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SINTESI DI NUOVI DERIVATI DIIDROPIRIMIDOCHINAZOLINICI QUALI POTENZIALI INIBITORI MULTITARGET DI TIROSINA CHINASI PER IL TRATTAMENTO DEL CANCRO

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Chimica e Tecnologia

Farmaceutiche

TESI DI LAUREA

SINTESI DI NUOVI DERIVATI DIIDROPIRIMIDOCHINAZOLINICI

QUALI POTENZIALI INIBITORI MULTITARGET DI TIROSINA

CHINASI PER IL TRATTAMENTO DEL CANCRO

Relatori: Candidato:

Prof.ssa Sabrina Taliani Mattia Grande

Dott.ssa Silvia Salerno

SSD: CHIM/08

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INDICE

CAPITOLO 1: IL TUMORE ...1

1.1 COS’È IL CANCRO ...1

1.2 BASI BIOCHIMICHE DEL CANCRO ...2

1.2.1 PROLIFERAZIONE INDIPENDENTE DAI SEGNALI DI CRESCITA...3

1.2.2 INSENSIBILITA’ AI SEGNALI INIBITORI DELLA CRESCITA ...4

1.2.3 ALTERAZIONI NELLA REGOLAZIONE DEL CICLO CELLULARE ...5

1.2.4 EVASIONE DALLA MORTE CELLULARE PROGRAMMATA ...6

1.2.5 IMMORTALITÀ CELLULARE ...7

1.2.6 ANGIOGENESI ...8

1.2.7 INVASIONE DI TESSUTI E METASTASI ...9

1.2.8 RIPROGRAMMAZIONE DEL METABOLISMO ENERGETICO ...12

1.2.9 ELUSIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO ...13

1.2.10 INFIAMMAZIONE ...14

1.2.11 INSTABILITÀ GENOMICA ...16

1.3 LE CAUSE DEL CANCRO ...17

1.3.1 FATTORI ENDOGENI ...17

1.3.2 STILI DI VITA ...18

1.3.3 FATTORI AMBIENTALI ...20

1.4 TRATTAMENTO DEL CANCRO ...22

1.5 I NUMERI DEL CANCRO IN ITALIA ...24

CAPITOLO 2: GLI ENZIMI CHINASI...26

2.1 PROTEINE TIROSINA CHINASI ...27

2.2 TIROSINA CHINASI E VIE DI SEGNALAZIONE CELLULARI...30

2.2.1 CASCATA DELLE MAP CHINASI ...30

2.2.2 VIA DI SEGNALAZIONE PI3K/Akt/mTOR ...32

2.2.3 VIA DI SEGNALAZIONE DI Src ...33

2.3 TIROSINA CHINASI E CANCRO ...34

2.3.1 ErbB ...35

2.3.2 VEGFR ...36

2.3.3 PDGFR ...37

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2.3.5 Src ...38

2.3.6 Abl ...39

CAPITOLO 3: TERAPIA MULTITARGET ...40

3.1 LA TERAPIA MIRATA ...40

3.2 PICCOLE MOLECOLE INIBITRICI DI CHINASI ...41

3.3 APPROCCIO TERAPEUTICO MULTITARGET ...47

3.3.1 TERAPIA MULTITARGET NEL TRATTAMENTO DEL CANCRO ...47

3.3.2 UTILIZZO DI INIBITORI MULTICHINASICI NELLA TERAPIA ANTITUMORALE ...48

3.3.3 VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA TERAPIA MULTITARGET ...53

CAPITOLO 4: INTRODUZIONE ALLA PARTE SPERIMENTALE ...56

CAPITOLO 5: PARTE SPERIMENTALE ...72

BIBLIOGRAFIA ...82

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CAPITOLO 1: IL TUMORE

1.1 COS’È IL CANCRO

I termini “neoplasia”, “cancro” e “tumore” sono sinonimi utilizzati in medicina per indicare una popolazione cellulare di nuova formazione; questa generalmente rappresenta la progenie di una singola cellula somatica dell’organismo, la quale ha subito una serie sequenziale di alterazioni a carico del genoma e le ha trasmesse alle cellule figlie [1]. “Tumore” (dal latino tumor, «tumefazione, rigonfiamento») è relativo all’aspetto esteriore di molti tumori che, di frequente, si presentano come una massa rilevante sul sito anatomico dove sono insorti; mentre “neoplasia” (dal greco νέος, nèos, «nuovo», e πλάσις, plásis, «formazione»), che è il termine più appropriato per indicare tale patologia, prende in considerazione il contenuto della massa neoformata, cioè cellule di nuova formazione; infine “cancro” (dal latino cancer, «granchio») è stato coniato in riferimento al fatto che le cellule periferiche della massa tumorale esibiscono la tendenza a ramificarsi dalla massa principale e a insinuarsi nei tessuti circostanti, assumendo una forma che ricorda le chele di un granchio.

Le alterazioni genomiche responsabili della trasformazione neoplastica delle cellule dell’organismo sono quasi sempre di tipo strutturale, cioè mutazioni nei geni, e, meno comunemente, di tipo epigenetico, vale a dire fenomeni di disregolazione in eccesso o in difetto della trascrizione genica.

Tali mutazioni si estrinsecano con una serie di effetti fenotipici, consistenti sia nella comparsa di funzioni abnormi, ossia assenti nelle cellule sane, sia nella riduzione o perdita di altre funzioni, costantemente presenti nelle cellule normali.

La maggior parte dei tumori ha un’origine epiteliale, sebbene tutti i citotipi dell’organismo possano andare incontro allo “switch neoplastico” quando abbiano accumulato un certo numero di danni a carico di determinati geni e abbiano successivamente ricevuto uno stimolo proliferativo[2].

Il cancro è dunque una malattia genetica, che si sviluppa quando più mutazioni sequenziali vanno a colpire geni responsabili della crescita e della divisione delle cellule. Alcune di queste mutazioni si dicono acquisite e sono dovute a errori casuali durante la divisione cellulare oppure all’esposizione a fattori di rischio, mentre altre mutazioni possono essere ereditarie, quindi già presenti alla nascita dell’individuo, perché discendono da mutazioni

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presenti a livello dei gameti dei genitori. La presenza di mutazioni ereditarie non comporta necessariamente la comparsa del tumore, ma ne aumenta, in misura individuale, il rischio relativo rispetto al rischio di base di chi non le ha.

Per questo motivo è corretto parlare di predisposizione genetica allo sviluppo della malattia. Se una o più mutazioni sono già presenti alla nascita, infatti, basta un minor numero di danni successivi al DNA per raggiungere la soglia critica necessaria a innescare il processo di formazione e sviluppo del cancro. Nelle famiglie in cui si ritrovano queste anomalie, i tumori sono più frequenti e tendono a manifestarsi in età più giovanile[3].

