenza, sulle concessioni amministrative e sulle autorizzazioni.2

1.2 Il modello del tessuto causale

Un contributo importante che ci aiuta a capire che cosa sia l’ambiente, si deve a Emery e Trist (1960), i quali hanno introdotto il concetto di tessuto causale, intendendo con ciò il livello di interdipendenza dell’organizzazione con l’ambiente.

Il tessuto causale di ciascuna organizzazione può essere rappresentato come una maglia, formata da elementi diversi, i quali possono cambiare nel tempo, che sono tra loro connessi in modo più o meno forte. Incrociando queste due variabili si ottengono quattro possibili tipologie ambientali, come dimostrato in Figura 1.1.

Forza delle connessioni ambientali

Scarsa Considerevole Scarso Tasso di cambiamento Considerevole

Figura 1.1 – Il modello di Emery e Trist (1960)

2 G. Costa, P. Gubitta, D. Pittino, Organizzazione aziendale. Mercati, gerarchie e convenzioni, terza edizione, Milano, McGraw-Hill, 2014, p. 64.

Placido

e casuale e connesso Placido

Agitato

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La prima tipologia ambientale viene definita placida e a connessioni casuali: il tasso di cambiamento è cioè molto basso e i diversi elementi che formano il tessuto, non essendo collegati tra loro, non esercitano una forte pressione sull’organizzazione. In questo caso il rapporto con l’ambiente non presenta problemi, sia perché le fonti alternative sono numerose, sia perché le procedure standardizzate consentono generalmente di risolvere i diversi problemi, sia perché sono possibili adattamenti per “prova ed errore”. La seconda è placida, ma le connessioni sono in questo caso stabili: alcuni elementi o attori che fanno parte del tessuto sono tra loro organizzati, e ciò aumenta il loro potere contrattuale. E’ quindi necessario che l’impresa adotti comportamenti pianificati e tra loro coerenti, concentrando le risorse e sviluppando una propria competenza distintiva. In questo caso diventa necessario procedere a una raccolta strutturata di informazioni e attivare meccanismi che rendano possibile la centralizzazione del controllo e del coordinamento.

La terza tipologia di ambiente, agitata e reattiva, si caratterizza per un più elevato grado di cambiamento e di connessione. Si tratta insomma di un ambiente maggiormente incerto, dove diverse organizzazioni della stessa specie competono direttamente tra loro per le risorse disponibili. In questo caso è necessario avviare in tempi rapidi azioni che possano migliorare la posizione dell’organizzazione, a danno dei diretti concorrenti, e successivamente rispondere alle contromosse di questi ultimi. E’ quindi necessaria una certa decentralizzazione, per favorire la rapidità e la qualità del processo decisionale.

Infine il quarto tipo di ambiente si caratterizza per un elevato grado di turbolenza. Le variazioni sono imprevedibili e sfuggono totalmente al controllo dell’organizzazione. In questo caso è possibile tentare di resistere al cambiamento ambientale, ad esempio attuando strategie collaborative con altre organizzazioni. Se questo non fosse possibile, le organizzazioni devono cercare di dotarsi di strutture maggiormente flessibili per fronteggiare i mutamenti ambientali.3

3 M. Benassi, op. cit., pp. 10-12.

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1.3 Un modello per la rilevazione dell’incertezza ambientale

Perché siano efficaci le organizzazioni devono affrontare e gestire l’incertezza.

Incertezza significa che i decision maker non hanno sufficienti informazioni riguardo ai fattori ambientali e risulta loro difficile prevedere i cambiamenti esterni. L’incertezza deriva dal grado di semplicità o complessità dell’ambiente e dal grado di stabilità o instabilità degli eventi. La dimensione semplicità-complessità riguarda la complessità ambientale, che riflette l’eterogeneità, ovvero il numero e la diversità degli elementi esterni (per esempio concorrenti, fornitori, cambiamenti del settore, leggi e norme dello Stato) che incidono sulle attività di un’organizzazione. La complessità aumenta all’aumentare del numero degli elementi esterni che influenzano regolarmente l’organizzazione e del numero delle altre aziende nell’ambito organizzativo. In un ambiente complesso molti elementi esterni differenti interagiscono con l’organizzazione e la influenzano, mentre in un ambiente semplice solo pochi elementi esterni, simili tra loro, interagiscono con l’organizzazione e la influenzano.

La dimensione stabilità-instabilità si riferisce al grado di dinamicità dell’ambiente in cui l’organizzazione opera. Una sfera ambientale è stabile se rimane immutata per un periodo di mesi o anni, mentre in condizioni di instabilità gli elementi ambientali subiscono mutamenti improvvisi. La figura 1.2 riunisce le dimensioni relative a semplicità-complessità e stabilità-instabilità in uno schema per la valutazione dell’incertezza ambientale.

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13 Stabile CAMBIAMENTO AMBIENTALE Instabile Semplice Complesso COMPLESSITA’ AMBIENTALE

Figura 1.2 – Modello per la rilevazione dell’incertezza ambientale

In un ambiente semplice e stabile il livello di incertezza è basso; da gestire ci sono soltanto pochi elementi esterni appartenenti a un numero limitato di settori ambientali (per esempio fornitori e clienti) che tendono a rimanere stabili.

Un ambiente complesso e stabile rappresenta un livello di incertezza in qualche misura maggiore. Deve essere rilevato, analizzato e tenuto in considerazione un alto numero di elementi (per esempio fornitori, clienti, normative, mutamenti del settore, sindacati, congiuntura economica) affinché l’organizzazione possa ottenere buoni risultati; in questo ambiente gli elementi non cambiano però in modo rapido e inatteso. Un livello di incertezza ancora maggiore è quello che caratterizza un ambiente semplice e instabile. Il rapido cambiamento crea incertezza per i manager e, nonostante l’organizzazione debba gestire pochi elementi

Semplice + stabile = bassa incertezza

Complesso + stabile = bassa-moderata incertezza

1. Basso numero di elementi esterni; gli elementi sono simili

2. Gli elementi rimangono immutati o cambiano lentamente

1. Alto numero di elementi esterni; gli elementi sono dissimili

2. Gli elementi rimangono immutati o cambiano lentamente

Semplice + instabile =

alta-moderata incertezza Complesso + instabile = alta incertezza

1. Basso numero di elementi esterni; gli elementi sono simili

2. Gli elementi cambiano frequentemente e in maniera imprevedibile

1. Alto numero di elementi esterni; gli elementi sono dissimili

2. Gli elementi cambiano frequentemente e in maniera imprevedibile

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esterni, tali elementi sono difficili da prevedere (come per esempio il mutare delle tendenze sociali o delle preferenze di consumo) e reagiscono in maniera inaspettata alle iniziative dell’organizzazione.