1.2 BASI BIOCHIMICHE DEL CANCRO

I geni critici del cancro[1] sono, in particolare, i proto-oncogeni e i geni tumore-soppressori:

 I proto-oncogeni sono geni che codificano per proteine responsabili del controllo della divisione e della differenziazione cellulare. Se questi geni sono mutati e codificano per proteine che esercitano in eccesso la loro funzione[2], perché sono costitutivamente attive o perché sono prodotte in notevoli quantità, vengono definiti oncogeni. Tipico è l’esempio del gene ras: il gene ras mutato codifica per una proteina RAS difettosa, che, non avendo più la capacità di autoregolarsi, si trova in uno stato di continua attività, provocando un’ininterrotta divisione cellulare[1].

 I geni tumore-soppressori codificano per proteine che, se individuano un danno a livello del DNA, possono o bloccare la replicazione del DNA stesso, per permettere alla cellula di riparare il danno prima di impegnarsi nella successiva divisione cellulare, o indurre l’apoptosi, qualora il danno sia troppo esteso[6]. Mutazioni a livello dei geni oncosoppressori inducono la sintesi di proteine inattive, mentre delle delezioni a livello degli stessi causano la mancata sintesi di proteine; in ogni caso viene meno qualsiasi controllo negativo sull’avanzamento del ciclo cellulare: esso non si arresta più[2].

Un esempio è il gene TP53[1], che codifica per la proteina p53: in presenza di p53 mutata vengono meno i meccanismi riparativi e i danni al DNA si trasmettono di divisione cellulare in divisione cellulare, aumentando la possibilità di trasformazione cancerosa della cellula.

Dalle aberrazioni genetiche discendono difetti cellulari, tutti correlati con il cancro[1]: proliferazione illimitata (“immortalità” cellulare) e indipendente dai segnali di crescita,

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insensibilità ai segnali inibitori della crescita, alterazioni nella regolazione del ciclo cellulare, evasione dalla morte cellulare programmata, capacità di sviluppare nuovi vasi sanguigni (angiogenesi), invasione di tessuti e metastasi, riprogrammazione del metabolismo energetico, elusione del sistema immunitario, infiammazione, instabilità genomica[4] (Figura 1).

Figura 1[5]. Tratti distintivi delle cellule neoplastiche.

1.2.1 PROLIFERAZIONE INDIPENDENTE DAI SEGNALI DI

CRESCITA

La crescita e la divisione di una cellula scaturiscono da segnali che essa riceve dall’ambiente circostante[1]. Messaggeri chimici extracellulari, chiamati fattori di crescita, si legano a recettori protein-chinasici sulla membrana delle cellule e li attivano, innescando così una cascata di eventi intracellulari, che culminano con la segnalazione al nucleo di avviare la trascrizione di proteine ed enzimi necessari per la crescita e la divisione cellulari. Nel cancro sussistono alterazioni nelle vie di trasduzione del segnale, tali per cui la cellula riceve costantemente segnali che la indirizzano verso la proliferazione.

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Molte cellule cancerose producono autonomamente i fattori di crescita di cui necessitano e li liberano nell’ambiente circostante, cosicché essi possano legarsi ai recettori presenti sulla membrana delle stesse cellule che li hanno secreti.

Altre cellule neoplastiche aumentano l’espressione dei recettori e quindi anche la loro densità sulla membrana, di modo che pure in presenza di modesti livelli di fattori di crescita si possano attivare risposte notevoli in senso di crescita e divisione.

Esiste anche la possibilità che la cellula neoplastica possa variare il tipo di recettori espressi, in questo modo si amplia il repertorio di segnali proliferativi che possono essere intercettati e a cui la cellula risponde dividendosi.

In molte cellule tumorali si riscontrano, inoltre, recettori con variazioni strutturali che ne determinano un continuo stato di attività nonostante l’assenza di fattori di crescita, come nel caso dei recettori Erb-B2 nelle cellule tumorali del seno.

Infine, altre cellule tumorali possono interagire con le cellule del microambiente, stimolandole a produrre e a rilasciare i fattori di crescita di cui le prime hanno bisogno[4].

1.2.2 INSENSIBILITA’ AI SEGNALI INIBITORI DELLA CRESCITA

In condizioni fisiologiche una cellula non riceve solamente segnali stimolatori dall’ambiente circostante, ma anche di inibizione della crescita e della divisione cellulare. I segnali antiproliferativi possono essere fattori solubili, molecole che fanno parte della matrice extracellulare o molecole esposte sulla superficie delle cellule vicine e coinvolte nei meccanismi di adesione cellula-cellula.

I recettori per tali fattori possono essere interni o esterni e, una volta attivati, rendono operativi una serie di complessi molecolari che trasmettono al nucleo l’informazione inibitoria. In risposta a ciò, la cellula cessa di proliferare e può (i) entrare nella fase G0 di quiescenza, (ii) attivare il programma di differenziamento terminale (la cellula cessa la propria attività proliferativa e svolge il compito per il quale è stata programmata), (iii) attivare il programma di senescenza cellulare o (iv) entrare in apoptosi.

Nelle cellule tumorali la mancanza di sensibilità a tali segnali può derivare da un danno a carico dei geni che codificano per i recettori di questi fattori inibitori o dei geni che codificano per le molecole coinvolte nel trasferimento dei segnali al nucleo[4].

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1.2.3 ALTERAZIONI NELLA REGOLAZIONE DEL CICLO

CELLULARE

L’insieme ordinato di eventi che porta una cellula a crescere e dividersi prende il nome di ciclo cellulare, esso è composto da fasi che si susseguono in modo unidirezionale e che si chiamano G1, S, G2, M[4].

In fase G1 (gap 1) la cellula aumenta le proprie dimensioni e si prepara alla replicazione del DNA, che avverrà in fase S (sintesi). Nella fase G2 (gap 2) la cellula si predispone alla successiva fase M (mitosi), durante la quale si avrà la divisione e la formazione di due cellule figlie. Dalla fase G1 le cellule possono inoltre entrare in uno stato dormiente, di riposo, chiamato fase G0.

Il ciclo cellulare presenta punti di controllo (checkpoints), volti a garantire che ogni fase del ciclo stesso sia intrapresa dalla cellula solo se la fase precedente si sia svolta con regolarità e se le condizioni intra ed extracellulari siano favorevoli (Figura 2).