Il livello più alto di incertezza per un’organizzazione si riscontra infine in presenza di un ambiente complesso e instabile. Molti elementi appartenenti a numerosi settori ambientali interferiscono con l’organizzazione, per di più cambiando frequentemente e reagendo in maniera marcata alle iniziative dell’organizzazione stessa. Quando diversi settori cambiano contemporaneamente, l’ambiente diventa turbolento.4

1.4 Modelli meccanici e modelli organici

Il lavoro di Burns e Stalker (1961) ebbe il pregio di avviare l’analisi delle proprietà distintive dell’ambiente che vanno tenute in considerazione ai fini della progettazione, e che determinano un diverso profilo strutturale delle organizzazioni stesse.

La proposta di Burns e Stalker indica che le forme di organizzazione devono essere in grado di rispondere adeguatamente alle condizioni ambientali, in quanto condizioni ambientali differenti richiedono un diverso modo di funzionare da parte dell’organizzazione.

In condizioni ambientali stabili, la divisione dei compiti sarà molto precisa, la formalizzazione sviluppata, le relazioni principalmente di tipo verticale e il controllo affidato a una struttura gerarchica. In questo caso l’organizzazione si caratterizza come un sistema organizzativo meccanico. In condizioni ambientali estremamente mutevoli e in presenza di rapide trasformazioni, sarà necessario reagire con prontezza alle variazioni che si succedono. Di conseguenza la struttura risulterà meno formalizzata, i compiti individuali ridefiniti di continuo, i problemi risolti laddove si presentano e la comunicazione e il controllo esercitati orizzontalmente, caratterizzandosi invece come un sistema organizzativo organico.

4 R.L. Daft, Organizzazione aziendale, quinta edizione, Milano, Apogeo, 2014, pp. 137-138

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La distinzione tra sistemi organici e sistemi meccanici aiuta a comprendere bene il funzionamento di alcune organizzazioni. Ad esempio, nei processi produttivi ma anche in alcune attività di servizio (si pensi alle catene di fast-food) sono ravvisabili diverse caratteristiche dei sistemi meccanici: elevata parcellizzazione delle operazioni, uso diffuso degli standard e controlli accentuati. In numerosi altri casi, si pensi ad esempio all’organizzazione delle società di investimento, sembrano prevalere i tratti del sistema organico: compiti ridefiniti sulla base delle necessità, limitato impiego della gerarchia, uso diffuso di team multifunzionali, ecc.

Sistema meccanico e sistema organico rappresentano, naturalmente, i due estremi di un continuum lungo il quale le organizzazioni possono essere classificate.

Al fine di comprendere meglio le differenze tra i due modelli, si analizzano gli elementi relativi alla struttura, ai compiti, alla formalizzazione, alla comunicazione e alla gerarchia.

Struttura centralizzata o struttura decentralizzata. La centralizzazione e la decentralizzazione fanno riferimento al livello gerarchico incaricato del processo decisionale. In un modello meccanico la struttura è centralizzata, quindi l’autorità decisionale si trova ai vertici della gerarchia organizzativa. In un modello organico il processo decisionale è decentralizzato, quindi l’autorità decisionale viene delegata ai livelli organizzativi più bassi.

Compiti specializzati o ruoli allargati. Un compito è un’attività lavorativa definita con precisione e assegnata a una persona. Nei modelli meccanici, i compiti vengono suddivisi in elementi specifici e separati e ciascun lavoratore svolge le attività delineate in una precisa descrizione della mansione. Un ruolo invece è l'insieme dei comportamenti tipici che caratterizzano la posizione di una persona in un contesto organizzativo. In un’organizzazione progettata secondo un modello organico, i dipendenti ricoprono dei ruoli

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all’interno dell’unità, che possono essere costantemente ridefiniti o adattati.

Sistemi formali o sistemi informali. I modelli meccanici prevedono numerosi regolamenti, norme e procedure standard, con sistemi formali per la gestione delle informazioni e della comunicazione. Nei modelli organici le norme e i sistemi di controllo formale sono pochi e la comunicazione e la condivisione di informazioni sono informali.

Comunicazione verticale o comunicazione orizzontale. Nelle organizzazioni meccaniche si privilegia la comunicazione verticale: i dirigenti informano i collaboratori su obiettivi, strategie, istruzioni e procedure lavorative e si aspettano di ricevere un flusso di informazioni dal basso riguardanti problemi, relazioni sulla performance, eventuali suggerimenti ecc. Nelle organizzazioni organiche si pone maggiore enfasi sulla comunicazione orizzontale, con flussi di informazioni omnidirezionali all’interno di tutta l’organizzazione ed anche all’esterno con clienti, fornitori e concorrenti.

Autorità gerarchica o lavoro in team collaborativo. Nei modelli meccanici l’intera organizzazione è controllata attraverso la gerarchia verticale e vi è un basso grado di collaborazione tra le unità organizzative. Nelle organizzazioni organiche si pone invece l’accento sul lavoro in team e si costruisce la struttura attorno a flussi di lavoro o processi orizzontali, anziché a unità organizzative.5

1.5 Le relazioni tra le organizzazioni

Una delle tendenze più recenti in materia organizzativa è costituita dalla sempre più densa rete di relazioni che si sviluppa tra le organizzazioni.

5 Ivi, pp. 30-31.

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Le aziende sono sempre state dipendenti da altre organizzazioni per forniture, materie prime ed informazioni, ma se ad esempio in passato la grande azienda metteva sotto pressione i piccoli fornitori, oggi può invece scegliere di sviluppare una relazione positiva e basata sulla fiducia.