In suddetti checkpoints giocano un ruolo di primo piano le proteine cicline e gli enzimi chinasi ciclina-dipendenti (CDK): il legame delle cicline alle CDK porta all’attivazione di quest’ultime nella loro funzione di fosforilazione di substrati. Esistono almeno 9 tipi di CDK e 15 tipi di cicline; inoltre, l’attività dei complessi ciclina-CDK varia durante il ciclo in modo che determinati complessi siano attivi solo durante certe fasi del ciclo cellulare e inattivi durante le altre: in ogni fase sono attive proteine diverse[1].

Figura 2[6]. Ciclo cellulare e check-points

Nel checkpoint G1/S la cellula si accerta di essere nelle condizioni idonee alla replicazione del DNA. Se l’esito del controllo risulta positivo, si ha un incremento di ciclina D, la quale si lega a CDK4 e CDK6. I complessi ciclina-CDK(4/6) fosforilano la proteina del

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retinoblastoma (pRB), che subisce una modifica conformazionale tale da non essere più in grado di legarsi al fattore di trascrizione E2F/DP1. E2F/DP1 risulta quindi libero di legarsi a regioni specifiche del DNA, portando alla trascrizione dei geni necessari alla progressione in fase S. Qualora l’esito del controllo risultasse negativo, l’attività del complesso ciclina-CDK verrebbe prontamente bloccata da specifiche proteine inibitrici, quali p15, p16, p21, p27[1].

Tra la fase G2 e la fase M la cellula verifica che la duplicazione del DNA sia stata eseguita correttamente e che tutto sia pronto per la successiva divisione cellulare. Se viene riscontrato un danno a livello del DNA, viene attivata la proteina p53. Essa agisce arrestando la cellula in fase G2, attraverso l’azione della proteina inibitrice p21, e, contemporaneamente, direziona la sintesi di enzimi di riparazione del DNA oppure, se il danno risulta troppo grande, indirizza la cellula verso l’apoptosi, evitando così la propagazione degli errori al DNA alla progenie cellulare.

Prima della fase M un altro checkpoint permette alla cellula di stabilire se i cromosomi siano correttamente attaccati al fuso mitotico. Se il numero dei cromosomi è abnorme (minore o maggiore di 4n), se i centromeri non sono correttamente appaiati o se il fuso mitotico non garantisce un corretto allineamento dei cromosomi, la cellula si avvia all’apoptosi, per evitare la produzione di progenie aneuploide (cioè con un alterato numero di cromosomi) [7].

Il gene che più frequentemente risulta mutato nel cancro (30-70 % dei casi) è TP53, quindi viene a mancare una proteina p53 che funzioni correttamente. Diverse forme di cancro sono associate a una sovraespressione di cicline o CDK, mentre in altre cellule tumorali possono mancare i geni che codificano per proteine inibitrici dei complessi ciclina-CDK. L’alterazione oncogenica delle CDK, delle cicline, dei componenti della via pRB e degli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti (CKI) si riscontra nel 90% dei tumori maligni umani, in special modo durante la fase G1. Come risultato di tali mutazioni le cellule tumorali sono in grado di sfuggire a questi controlli e per questo si dividono senza tregua, vivendo più a lungo[1].

1.2.4 EVASIONE DALLA MORTE CELLULARE PROGRAMMATA

L’omeostasi tissutale richiede un fine equilibrio fra il rinnovo cellulare e la morte di cellule vecchie o severamente danneggiate[7].

Eventi quali la prolungata deprivazione di fattori di crescita od ormoni, proteine che si legano ai recettori del fattore di necrosi tumorale (TNF-R), linfociti T circolanti e a caccia

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di cellule danneggiate, danni al DNA (causati da farmaci, stress ossidativo, agenti chimici), perdita di aderenza alla matrice extracellulare e un’eccessiva proliferazione indotta da oncogeni trasmettono alla cellula il segnale di attivare l’apoptosi (dal greco ἀπό, apo «da» e πτῶσις, ptôsis «caduta»): una cascata di eventi intracellulari che culmina con l’attivazione delle caspasi, enzimi che conducono alla distruzione della cellula attraverso la degradazione delle sue proteine.

Una mutazione del gene TP53, come detto in precedenza, può comportare la mancanza di una proteina p53 in grado di funzionare correttamente e ciò incrementa le probabilità che le cellule difettose possano sopravvivere e diventare cancerose[1].

In numerose forme di tumore, inoltre, si sono rivelati sovraespressi i geni che codificano per le proteine inibitrici dell’apoptosi Bcl-2 e Bcl-X[7].

In altre cellule tumorali le mutazioni possono risultare in elevati livelli di MDM2 (proteina che lega p53, inattivandola e avviandola alla degradazione mediante proteasoma), determinando l’incapacità di p53 di funzionare e permettendo alle cellule tumorali di moltiplicarsi senza regola[1].

1.2.5 IMMORTALITÀ CELLULARE

Ogni cellula può dividersi un numero finito di volte: circa 50-60 divisioni cellulari (limite di Hayflick) [1].

Alle estremità 3’ dei cromosomi sono presenti strutture polinucleotidiche, che prendono il nome di telomeri e che risultato costituite da sequenze ripetute di sei paia di basi (TTAGGG)[7].

Al termine di ogni processo di replicazione, siccome la DNA polimerasi non è in grado di replicare interamente la porzione 3’ del cromosoma, i telomeri si accorciano di circa 50-100 paia di basi[1]. La riduzione della lunghezza dei telomeri di replicazione del DNA in replicazione conduce, infine, la cellula a senescenza, cioè a uno stadio della sua vita in cui, pur rimanendo vitale, non si divide più.

Se la cellula evade dal programma di senescenza, perché, ad esempio, le proteine pRb e p53 non funzionano correttamente, la divisione cellulare non si arresta, ma a questo punto i telomeri risultano così accorciati da non essere più in grado di svolgere le proprie funzioni di stabilizzazione e protezione del DNA: si verificano fusioni e altri riarrangiamenti catastrofici a livello dei cromosomi e la cellula va incontro ad apoptosi.

La telomerasi, enzima della classe delle DNA polimerasi RNA-dipendenti, ha la capacità di aggiungere alle estremità 3’ dei cromosomi sequenze ripetute TTAGGG. Mentre la

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maggior parte delle cellule somatiche non esprime livelli di telomerasi sufficienti a evitare l’accorciamento dei telomeri, in più del 90 % delle cellule cancerose vengono espressi alti livelli dell’enzima e ciò conduce tali cellule neoplastiche alla possibilità di dividersi senza un apparente limite[4].

1.2.6 ANGIOGENESI

L’angiogenesi è il processo di formazione di vasi sanguigni nuovi a partire da vasi preesistenti. A livello embrionale essa è necessaria per la crescita dell’organismo, mentre nella vita post-natale risulta attiva per brevi periodi, come durante l’ovulazione o i processi di riparazione tissutale e cicatrizzazione. In condizioni fisiologiche nell’organismo l’angiogenesi risulta inibita, regolando l’equilibrio fra fattori pro-angiogenici e anti-angiogenici a favore di questi ultimi[4].