Le organizzazioni possono scegliere tra molti modi in cui costruire relazioni tra di loro, come ad esempio selezionare dei fornitori preferenziali, stipulare accordi, formare partnership per gestire il business o anche procedere a fusioni e acquisizioni.

Le relazioni interorganizzative sono costituite da flussi, transazioni e collegamenti relativamente durevoli, che hanno luogo tra due o più organizzazioni. Queste transazioni sono state tradizionalmente viste come un male necessario per ottenere ciò di cui l’organizzazione necessita al fine di affermarsi sul mercato.

Un’azienda dunque può essere forzata ad allacciare relazioni interorganizzative in base ai propri bisogni e alla instabilità e complessità dell’ambiente, ad esempio per meglio affrontare l’assalto dei concorrenti internazionali, dei cambiamenti tecnologici e delle nuove regole competitive.

Le organizzazioni sono oggi situate in reti complesse di relazioni confuse basate su rapporti di collaborazione in alcuni mercati e di feroce competizioni in altri.6

6 Ivi, pp. 166-167.

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Capitolo 2

Il sistema portuale

2.1 Il porto

Nella nozione di porto confluiscono differenziati elementi di natura economica e giuridica, strutturale e funzionale e la legislazione non aiuta in tal senso, poiché non fornisce indicazioni precise sull’esatta definizione di porto.

Un punto sul quale non possono sorgere dubbi è costituito dal fatto che il porto rientra nella categoria dei beni del demanio necessario, ai sensi del comma 1 dell’articolo 822 del Codice Civile, e quindi non può che appartenere allo Stato.

Più specificatamente il Codice della Navigazione, all’art. 28, fa rientrare il porto nella categoria dei beni appartenenti al demanio marittimo e come tali finalizzati al perseguimento di interessi pubblici legati alla navigazione.

La nozione di porto come bene, oggetto di diritto dello Stato, trova la sua giustificazione nell’ambito di una visione statica.

Una prima disciplina dei porti e l’individuazione dei loro elementi costitutivi si rinviene nel R.D. 2 aprile 1885, n. 3095, T.U. su porti, spiagge e fari.

Il porto è stato ritenuto essere composto da elementi naturali, come specchi acquei, fondali, sponde; ed artificiali, quali opere, impianti, servizi. Se in un primo momento prevaleva una visione naturalistica del porto, la sempre maggiore complessità delle strutture destinate ai servizi, ha poi indotto ad assegnare maggiore rilievo alle componenti artificiali rispetto a quelle naturali.7

7 A.M. Citrigno, Autorità portuale. Profili organizzativi e gestionali, Milano, Giuffrè editore,

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In tale prospettiva e secondo un orientamento ampiamente condiviso dalla dottrina, si definisce porto “quel tratto di costa, i bacini ad esso

pertinenti e le apposite strutture artificiali che, per la loro particolare conformazione, costituiscono aree tipicamente deputate all’approdo e alla sosta delle navi”.

Elemento costitutivo del porto è inoltre l’utilizzabilità dei singoli beni portuali per il soddisfacimento dei pubblici usi del mare. E’ infatti ritenuto che la ratio della demanialità del porto debba individuarsi nell’interesse a garantire i pubblici usi del mare, ed in particolare lo sviluppo dei traffici marittimi, anche a vantaggio dell’intera economia nazionale.

Si possono individuare così i due elementi costitutivi della nozione di porto: un elemento di natura spaziale, la cui estensione è definita dalla conformazione geografica dei luoghi ovvero dagli interventi strutturali all’uopo predisposti dall’uomo; un elemento funzionale relativo alla idoneità delle infrastrutture terrestri e marittime ad offrire approdo e sosta alle navi.8

Il porto non è solo bene di proprietà pubblica, ma è anche luogo nel quale viene prestato un servizio pubblico in forma imprenditoriale.

Ad una visione statica del porto come bene demaniale, dunque, si accosta una considerazione dinamica del porto come organizzazione di beni e soggetti diretta allo svolgimento di servizi pubblici connessi con la movimentazione delle merci e quindi sede di attività di impresa.

Tale criterio funzionale pone in evidenza gli aspetti aziendalistici di un porto, che risulta così configurato quale luogo pubblico deputato all’esercizio di una serie di attività economiche, finalizzate al perseguimento dei pubblici usi del mare rappresentati dai traffici marittimi e dalle attività di carico e scarico delle merci.9

8 S. Zunarelli, Lezioni di diritto dei trasporti, terza edizione, Bologna, Libreria Bonomo

Editrice, 2006, p. 107.

9 A. Romagnoli, L’autorità portuale: profili strutturali e funzionali, Bologna, Libreria

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2.2 La gestione dei porti prima della riforma

Prima della riforma della portualità italiana avvenuta con legge n. 84 del 1994, che ha istituito la figura dell’Autorità portuale, l’amministrazione dei porti in Italia è stata organizzata per lungo tempo secondo modelli tra loro eterogenei.

Il modello ordinario di gestione, delineato dal codice della navigazione, attribuiva all’Autorità marittima le competenze relative alla gestione e alla regolamentazione del porto, tuttavia leggi speciali avevano disposto, negli scali di maggiore rilievo economico, l’istituzione di Enti portuali. Gli Enti portuali erano preposti, in sostituzione dello Stato, alla cura degli interessi pubblici locali attinenti alla navigazione. E’ quindi, dall’idea che l’amministrazione statale diretta non avrebbe potuto assicurare adeguatamente lo sviluppo della portualità, che scaturì la tendenza ad affidare la gestione dei porti ad enti autonomi, che fossero in grado di comporre i vari interessi relativi all’utilizzazione del porto.