La formazione di nuovi vasi procede attraverso vari stadi: destabilizzazione dei vasi preesistenti con formazione di fenestrazioni, migrazione delle cellule endoteliali nel punto dove si formeranno i nuovi vasi e contestuale proliferazione, differenziazione delle cellule endoteliali e formazioni di strutture capillari primitive, infine stabilizzazione della morfologia del nuovo vaso per reclutamento di periciti e cellule muscolari lisce[8].

Le cellule tumorali, per poter proliferare, richiedono amminoacidi, basi azotate, carboidrati, ossigeno e fattori di crescita, che sono garantiti dall’irrorazione sanguigna. Man mano che la massa tumorale cresce in dimensioni, però, le cellule iniziano a risultare sempre più lontane dalla fonte ematica di nutrienti e fattori di crescita, quindi, per consentire un continuo approvvigionamento di tali sostanze, viene indotto uno squilibrio fra fattori pro-angiogenici e anti-pro-angiogenici, a favore dei primi[1,4].

Le cellule neoplastiche iniziano a rilasciare fattori di crescita, come il fattore di crescita dell’endotelio (VEGF) e il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF-2), che stimolano la ramificazione e l’allungamento di capillari già esistenti: viene promossa la formazione di nuovi vasi sanguigni (Figura 3).

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Figura 3[9]. Angiogenesi

Tali vasi presentano notevoli differenze rispetto ai vasi sanguigni dai quali si sono diramati: hanno una struttura disorganizzata, sono tortuosi, dilatati, permeabili e non garantiscono una perfusione omogenea di tutta la massa cancerosa. Infatti, nonostante l’angiogenesi, vi sono aree del tumore, soprattutto al centro, che non ricevono una sufficiente irrorazione sanguigna e la conseguenza di ciò è una carenza di ossigeno, alla quale le cellule rispondono con un aumento dell’attività glicolitica per produrre energia.

La glicolisi porta all’accumulo di sottoprodotti acidi all’interno della cellula, essa allora esporta protoni nello spazio extracellulare e si instaura una situazione di acidosi[4]. Ipossia e acidosi stimolano il rilascio di ulteriori fattori pro-angiogenici e, al contempo, ostacolano la distribuzione dei farmaci al tumore. L’aumentata permeabilità vascolare favorisce il processo di fuga delle cellule neoplastiche dal tumore primario e, insieme all’assenza di un sistema intratumorale di drenaggio linfatico, causa un incremento della pressione interstiziale all’interno della massa tumorale, ulteriore ostacolo alla distribuzione dei farmaci chemioterapici[7].

1.2.7 INVASIONE DI TESSUTI E METASTASI

Mentre i tumori benigni restano isolati in una determinata zona dell’organismo, pur potendo crescere fino ad assumere dimensioni importanti, le cellule dei tumori maligni sono, in genere, in grado di invadere i tessuti vicini, ma anche di abbandonare la loro sede

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primaria e di migrare nell’organismo, generando tumori secondari altrove[1,2]. Quest’ultimo processo viene definito “metastasi” (dal greco μετάστασις, metástasis «spostamento»). Sulla superficie cellulare sono presenti molecole di adesione che hanno il compito di garantire che le cellule aderiscano a cellule dello stesso tipo e alla matrice extracellulare. Le cellule possono sopravvivere solo se le proprie molecole di adesione sono correttamente accoppiate con le loro controparti esposte sulla matrice extracellulare, inoltre se una cellula si stacca dalle altre, va incontro ad apoptosi.

Le cellule dei tumori maligni, invece, sono indipendenti dal sistema di ancoraggio: mancano delle molecole di adesione fra cellule dello stesso tipo e, quando si distaccano dal tumore primario, non vanno incontro ad apoptosi[1].

Solo una minima frazione delle cellule che avviano la metastatizzazione, però, è in grado di portarla a termine e per questo si parla di inefficienza del processo di metastasi. La maggior parte delle cellule neoplastiche che si distaccano dal tumore primario, infatti, o muore durante il percorso nell’organismo o non è capace di proliferare nel sito di approdo. Le cellule tumorali possono migrare nell’organismo attraverso diverse vie[10]:

Ematica (Figura 4): è frequente nei sarcomi, tumori del rene, tumore alla prostata, tumori della tiroide, tumore al fegato. I tumori situati nella cavità addominale, in genere, raggiungono il fegato attraverso la vena porta, originando metastasi epatiche. Un’altra possibilità è raggiungere i polmoni attraverso la vena cava e dare tumori secondari a questo livello. Infine i tumori primitivi del polmone possono metastatizzare in ogni zona dell’organismo, spesso nel sistema nervoso centrale.

 Linfatica: è caratteristica dei carcinomi, neoplasie di tipo epiteliale. Le cellule tumorali metastatizzano inizialmente a livello dei linfonodi regionali che drenano la zona interessata dal tumore, successivamente si ha l’invasione di altre zone linfonodali più lontane e, da esse, il passaggio al torrente circolatorio, quindi a qualsiasi altro organo dell’organismo.

 Transcelomatica: è seguita dalle cellule delle neoplasie insorte in organi contenuti nelle cavità sierose (o celomatiche) dell’organismo, che sono il peritoneo, il pericardio e le pleure. Spesso i tumori polmonari danno metastasi nella pleura del lato corrispondente a quello in cui si sono originati[2].

 Canalicolare: le cellule neoplastiche percorrono i dotti escretori delle ghiandole in cui si è originato il tumore e raggiungono gli organi in cui tali dotti sboccano. Tipico è l’esempio di tumori alla pelvi renale che, attraversando l’uretere, possono metastatizzare alla vescica.

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Figura 4[11]. Metastasi per via ematica

Pur essendo molti gli organi che possono diventare sedi di metastasi, in genere esse si insediano soprattutto a livello epatico e polmonare, perché questi organi sono riccamente vascolarizzati, quindi hanno una maggiore probabilità di essere attraversati da cellule neoplastiche circolanti. Anche ossa e cervello sono comuni sedi di metastasi[10].

Benché, in linea generale, tutti i tumori maligni possano metastatizzare, alcuni di essi manifestano questa tendenza solo di rado: gliomi (tumori maligni delle cellule gliali del sistema nervoso centrale) e basaliomi (carcinomi dello strato basale dell’epidermide) sono tumori molto invasivi, ma raramente metastatizzano[10].

Si ritiene che il 90% delle morti per cancro sia dovuto allo sviluppo di metastasi. La loro presenza, infatti, indica che il tumore primario si trova in una fase avanzata[12].