Dal momento che il processo di costituzione degli Enti si è affermato nell’arco di quasi un secolo, la materia era disorganica e ogni ente presentava aspetti peculiari, ma ciò che li caratterizzava e accomunava era il fatto di essere titolari sia di funzioni amministrative di direzione, vigilanza e controllo, sia di funzioni imprenditoriali di gestione o erogazione di servizi portuali, qualificandosi come enti pubblici economici.10

Il quadro gestionale dei porti italiani era caratterizzato inoltre dalla presenza, in alcuni scali, delle Aziende dei mezzi meccanici e dei magazzini portuali, istituite con legge 9 ottobre 1967, n. 961. Tale normativa, a differenza delle leggi istitutive degli enti portuali, disciplinava in maniera uniforme i porti di Ancona, Cagliari, Livorno, La Spezia e Messina. Inizialmente i compiti di tali aziende erano limitati e riguardavano la gestione dei mezzi meccanici di carico e scarico, dei magazzini, delle aree di deposito e dei beni mobili ed immobili di

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proprietà dello Stato, adibiti al traffico delle merci, nonché di provvedere all’acquisto, manutenzione e miglioramento in relazione a tutti i compiti loro affidati. Successivamente la legge 10 ottobre 1974, n. 494 qualificò le Aziende dei mezzi meccanici e dei magazzini portuali come enti pubblici economici. Tale legge ampliò i compiti alle aziende, riconoscendo loro la possibilità, dietro apposita autorizzazione ministeriale, di esercitare operazioni portuali e altre attività commerciali relative al porto.11

Da quanto descritto, emerge come le diverse modalità di svolgimento delle attività portuali fossero fortemente restrittive della libera iniziativa economica privata.

Gli effetti distorsivi sulla concorrenza e sul libero mercato derivavano dalla commistione di attività, di gestione e di regolazione, attribuite agli Enti portuali, ma anche da quanto disposto da alcune norme del codice della navigazione per quanto riguarda l’esercizio delle operazioni portuali, definite oggi dall’art. 16 della legge n. 84/1994 quali attività di “imbarco, sbarco, trasbordo, deposito e movimentazione in genere delle merci e di ogni altro materiale”.

Le operazioni portuali per conto terzi, sulla base di quanto disposto dall’art. 111, comma 1, del codice della navigazione, oggi abrogato, dovevano essere svolte, in un regime di concessione, da imprese private. L’esercizio delle operazioni portuali era però affidato in esclusiva alla maggior parte degli Enti portuali, e in alcuni porti era demandato alle Aziende dei mezzi meccanici e dei magazzini portuali, escludendo quindi ogni possibile intervento da parte di imprese private.

Un’altra disposizione fortemente limitativa della libertà di iniziativa economica in ambito portuale era contenuta sempre all’art. 111 del codice della navigazione, al comma 4.

Ci riferiamo alla cosiddetta “riserva di lavoro portuale” secondo la quale l’imprenditore concessionario dell’esercizio delle operazioni portuali, nello svolgimento della sua attività di impresa, doveva necessariamente

11 A.M. Citrigno, op. cit., p. 28.

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avvalersi di lavoratori avviati dalle Compagnie dei Lavoratori Portuali, e risultanti in obbligatorio possesso di cittadinanza italiana.

Appare chiaro come la normativa previgente, risultando idonea a creare una situazione di monopolio, si ponesse in forte contrasto con alcune norme del diritto comunitario poste a tutela della libera iniziativa economica privata.

Sulla delicata problematica in esame intervenne, in termini risolutori, la Corte di Giustizia della Comunità Europea che, con la nota sentenza “Porto di Genova” resa il 10 dicembre 1991, dichiarò illegittima la normativa del codice della navigazione limitatamente alle disposizioni costitutive della suddetta riserva di lavoro portuale, in quanto incompatibili con gli artt. 30, 48, 86 e 90, n. 1 del Trattato istitutivo della CEE.

La Commissione Europea, accogliendo tali conclusioni, intimò formalmente lo Stato italiano ad adeguare la normativa al diritto comunitario.

Il legislatore italiano è, quindi, intervenuto con una serie di provvedimenti al fine di riformare la tematica portuale.

Di particolare interesse è il decreto legge 19 ottobre 1992, n. 409, che anticipando alcuni dei principi riformatori contenuti nella legge n. 84 del 1994, dispose, con effetto immediato, l’abrogazione della riserva di lavoro portuale di cui all’ultimo comma dell’art. 111 del codice della navigazione, la trasformazione delle Compagnie portuali in imprese private, e la previsione di un sistema autorizzatorio, in sostituzione di quello concessorio fino ad allora vigente, per l’esercizio delle operazioni portuali.12

L’obiettivo fondamentale e primario della riforma del settore portuale è stato quello di ridimensionare le “diseconomicità” ed inefficienze complessive che per molto tempo avevano caratterizzato l’assetto degli scali marittimi penalizzandone lo sviluppo, contrariamente a quanto avveniva, ad esempio, nei porti del nord Europa, che nel frattempo, si

12 A. Romagnoli, op. cit., pp. 27-32.

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configuravano sempre più come poli di attrazione dei traffici, grazie alla loro organizzazione efficiente e competitiva.

La riforma è stata caratterizzata da un lunghissimo e tormentato iter parlamentare che si è concluso con l’approvazione della legge 28 gennaio 1994, n. 84 recante appunto il titolo “Riordino della legislazione in

materia portuale”.

2.3 La legge di riforma della gestione portuale e l’istituzione dell’Autorità Portuale

La legge n. 84/1994, sul riordino del sistema portuale italiano, è composta da ventinove articoli: i primi diciannove sono rivolti a disciplinare le attività portuali, mentre i restanti sono rivolti alla regolamentazione della fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema.

I due principi basilari della legge sono:

a) la separazione delle attività amministrative di indirizzo, programmazione, coordinamento e controllo delle operazioni e delle altre attività portuali rispetto all’esercizio di quelle attività che hanno natura economica o che comunque presentano caratteri di imprenditorialità; b) la piena libera concorrenza tra le imprese operanti nell’ambito portuale.

Il modello di porto che viene a definirsi assume così una configurazione sempre più “aziendalistica”.

Come già evidenziato, il sistema precedente era caratterizzato dalla presenza nei maggiori porti di enti pubblici economici a cui facevano capo la gestione delle operazioni portuali e dei principali servizi, oltre che le competenze amministrative in materia.

La legge di riforma ha previsto, all’art. 2, la soppressione degli Enti portuali, definendoli in un primo tempo “Organizzazioni portuali”, e

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soprattutto la loro trasformazione in due categorie di soggetti: le Autorità portuali, e le imprese private che agiscono nel settore dei servizi portuali (art. 20).13

Ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), il ruolo delle Autorità portuali è identificato con attività di regolazione e promozione del mercato dei servizi portuali, e cioè nelle attività di “indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali (…) e delle altre attività commerciali e industriali esercitate nei porti, con poteri di regolamentazione e ordinanza”.