Il principale mezzo che può impedire a un tumore di dare metastasi è la diagnosi precoce: un tumore maligno individuato tempestivamente e asportato completamente per via chirurgica può non aver dato luogo a focolai metastatici, permettendo una guarigione completa[10].

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1.2.8 RIPROGRAMMAZIONE DEL METABOLISMO ENERGETICO

Figura 5[13]. Metabolismo del glucosio in presenza e in assenza di ossigeno nelle cellule

a) normali e b) cancerose

Nella maggior parte dei tessuti dell’organismo le cellule producono energia, sotto forma di ATP, ricorrendo al processo di glicolisi, seguito dalla fosforilazione ossidativa. Dalla glicolisi, a partire da 1 molecola di glucosio, si ottengono 2 molecole di NADH, 2 di piruvato e 2 di ATP. Successivamente il piruvato viene completamento ossidato a CO2 mediante il ciclo di Krebs e il NADH viene riossidato a NAD+ dalla catena respiratoria mitocondriale[12]. Il bilancio finale di tutti questi passaggi è la produzione massima teorica di 38 molecole di ATP a partire da 1 molecola di glucosio[13].

In condizioni di insufficiente apporto di ossigeno, come quando i muscoli scheletrici si contraggono vigorosamente, il NADH non può essere avviato nei mitocondri per rigenerare NAD+, quindi, dopo la glicolisi, l’enzima lattico deidrogenasi (LDH) catalizza la riduzione del piruvato a lattato, ossidando contemporaneamente il NADH a NAD+, in modo tale da ripristinare la scorta cellulare di NAD+, necessaria affinché la glicolisi possa continuare[14]. Le cellule tumorali, anche in presenza di ossigeno, prediligono la glicolisi, realizzando quella che viene definita glicolisi aerobia o effetto Warburg, dal nome del suo scopritore[4]. La glicolisi aerobia ha una bassa resa energetica, perché a partire da 1 molecola di glucosio ne vengono prodotte solamente 2 di ATP (Figura 5), ma porta anche alla produzione di intermedi metabolici importanti. Da tali intermedi, grazie alla via dei pentosi, la cellula

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ottiene ribosio-5-fosfato (R5P), con il quale sintetizza gli acidi nucleici: l’elevata attività glicolitica garantisce alti livelli di precursori per la sintesi degli acidi nucleici e, quindi, sostiene la rapida proliferazione cellulare[14].

Inoltre, l’elevato livello di enzimi glicolitici può conferire alle cellule tumorali la capacità di resistere allo stato d’ipossia delle aree centrali di molti tumori solidi. In tale situazione la glicolisi può essere ulteriormente potenziata al fine di compensare il ridotto apporto di ossigeno, dovuto all’inefficiente formazione della rete vascolare.

Infine, l’acidificazione del microambiente, dovuta all’accumulo di acido lattico prodotto dalla glicolisi aerobia, potrebbe facilitare la metastatizzazione, agevolando la degradazione della matrice extracellulare e l’angiogenesi[1].

1.2.9 ELUSIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Il sistema immunitario non svolge solamente un ruolo di difesa dell’organismo nei confronti di patogeni esterni, ma è anche fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi tissutale: rimuove i detriti cellulari e riconosce e distrugge le cellule “anomale”. Tali cellule, come quelle che hanno subito uno o più danni a livello del DNA, espongono in superficie antigeni specifici che stimolano un’immediata risposta delle cellule natural killer (NK) e, successivamente, dei linfociti T, con il compito di indurre l’apoptosi delle cellule danneggiate[4].

Le cellule tumorali si sottraggono all’attacco del sistema immunitario tramite molteplici strategie:

 Downregulation degli antigeni di superficie coinvolti nell’identificazione immunologica delle cellule neoplastiche da parte dei linfociti T[16];

 Downregulation degli attivatori di superficie delle cellule NK[16];

 Espressione sulla superficie cellulare di proteine, come PD-L1 e CTLA-4, che inducono inattivazione dei linfociti T[7];

 Downregulation dei death receptors, cioè recettori di superficie che inducono apoptosi quando vengono attivati[7];

 Secrezione di citochine e molecole ad azione immunosoppressiva, come TGF-β (fattore trasformante β), IL-10 (interleuchina 10), VEGF (fattore di crescita dell’endotelio vascolare), IL-6 (interleuchina 6) [16];

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 Rilascio di specifiche chemochine per il reclutamento di cellule, come TAMs (tumor-associated macrophages), MDSCs (myeloid-derived suppressor cells) e linfociti T regolatori, che inibiscono la risposta immunitaria contro il tumore[16].

1.2.10 INFIAMMAZIONE

L’infiammazione è un meccanismo di difesa tipico dell’immunità innata, che si attiva in presenza di un danno di tipo chimico (veleni), fisico (traumi, radiazioni, alte o basse temperature) o biologico (virus, batteri). Essa ha lo scopo di localizzare ed eliminare l'agente nocivo, rimuovere i componenti danneggiati del tessuto, riparare le lesioni ai tessuti e ristabilire la normale funzionalità di questi ultimi[17].

Un danno tissutale induce il rilascio di molecole chiamate DAMPs (damage-associated molecular patterns), mentre gli agenti patogeni rilasciano PAMPs (pathogen-associated molecular patterns). PAMPs e DAMPs si legano ai propri recettori sui granulociti, determinandone l’attivazione e il rilascio di citochine, enzimi, specie reattive di ossigeno e azoto (RONS). I vasi sanguigni si dilatano e diventano maggiormente permeabili, in questo modo il plasma fuoriesce dai vasi e si accumula a livello interstiziale. Nel plasma sono presenti proteine che hanno il compito di rimodellare la matrice extracellulare per favorire la successiva infiltrazione cellulare e per favorire la riparazione del tessuto, ma anche fattori di crescita, che promuovono il reclutamento delle cellule del sistema immunitario nella sede del danno. Successivamente, si ha la migrazione nel tessuto danneggiato dei leucociti: i monociti maturano per dare i macrofagi, i quali, insieme ai neutrofili, rimuovono i detriti cellulari e patogeni per fagocitosi. Infine, l’architettura tissutale viene ripristinata dall’azione di macrofagi e fibroblasti, mentre la perfusione sanguigna viene garantita dalla formazione di nuovi vasi per angiogenesi.