Al fine di attuare la piena trasparenza e stimolare la concorrenza nell’intero settore portuale, il quadro normativo delineato dalla legge n. 84/1994 è incentrato quindi sulla figura dell’Autorità portuale, soggetto pubblico cui sono affidate funzioni di pura amministrazione, mentre le attività di effettiva gestione operativa, aventi natura economica, sono affidate alle imprese portuali, cioè ai soggetti che svolgono attività imprenditoriale nell’ambito portuale.

Il principio che garantisce la netta separazione tra le funzioni di regolazione e promozione dell’attività di impresa in ambito portuale di cui sono titolari le Autorità portuali, e la gestione diretta dei servizi portuali, riservata a soggetti imprenditoriali distinti e separati da quelle pubbliche amministrazioni, trova il suo principale riscontro normativo nella disposizione di cui all’art. 6, comma 6, ai sensi del quale “Le autorità portuali non possono esercitare, né direttamente né tramite la partecipazione di società, operazioni portuali ed attività ad esse strettamente connesse”.14

2.4 La struttura dell’Autorità portuale

L’articolo 7 della legge n. 84/1994 individua gli organi dell’autorità portuale, quali: il Presidente, il Comitato portuale, il Segretariato generale, il Collegio dei revisori dei conti.

13 A.M. Citrigno, op. cit., pp. 51- 55. 14 S. Zunarelli, op. cit., p. 111.

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2.4.1 Il Presidente

L’articolo 8 della legge n. 84/1994 prevedeva un complesso procedimento per la selezione del Presidente dell’autorità portuale. Il nome del candidato, infatti, doveva essere proposto nell’ambito di una terna di esperti, da comunicare al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti tre mesi prima della scadenza del mandato, designati rispettivamente dalla Provincia, dai Comuni e dalle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, inoltre vi era la possibilità da parte del Ministro di richiedere, con atto motivato, una seconda terna di candidati.

Al presidente dell’autorità portuale spettano poteri particolarmente penetranti relativamente all’esercizio delle attività amministrative d’indirizzo, di coordinamento e di controllo di competenza dell’ente pubblico.

In particolare il presidente è titolare del potere di coordinamento delle attività svolte nel porto dalle pubbliche amministrazioni e di coordinamento e controllo delle attività soggette ad autorizzazione e a concessione nonché dei servizi portuali.

Il presidente, ha inoltre, poteri di impulso e di indirizzo, in quanto presiede il Comitato portuale, del quale stabilisce la convocazione e l’ordine del giorno.

Il presidente dell’autorità portuale promuove l’istituzione dell’associazione del lavoro portuale ai sensi dell’articolo 17 ed esercita le competenze attribuite dall’articolo 16 e dall’articolo 18 della legge n. 84/1994, nonché rilascia le autorizzazioni e le concessioni di durata non superiore a quattro anni, determinando l’ammontare dei relativi canoni; ha infine il potere di predisposizione dei principali atti di indirizzo, come il piano operativo triennale e il piano regolatore portuale, e poteri di amministrazione attiva delle aree e dei beni del demanio marittimo compresi nella circoscrizione territoriale.

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2.4.2 Il Comitato portuale

Il Comitato portuale, presieduto dal Presidente dell’autorità, ha una composizione molto ampia. Sono membri di diritto del comitato portuale: i dirigenti delle amministrazioni statali periferiche interessate (comandante del porto; dogane; genio civile per opere marittime), il presidente della giunta regionale, il presidente della provincia, il sindaco, il presidente della camera di commercio. Ai rappresentanti delle istituzioni si affiancano, inoltre, quelli degli armatori, degli industriali, degli imprenditori di cui agli articoli 16 e 18, degli spedizionieri, degli agenti e raccomandatari marittimi, degli autotrasportatori operanti nell’ambito portuale, dei lavoratori portuali, delle imprese ferroviarie operanti in porto.

Nel disegno complessivo della legge di riordino il comitato portuale configura l’organo deliberativo cui competono le scelte di fondo spettanti all’autorità portuale. Le più rilevanti attribuzioni deliberative del comitato portuale sono: approvazione del piano operativo triennale, adozione del piano regolatore portuale, delibera della nomina e dell’eventuale revoca del segretario generale, delibera in ordine alle autorizzazioni e alle concessioni di cui agli articoli 16 e 18 di durata superiore ai quattro anni e determinazione dell’ammontare dei relativi canoni.

2.4.3 Il segretariato generale

Il segretariato generale è composto dal segretario generale e dalla segreteria tecnico-operativa, e si configura nell’organizzazione strutturale dell’autorità portuale essenzialmente come organo coadiutore e di collaborazione nei confronti del presidente e del comitato portuale.

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2.4.4 Il Collegio dei revisori dei conti

Il Collegio dei revisori dei conti è l’organo cui spetta la revisione economico-finanziaria dell’autorità portuale. Le funzioni che il Collegio è chiamato a svolgere consistono infatti, essenzialmente, in operazioni di verifica ed attestazione della corrispondenza del rendiconto delle risultanze della gestione.15

Nella figura 2.1 viene rappresentato l’organigramma dell’autorità portuale.

Figura 2.1 – Organigramma autorità portuale

15 Ivi, pp. 113-115. Presidente Collegio dei revisori Comitato portuale Segretario generale Segreteria

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2.5 Il decreto legislativo n. 169 del 2016 e l’istituzione delle Autorità di Sistema Portuale

Il decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169, intitolato “Riorganizzazione,

razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84” ed in vigore dal 15

settembre 2016, ha profondamente innovato il sistema di amministrazione dei porti.

La principale innovazione prevista da tale intervento legislativo consiste nell’istituzione di quindici Autorità di Sistema Portuale che accorpano tutti i porti italiani, sostituendo le ventiquattro Autorità portuali.