Il processo infiammatorio, in ultima analisi, è caratterizzato dalla promozione di un ambiente ricco di citochine, prostaglandine e molecole che, complessivamente, vanno a favorire la proliferazione cellulare, l’angiogenesi e la migrazione cellulare. Se questi processi perdurano nel tempo e l’infiammazione diventa cronica, può essere favorita l’acquisizione dei tratti distintivi delle cellule tumorali: circa il 20% dei tumori è provocato da un’infiammazione locale cronica o da un’infezione persistente. Rettocolite ulcerosa e morbo di Chron incrementano le probabilità di sviluppare il tumore del colon, il reflusso gastro-esofageo si associa spesso al cancro dell’esofago, l’infezione di Helicobacter pylori incrementa le possibilità di sviluppare tumori a livello dello stomaco e del colon,

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l’infezione cronica da parte del virus dell’epatite C incrementa il rischio di sviluppare il carcinoma epatocellulare.

Figura 6[18]. Progressione dell’infiammazione indotta dal cancro

Quando l’infiammazione non è fra le cause scatenanti del tumore, essa viene provocata dal tumore stesso (Figura 6), in quanto tende a favorirlo nella crescita e ad aiutarlo a eludere il controllo del sistema immunitario. Il processo infiammatorio viene innescato dal rilascio di citochine da parte delle cellule neoplastiche, ma anche dal fatto che, crescendo, la massa tumorale induce un danno meccanico a livello tissutale, provocando il rilascio di DAMPs. Fibroblasti e macrofagi producono componenti della matrice extracellulare, determinandone un incremento di volume e una modifica strutturale, che possono favorire l’invasione e la metastatizzazione. Fattori pro-angiogenici, come VEGF, stimolano la dilatazione e l’aumento di permeabilità dei vasi, ma anche la formazione di nuovi vasi, per garantire a tutte le cellule cancerose l’apporto di sostanze nutritive. Attraverso questa nuova rete vascolare giungono le cellule del sistema immunitario, che rilasciano specifiche citochine pro-infiammatorie, sostenendo, a loro volta, angiogenesi e reclutamento cellulare[18].

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1.2.11 INSTABILITÀ GENOMICA

L’instabilità genomica è una caratteristica che riunisce la quasi totalità dei tumori che colpiscono l’uomo[19]: una cellula genomicamenteinstabile è soggetta a ripetuti e successivi cambiamenti nel DNA. Le alterazioni possono interessare poche paia di basi, gruppi di geni, zone più o meno estese di un cromosoma o interi cromosomi[20]. Tutti questi cambiamenti genetici possono essere raggruppati in due grandi categorie: instabilità a livello dei cromosomi e instabilità a livello nucleotidico[21].

L’instabilità cromosomiale[20] (CIN–chromosome instability) è definita come un’aumentata frequenza con cui avvengono alterazioni di struttura dei cromosomi rispetto a una cellula sana. Tali modifiche includono inversioni, delezioni, traslocazioni e duplicazioni di larghi segmenti cromosomici[22], ma anche anomalie di numero. Queste ultime portano a una modifica del numero del set cromosomico con aggiunta o perdita di uno o più cromosomi, perché durante la mitosi non c’è un’efficace segregazione dei cromosomi[21].

Una difettosa attività riparativa del DNAè alla base dell’instabilità a livello dei nucleotidi. Spesso sono la riparazione per escissione di basi e la riparazione per escissione di nucleotidi a non avvenire correttamente. Anche la riparazione degli errori di accoppiamento può fallire e, visto che essa è particolarmente importante nel mantenere la stabilità del DNA microsatellite, può originare MSI (instability of microsatellite repeat sequences), cioè instabilità a livello di queste sequenze oligonucleotidiche[21].

La perdita della capacità di correggere o evitare le alterazioni genomiche si traduce in accumulo di mutazioni e quindi nella formazione di nuove varianti cellulari all’interno di un tessuto[4]. Queste varianti cellulari mostrano un vantaggio selettivo rispetto alle altre cellule del tessuto, perché l’instabilità genomicapermette cicli cellulari più brevi e/o l’elusione dei sistemi di controllo intracellulari e immunologici[21].

Secondo alcuni studiosi[21], l’instabilità genomica sarebbe causata da mutazioni a livello di geni definiti “caretaker”, cioè coinvolti nei meccanismi di controllo della stabilità del genoma e di riparazione del DNA[23]. Tale instabilità, presente a livello delle lesioni precancerose, aumenterebbe la frequenza con cui compaiono mutazioni nel DNA rispetto a una cellula sana e condurrebbe, in virtù di ciò, allo sviluppo del cancro.

Per altri studiosi, invece, l’attivazione di oncogeni condurrebbe a un’elevata proliferazione cellulare e, quindi, a uno stress replicativo del DNA. A causa di ciò, il DNA sarebbe esposto a ricevere insulti, che sarebbero alla base dell’instabilità genomica. Se i normali programmi

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cellulari di apoptosi o senescenza non funzionano correttamente, le cellule con DNA danneggiato continuano a proliferare e l’instabilità genetica si amplifica[21].

1.3 LE CAUSE DEL CANCRO

La patogenesi del cancro è molto articolata: quasi mai esiste, se non in alcune rare forme ereditarie, una sola causa che possa spiegare l’insorgenza di un tumore. Sono molte, invece, le cause che concorrono, tra loro e insieme ad altrettanti fattori protettivi, a determinare il rischio individuale di sviluppare o meno un tumore.

Alcuni dei fattori di rischio per il cancro non sono modificabili, come l’età e i geni ereditati dai propri genitori, mentre molti altri sono modificabili, come il fumo di sigaretta, la dieta e la sedentarietà[24].

1.3.1 FATTORI ENDOGENI

I fattori di rischio endogeni sono cause interne all’organismo e comprendono, fra i vari, anche età, mutazioni ereditate dai genitori, squilibri ormonali di varia natura, eccessivo stress ossidativo[24].

 ETÀ

L’avanzare dell’età è il più importante fra i fattori di rischio per il cancro. Con l’invecchiamento, infatti, si possono accumulare nel nostro organismo i fattori cancerogeni e si può verificare una diminuzione delle capacità di difesa e dei meccanismi di riparazione[25].

 FATTORI EREDITARI

Dai genitori è possibile ereditare mutazioni genetiche se esse sonopresenti nelle cellule della linea germinale dei genitori stessi. La presenza di mutazioni ereditarie non comporta necessariamente la comparsa del tumore, ma ne aumenta, in misura individuale, la predisposizione a svilupparlo. Se una o più mutazioni sono già presenti alla nascita, infatti, basta un minor numero di danni successivi nel DNA per raggiungere la soglia critica di mutazioni necessaria a innescare il processo di formazione e sviluppo del cancro[24].

 SQUILIBRI ORMONALI

Gli ormoni sono molecole di segnale che specifici tessuti dell’organismo secernono nel sangue, affinché possano, attraverso il torrente circolatorio, raggiungere i propri tessuti e organi bersaglio per espletare determinate funzioni. Funzioni fisiologiche come la crescita,

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la digestione, il metabolismo, la riproduzione sono, infatti, regolate finemente dall’azione degli ormoni. Numerosi studi sperimentali hanno messo in evidenza che sbilanciamenti dell’omeostasi delle vie di segnalazione coinvolgenti gli ormoni si possono correlare a sviluppo e progressione del cancro. Alti livelli di estrogeni circolanti, ad esempio, incrementano, a lungo andare, il rischio di tumori al seno e all’endometrio[26].

1.3.2 STILI DI VITA

Proprio come la familiarità, le abitudini della vita quotidiana non causano direttamente il cancro, ma possono aumentare le probabilità di svilupparlo[24].

 FUMO

Il fumo di tabacco, in particolare quello di sigaretta, è il più importante e riconosciuto fattore di rischio per il cancro: ad esso si può attribuire, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, circa un terzo delle morti per cancro[24]. Il direttore della Chirurgia toracica dell'Istituto Nazionale Tumori (INT) di Milano, il Professore Pastorino, afferma che l’85% dei tumori polmonari è dovuto al fumo, addirittura il 90% se si va a considerare anche il fumo passivo. Il fumo di sigaretta gioca anche un ruolo di primo piano nella genesi di numerosi altri tumori, come quello della bocca, della faringe, della laringe, dell'esofago, dello stomaco, dell'intestino, del pancreas, del fegato, della cervice uterina, dell'ovaio, dei reni, della vescica e del sangue. Nei tumori causati dal fumo sono state inoltre riscontrate delle mutazioni particolari, chiamate appunto “mutazioni da fumo”, che li rendono meno responsivi ad alcuni farmaci, rispetto ai tumori non correlati al fumo. Nei forti fumatori, afferma ancora il Professore, il rischio di sviluppare il tumore polmonare aumenta con l’età, inoltre quando si smette di fumare l’incremento del rischio si arresta, dunque anche smettere a 60 o 70 anni è utile[27].

 ALCOL

Nel 1988 lo IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) ha inserito l’alcol fra gli agenti cancerogeni di tipo 1, cioè tra quegli agenti per i quali esiste sufficiente evidenza di cancerogenicità nell’uomo. Il consumo da moderato a eccessivo di alcol si correla, da solo o in associazione ad altri fattori come fumo e dieta, a numerose forme tumorali: della faringe, della bocca, dell'esofago, della laringe, del pancreas, del colon, del fegato, del seno. Benché non siano conosciuti tutti i meccanismi attraverso i quali l’alcol incrementi il rischio di sviluppare un tumore, alcuni di essi sono noti: (i) irrita le mucose impedendo alle cellule danneggiate di ripararsi correttamente e, per questo, può favorire lo sviluppo dei tumori della gola e della bocca; (ii) nel fegato può causare infiammazione e alterazioni alle

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cellule epatiche che, con il tempo, possono diventare cellule tumorali; (iii) viene metabolizzato in sostanze reattive, come l’acetaldeide, che è riconosciuta come cancerogena; (iv) riduce la capacità di assorbimento dei folati, vitamine che sembrano avere un ruolo protettivo contro il cancro del colon e della mammella; (v) stimola la produzione di estrogeni. La maggior parte dei tumori associati all'alcol si verifica in individui i cui consumi di alcolici superano le soglie raccomandate: 20 g di alcol al giorno (circa due bicchieri di vino da 125 mL) per i maschi e 10 g al giorno per le femmine (circa un bicchiere di vino da 125 mL). Tutte le bevande alcoliche costituiscono un fattore di rischio per il cancro, in funzione della quantità di alcol che contengono[28].

 DIETA, SOVRAPPESO E OBESITÀ

È accertato che le abitudini alimentari di ciascun individuo impattino sullo stato di salute dello stesso. In particolare, può essere favorita la comparsa di un tumore privando l’organismo di fattori protettivi, come le fibre contenute in verdura e frutta o apportando all’organismo sostanze potenzialmente cancerogene, che possono essere naturalmente presenti negli alimenti o derivare dai processi di lavorazione degli stessi[24].

Numerosi studi hanno provato che un consumo eccessivo di grassi e un ridotto introito di fibre svolgono un ruolo determinante nello sviluppo dei tumori di ovaio, prostata, colon, mammella e utero. La qualità dei cibi non è tutto, infatti anche la quantità di cibo che assumiamo ha importanza, perché favorisce sovrappeso e obesità. A tal proposito, il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro (WCRF) ha messo in luce, nella terza edizione del report su “Dieta, nutrizione, attività fisica e cancro”, il rapporto tra eccesso di peso in età adulta e rischio di sviluppare tumori di esofago, fegato, pancreas, endometrio, rene, mammella (in post-menopausa), ma anche di bocca, faringe, laringe, stomaco (cardias), cistifellea, ovaio e prostata[29].

Gli additivi alimentari sono sostanze deliberatamente aggiunte ai prodotti alimentari per svolgere determinate funzioni tecnologiche[30], come conferire colore, consistenza, aromi particolari, ma anche per preservare da contaminazioni microbiche, irrancidimento e favorirne la conservazione. La grande maggioranza di essi è innocua per la salute e comprende vitamine, amminoacidi, antiossidanti naturali e addensanti. Fanno, però, eccezione nitrati e nitriti, che lo IARC ha inserito nel Gruppo 2A (probabilmente cancerogeni per gli esseri umani). Nitrati e nitriti sono usati come conservanti in carni e insaccati, inoltre i nitrati si ritrovano naturalmente in alimenti di origine vegetale, come bietole, sedano, rape, spinaci. La pericolosità dei nitriti e dei nitrati deriva dalla loro trasformazione, durante la cottura o nell’organismo, in nitrosammine, le quali sono

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composti cancerogeni che, se in eccesso, possono aumentare il rischio di tumori allo stomaco e all’esofago[31].

 SEDENTARIETÀ

Una ricerca condotta in Gran Bretagna nel 2011 ha stimato che dal 3 al 4 % dei tumori all'intestino, al seno e all'utero in quel Paese sono da ricondurre a un comportamento sedentario[24]. Inoltre, dall’analisi di un gruppo di ricercatori della Washington University di St Louis risulta che esiste un nesso fra il tempo trascorso sul divano, indice di scarsa attività fisica, e il rischio di sviluppare un tumore all’intestino: il rischio relativo di avere un tumore all’intestino prima dei 50 anni aumenta di circa il 69% se si trascorrono più di 14 ore alla settimana seduti a guardare la televisione[32]. Proprio perché la sedentarietà rappresenta un fattore di rischio nello sviluppo di molte forme tumorali, sono stati condotti numerosi studi epidemiologici che hanno dimostrato come, invece, l’attività fisica possa rappresentare un fattore protettivo importante: proporzionalmente all’intensità, alla durata e alla frequenza della pratica sportiva si possono ottenere riduzioni consistenti del rischio di sviluppare il cancro del colon (30-40% in meno rispetto a individui sedentari), il cancro al seno, il cancro all’endometrio (20% in meno rispetto a chi non pratica attività sportiva) e il cancro al polmone (circa il 20% in meno rispetto a persone sedentarie)[33].