La sede della autorità di sistema portuale è la sede del porto centrale, individuato nel Regolamento (UE) n. 1315/2013, ricadente nella stessa autorità di sistema.16

L’autorità di sistema portuale viene qualificata giuridicamente come ente pubblico non economico di rilevanza nazionale a ordinamento speciale, dotato di autonomia amministrativa, organizzativa, regolamentare, di bilancio e finanziaria; ed è sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Secondo quanto previsto dal comma 4 del nuovo articolo 6, i compiti delle autorità di sistema portuale sono quelli di “indirizzo, programmazione, coordinamento, regolazione, promozione e controllo, anche mediante gli uffici territoriali portuali secondo quanto previsto dall’art. 6-bis, comma 1, lettera c), delle operazioni e dei servizi portuali, delle attività autorizzatorie e concessorie di cui agli articoli 16, 17 e 18 e delle altre attività commerciali ed industriali esercitate nei porti e nelle circoscrizioni territoriali”.

I compiti affidati alle nuove autorità di sistema sono, dunque, analoghi a quelli previsti per le autorità portuali, ma una novità è rappresentata dall’articolo 6-bis, che prevede l’istituzione da parte dell’autorità di

16 A titolo esemplificativo il porto di Livorno è diventato sede dell’Autorità di sistema

portuale del Mar Tirreno settentrionale, che comprende inoltre i porti di Piombino, Capraia Isola, Portoferraio, Rio Marina e Cavo.

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sistema portuale, presso ciascun porto già sede di autorità portuale, di un proprio ufficio territoriale a cui è preposto il Segretario generale o un suo delegato.

Gli organi dell’Autorità di sistema portuale sono:

a) il Presidente;

b) il Comitato di gestione, che sostituisce il Comitato portuale; c) il Segretariato generale;

d) il Collegio dei revisori dei conti.

Viene confermato che il Presidente dell’autorità di sistema portuale è nominato dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, d’intesa con il Presidente o i Presidenti della regione interessata, ma la complessa procedura di nomina viene semplificata.

Il Comitato di gestione è la nuova denominazione dell’organo cui sono attribuite le funzioni del Comitato portuale, ed è nominato e presieduto dal Presidente dell’autorità di sistema portuale.

Il Comitato di gestione, il cui mandato dura quattro anni eventualmente rinnovabile una sola volta, è composto da: un componente designato dalla regione o da ciascuna regione il cui territorio è incluso, anche parzialmente, nel sistema portuale, un componente designato dal sindaco di ciascuna delle città metropolitane, ove presente, il cui territorio è incluso, anche parzialmente, nel sistema portuale, da un componente designato dal sindaco di ciascuno dei comuni ex sede di autorità portuale inclusi nell'autorità di sistema portuale, escluso i comuni capoluogo delle città metropolitane, un rappresentante dell'autorità marittima, con diritto di voto nelle materie di competenza.

In questo modo è stato notevolmente ridotto il numero dei componenti dei Comitati di gestione, rispetto al numero dei componenti previsto per i Comitati portuali.

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Il decreto legislativo n. 169 del 2016 prevede l’istituzione di due nuovi organi: l’Organismo di partenariato della risorsa mare e la Conferenza nazionale di coordinamento delle autorità di sistema portuale.

L’Organismo di partenariato della risorsa mare, ai sensi del nuovo articolo 11-bis, è istituito presso ciascuna autorità di sistema portuale ed è composto, oltre che dal Presidente della nuova autorità, che lo presiede, dal comandante del porto ovvero dei porti facenti parte del sistema portuale dell'autorità di sistema portuale, nonché da rappresentanti degli armatori, degli industriali, degli operatori di cui agli articoli 16 e 18, degli spedizionieri, degli operatori logistici intermodali e degli operatori ferroviari operanti in porto, degli agenti e raccomandatari marittimi, degli autotrasportatori, dei lavoratori portuali, degli operatori del turismo o del commercio operanti nel porto.

All’Organismo vengono attribuite funzioni consultive per l'adozione del piano regolatore di sistema, del piano operativo triennale, per i livelli dei servizi resi nell'autorità di sistema portuale, nonché per l'organizzazione del lavoro in porto e l'approvazione del bilancio preventivo e consuntivo. Si prevede inoltre l'istituzione dell’Organismo del cluster marittimo in ciascuno dei porti centrali che siano confluiti in un'unica autorità di sistema portuale.

Il nuovo articolo 11-ter istituisce poi la Conferenza nazionale di coordinamento delle autorità di sistema portuale, presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, quale organo di coordinamento nazionale delle nuove autorità avente in particolare il compito di coordinare e armonizzare le scelte strategiche per i grandi investimenti infrastrutturali, le scelte di pianificazione urbanistica in ambito portuale, le strategie di attuazione delle politiche relative alle concessioni demaniali marittime, le strategie di marketing e promozione sui mercati internazionali del sistema portuale nazionale.

La Conferenza è composta dai Presidenti delle autorità di sistema portuale ed è coordinata da un soggetto nominato su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, al quale è richiesta

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comprovata esperienza e qualificazione professionale nei settori dell'economia dei trasporti e portuale.17

Il decreto legislativo n. 169 del 2016 non ha modificato, tra gli altri, gli articoli 16, 17 e 18 della legge n. 84 del 1994, che andremo adesso ad analizzare.

2.6 Autorizzazione all’esercizio di impresa portuale

Ai sensi dell’art. 16, comma 1 della legge n. 84/1994, sono operazioni portuali “il carico, lo scarico, il trasbordo, il deposito, il movimento in genere delle merci e di ogni altro materiale, svolti nell’ambito portuale”. Sono servizi portuali quelle attività economiche che consistono in “prestazioni specialistiche, complementari e accessorie al ciclo delle operazioni portuali”, come introdotto dalla legge n. 186/2000.

Si è già evidenziato il divieto posto alle Autorità portuali di svolgere direttamente tali attività, ma il comma 2 del medesimo articolo attribuisce loro, il compito di disciplinare e vigilare sull’espletamento delle operazioni e dei servizi portuali.

Nel precedente sistema normativo le operazioni portuali erano subordinate all’ottenimento di apposita concessione amministrativa, mentre con la legge n. 84/1994 è richiesta una semplice autorizzazione. A tal proposito si richiama la previsione del comma 3 dell’articolo 16, secondo la quale “l’esercizio delle attività di cui al comma 1, espletate per conto proprio o di terzi, è soggetto ad autorizzazione dell’autorità portuale o, laddove non istituita, dell’autorità marittima. (…) Le imprese autorizzate sono iscritte in appositi registri distinti tenuti dall’autorità portuale o, laddove non istituita, dall’autorità marittima e sono soggette al pagamento di un canone annuo e alla prestazione di una cauzione determinati dalle medesime autorità”.

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L’istituzione del registro permette all’autorità competente di controllare in ogni momento le imprese operanti nello scalo ed i loro dipendenti.

Il comma 4 dell’articolo 16 affida ad apposito decreto il compito di determinare i parametri cui l’autorità portuale (o marittima) si deve attenere al fine di verificare l’idoneità delle imprese che aspirano ad operare nello scalo. Il regolamento deve precisare:

a) i requisiti di carattere personale e tecnico organizzativo, di capacità finanziaria, di professionalità degli operatori e delle imprese richiedenti, adeguati alle attività da espletare, tra i quali la presentazione di un programma operativo e la determinazione di un organico di lavoratori alle dirette dipendenze comprendente anche i quadri dirigenziali;

b) i criteri, le modalità e i termini in ordine al rilascio, alla sospensione ed alla revoca dell’atto autorizzatorio, nonché ai relativi controlli;

c) i parametri per definire i limiti minimi e massimi dei canoni annui e della cauzione relativamente alla durata ed alla specificità dell’autorizzazione, tenuti presenti il volume degli investimenti e le attività da espletare.

A completamento della disciplina è stato emanato il relativo regolamento d’attuazione con D.M. 31 marzo 1995, n. 585, per quanto concerne le operazioni portuali; e con D.M. 6 febbraio 2001, n. 132 per la regolamentazione dei servizi portuali.

Risulta evidente la volontà di concedere l’autorizzazione all’esercizio delle operazioni portuali soltanto a quelle imprese che siano effettivamente dotate di una solida struttura professionale-operativa, con specificate prospettive future di capacità idonea all’espletamento di tali operazioni. Dal momento della presentazione della domanda decorre un termine di novanta giorni affinché l’autorità portuale (o marittima) si pronunci sulle richieste di autorizzazione; decorso il termine, in assenza di diniego motivato, la richiesta si intende accolta (art. 7-ter, così come aggiunto dalla legge n. 186/2000). Normalmente l’efficacia di tale autorizzazione è annuale, tuttavia può emergere l’esigenza che sia richiesto un periodo più lungo in relazione all’attuazione del programma operativo dell’impresa. Nel caso in cui l’impresa autorizzata sia contemporaneamente titolare

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della concessione di un’area o banchina (articolo 18, legge n. 84/1994), la durata dell’autorizzazione sarà identica a quella della concessione. L’autorizzazione può essere rinnovata in relazione a nuovi programmi operativi o a seguito del rinnovo della concessione.

In ogni caso rimane l’obbligo per l’autorità portuale di verificare, “con cadenza almeno annuale”, che le condizioni previste nel programma operativo siano rispettate.

L’autorità portuale ha, inoltre, il potere di sospendere o revocare l’autorizzazione con un provvedimento motivato, nel caso del mancato rispetto degli impegni assunti in tale atto.

Secondo quanto statuito dal comma 7 dell’articolo 16, la determinazione del numero massimo di autorizzazioni che possono essere rilasciate spetta all’autorità portuale, che vi provvede “in relazione alle esigenze di funzionalità del porto e del traffico, assicurando, comunque, il massimo della concorrenza nel settore”.

Questa disposizione sembra introdurre un elemento potenzialmente distorsivo del regime di libero mercato, ma deriva dalla considerazione che una concorrenzialità esasperata possa pregiudicare la funzionalità del porto e la sopravvivenza di imprese valide dal punto di vista organizzativo ed operativo.18

Tuttavia le scelte dell’autorità portuale in merito al numero massimo di autorizzazioni dovranno essere ben ponderate per evitare il rischio dell’instaurarsi e del permanere di situazioni monopolistiche ingiustificate nello scalo.

Al fine di garantire la concorrenza, il regolamento attuativo dell’articolo 16 dispone che vi siano almeno due autorizzazioni per porto e che non si possa rilasciare l’autorizzazione ad un’unica impresa, a meno che non sia stata presentata una sola domanda; in tal caso la situazione di monopolio dipenderebbe esclusivamente dall’andamento del mercato.

La legge n. 84/1994 non prevede alcuna disposizione in ordine ai criteri di formazione delle tariffe delle operazioni portuali che, pertanto, sono

18 S. Zunarelli, op. cit., p. 116.

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determinate dal libero gioco della domanda e dell’offerta e sono rimesse alla libera contrattazione delle parti.

L’unica disposizione in materia di tariffe delle operazioni portuali rinvenibile nella legge n. 84/1994 è quella di cui all’art. 16, comma 5, che impone alle imprese autorizzate l’obbligo di rendere pubbliche le tariffe praticate all’utenza ed ogni loro variazione. Le tariffe sono in pratica rimesse alla determinazione delle imprese e l’autorità portuale deve solo vigilare sulla loro applicazione.

In mancanza di una specifica disposizione nazionale, trovano quindi applicazione, in materia di meccanismi di formazione delle tariffe delle operazioni portuali, esclusivamente i principi di diritto comunitario che impongono l’adozione di tariffe eque, nel senso che non operino in modo discriminatorio nei confronti degli utenti, e trasparenti, nel senso che siano strutturate in modo da consentire agli utenti di verificare nella massima misura possibile l’incidenza delle singole voci del costo sul prezzo complessivo della prestazione.19

2.7 La disciplina relativa all’autoproduzione

Con il termine autoproduzione ci riferiamo all’espletamento delle operazioni portuali da parte dello stesso vettore marittimo che fa uso di propri mezzi e proprio personale.

Il diritto soggettivo ad autoprodurre trova esplicito riconoscimento legislativo nella legge n. 287 del 1990, contenente norme per la tutela della concorrenza e del mercato. L’articolo 9 di tale legge disciplina il diritto all’autoproduzione limitandolo alla “produzione di beni e servizi per uso proprio, della società controllante e delle società controllate”.

Sulla stessa linea si pone la previsione di tale diritto nel settore portuale, nel quale il riconoscimento opera esclusivamente a favore dei vettori marittimi. Gli altri soggetti, sforniti di autorizzazione alle operazioni

19 A.M. Citrigno, op. cit., pp. 173-187.

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portuali o ai servizi tecnico nautici, che operano ad altro titolo nei porti, non godono di alcun diritto di autoprodurre tali operazioni o servizi.

In particolare, ai sensi dell’articolo 16, comma 4, lett. d) della legge n. 84/1994 e del relativo regolamento di attuazione (art. 8, D.M. n. 585/1995) il diritto dei vettori marittimi all’autoproduzione è sottoposto ad autorizzazione della competente autorità, portuale o marittima. Con l’autorizzazione si determina una verifica dell’idoneità tecnico-organizzativa delle imprese richiedenti. Viene previsto infatti che il vettore autoproducente debba essere in possesso di propri mezzi meccanici e proprio personale dotato di professionalità adeguate alle operazioni da svolgere. Il diritto all’autoproduzione non può costituirsi se non attraverso risorse umane e materiali appartenenti allo stesso vettore. L’esercizio di tale diritto è subordinato all’autorizzazione dell’autorità competente, che effettua pertanto un controllo di tipo preventivo per verificare il possesso dei requisiti in capo ai richiedenti.

Le autorizzazioni all’autoproduzione non rientrano nel numero massimo di cui al comma 7 dell’articolo 16 della legge n. 84/1994, riguardante l’autorizzazione all’esercizio in conto proprio o di terzi delle operazioni portuali. In sostanza la legge disciplina due tipi di autorizzazioni: il primo a numero chiuso per l’esercizio in conto proprio o di terzi di operazioni portuali, il secondo in forma specifica ed in deroga al numero chiuso. I soggetti autorizzati all’esercizio dell’autoproduzione e dotati di una propria struttura operativa in ambito portuale, devono essere iscritti in apposito registro dalla competente autorità.

La disciplina relativa all’autoproduzione appare compatibile con i principi espressi dal diritto comunitario. Il diritto all’autoproduzione, come già evidenziato, è tuttavia esercitabile solo entro determinati limiti, peraltro giustificati dalla presenza di rilevanti interessi pubblici. Si tratta sia di esigenze di funzionalità ed efficienza dello scalo, sia di garanzie relative alla sicurezza dei lavoratori e delle infrastrutture portuali in genere. La preminenza di tali interessi rispetto al contrapposto diritto del singolo

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operatore economico privato, giustificano il fatto che quest’ultimo sia soggetto a continue verifiche.20

2.8 L’impresa terminalista

L’articolo 18 della legge n. 84/1994 disciplina l’istituto della concessione di aree e banchine portuali alle imprese autorizzate all’espletamento delle operazioni portuali di cui all’articolo 16, comma 3. L’impresa in possesso di un’autorizzazione all’espletamento delle operazioni portuali, contemporaneamente titolare di una concessione, dispone in modo sostanzialmente esclusivo di spazi ed aree portuali, ed è quella che si definisce impresa o operatore terminalista (terminal operator).

Se nella legge n. 84/1994 non è rinvenibile alcuna definizione di terminale portuale, secondo un orientamento consolidato della dottrina, la nozione di terminale portuale individua uno spazio del porto attrezzato, costituito da banchine, magazzini, pertinenze ecc, che consenta al terminalista di svolgere il ciclo completo delle operazioni portuali.

La competenza per il rilascio delle concessioni spetta all’autorità portuale (o marittima), che esercita tale potere nel rispetto delle disposizioni ministeriali. In particolare la disciplina delle concessioni è affidata ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, che secondo quanto stabilito dal comma 1 dell’articolo 18, deve indicare:

a) la durata della concessione, i poteri di vigilanza e controllo delle autorità concedenti, le modalità di rinnovo della concessione ovvero di cessione degli impianti a nuovo concessionario;

b) i limiti minimi dei canoni che i concessionari sono tenuti a versare. Il suddetto decreto di attuazione dovrà stabilire “i criteri cui devono attenersi le autorità portuali o marittime nel rilascio delle concessioni al fine di riservare nell’ambito portuale spazi operativi allo svolgimento delle operazioni portuali da parte di altre imprese non concessionarie” (articolo 18, comma 2).

20 Ivi, pp. 199-203.

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Da quest’ultima previsione scaturiscono diversi problemi soprattutto in relazione ai rapporti tra le imprese terminaliste titolari di spazi in quanto concessionarie e le imprese che, pur autorizzate all’espletamento delle operazioni portuali, sono prive di concessioni di aree o banchine.

Come delineato dalla legge n. 84/1994, il concessionario deve essere dotato di una struttura imprenditoriale e competenza specifica tali da assicurare il compimento dell’intero ciclo operativo che riguarda la movimentazione delle merci in ambito portuale. Le imprese che svolgono solo determinate fasi del ciclo non possono pertanto aspirare all’ottenimento della concessione.

Il comma 6 dell’articolo 18 regola le condizioni alle quali l’atto di concessione è subordinato.

I destinatari dell’atto concessorio, in particolare, devono: a) presentare un programma di attività volto all’incremento dei traffici e alla produttività del porto; b) possedere adeguate attrezzature tecniche ed organizzative, idonee a soddisfare le esigenze di un ciclo produttivo ed operativo a carattere continuativo ed integrato per conto proprio e di terzi; c) prevedere, infine, la disponibilità di un organico di lavoratori rapportato al programma di attività.

La disciplina legislativa intende evitare la presenza di terminalisti sprovvisti di un’adeguata attrezzatura imprenditoriale, che determinerebbe un sistema poco efficiente. Ciò non esclude che il concessionario terminalista possa avvalersi di altri operatori economici, soprattutto nel caso in cui determinate fasi dei servizi appaiono essere meglio eseguite da imprese specializzate e pertanto preferibili anche da un punto di vista economico.

Il comma 7 dell’articolo 18 contiene la disciplina dell’attività dell’impresa terminalista che deve esercitare “direttamente” l’attività per la quale ha ottenuto la concessione dell’area.

L’impresa concessionaria non può nel contempo disporre di un’altra area demaniale nel medesimo scalo, “a meno che l’attività per la quale richiede una nuova concessione sia differente da quella di cui alle concessioni già esistenti nella stessa area demaniale, e non può svolgere

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