1.3.3 FATTORI AMBIENTALI

Molti fattori che possono promuovere lo sviluppo di un tumore si trovano nell’ambiente intorno a noi[24].

 INQUINAMENTO ATMOSFERICO

Nel luglio 2013 sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet i risultati di un ampio studio, condotto tenendo in osservazione, per circa 13 anni, più di 300000 persone fra i 43 e i 73 anni. Per ogni persona è stata studiata l’esposizione alle cosiddette polveri sottili (PM 10 e PM 2,5), che sono legate all’inquinamento da traffico, ma anche ad altre sostanze prodotte dalle industrie e dagli impianti di riscaldamento. Quanto è emerso è che per ogni incremento di 5 microgrammi (μg) per m3 di PM 2,5, il rischio relativo di sviluppare il tumore al polmone aumenta del 18%, mentre cresce del 22% con ogni aumento di 10 μg per m3 di PM 10. Sulla base di questi dati, nel mese di ottobre del 2013 lo IARC ha inserito l’inquinamento atmosferico e le polveri sottili (particolato) fra gli agenti carcinogeni umani certi (Gruppo 1).

Negli anni successivi è stato analizzato anche il rapporto fra inquinamento e altri tipi di tumore e nel 2018 uno studio tedesco ha dimostrato che esiste un legame fra aumento di 10

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μg per m3 di PM 10 e incremento del rischio relativo di sviluppare il tumore alla bocca, alla gola, della pelle (non melanoma) e, in misura minore, anche alla prostata e al seno. Inoltre, l’inquinamento, come ha dimostrato uno studio pubblicato nel 2016 e condotto dai ricercatori delle Università di Birmingham e Hong Kong, peggiora la prognosi di qualsiasi tumore: gli studiosi hanno rilevato che un aumento dell’esposizione a PM 2,5 si correla a un aumento del rischio relativo di mortalità pari al 42 % per i tumori del tratto digestivo superiore, del 35 % per i tumori di fegato e pancreas e dell’80 % per il tumore mammario nelle donne[34].

 AGENTI CHIMICI

Nel corso del tempo molti studi epidemiologici hanno indicato una maggiore incidenza di certe forme tumorali in talune categorie di lavoratori e questo ha consentito di scoprire la cancerogenicità di numerose sostanze chimiche. I metalli pesanti come cromo, cadmio, nichel possono formare sali insolubili con i gruppi fosfato degli acidi nucleici, questo determina un’alterazione della stabilità e dell’attività dei geni codificati e per questo sono cancerogeni.

Gli idrocarburi policiclici aromatici si trovano nel fumo di sigaretta, ma anche nel fumo prodotto dalla combustione del legno, nei cibi cotti alla griglia e nei gas di scarico delle auto. Essi favoriscono lo sviluppo di tumori del polmone, della pelle, dell’apparato urinario. L’amianto, o asbesto, è un silicato fibroso in grado di provocare tumori dei polmoni, ma soprattutto il mesotelioma pleurico, un particolare tumore della pleura.

Il benzene, contenuto nel fumo di sigaretta e in solventi e materiali per il lavaggio a secco, si correla a un aumento del rischio di leucemia. Altri agenti chimici noti sono le diossine, che si possono produrre durante certi processi produttivi; il cloruro di vinile, caratteristico dell’industria della plastica; sostanze alchilanti, come i gas nervini; ammine aromatiche, nitrosammine, alfatossine[24].

 AGENTI FISICI

Le radiazioni ionizzanti, che comprendono i raggi X, quelli gamma, le particelle alfa, particelle beta, i raggi UVA e UVB, sono radiazioni che hanno un’energia tale per cui sono in grado di interagire con la materia, rimuovendo elettroni e facendo, quindi, assumere una carica positiva agli atomi. Le radiazioni ionizzanti interagiscono anche con il materiale genetico, esse possono rompere i filamenti del DNA o indurre delle modifiche nella sua struttura. Se la cellula non va incontro ad apoptosi o le sue mutazioni genomiche non vengono correttamente riparate, si può avere lo sviluppo del cancro, per questo lo IARC inserisce le radiazioni ionizzanti fra gli agenti cancerogeni certi.

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Le fonti di tali radiazioni possono essere naturali, come i raggi cosmici, o prodotte dall’uomo, sia per scopi medici (radiologia diagnostica, radioterapia, medicina nucleare) sia non medici (armi e centrali nucleari).

Le procedure mediche comportano un rischio molto basso, ma contribuiscono comunque all’aumento complessivo del rischio di sviluppare un tumore, perché si sommano a tutte le altre radiazioni ionizzanti a cui si può essere esposti durante l’arco della propria vita[35]. Anche l’esposizione solare non è da sottovalutare: mentre una moderata esposizione è necessaria per la sintesi di vitamina D, una incontrollata e prolungata si correla all'insorgenza dei carcinomi basocellulari e spinocellulari[36].

 AGENTI INFETTIVI

Alcune infezioni possono, unitamente ad altri fattori di rischio, aumentare la probabilità di sviluppare un tumore. Si stima che i virus siano responsabili di circa il 15 % delle morti per cancro. Molti virus possono provocare il cancro iniettando all’interno delle cellule degli oncogeni, che si vanno a inserire nel genoma cellulare. Ad esempio, il virus del sarcoma di Rous trasporta un gene per una proteina chinasi difettosa. Altri virus trasportano e inseriscono nelle cellule uno o più promotori, che se si vanno a integrare nelle vicinanze di un oncogene, possono attivarne la trascrizione, favorendo l’insorgenza del cancro. Il virus di Epstein-Barr può portare allo sviluppo del linfoma di Burkitt, l’infezione da Papilloma virus umano (HPV)[25] può favorire la comparsa del carcinoma del collo dell'utero, del pene, della vagina, dell'ano, dell'orofaringe e della base della lingua, i virus dell’epatite B e C possono essere alla base dei tumori maligni al fegato, l’HIV può causare il sarcoma e il linfoma di Kaposi. Per alcune di queste infezioni sono disponibili vaccinazioni, come contro l’epatite B e l’HPV, che forniscono un utile strumento di prevenzione contro le forme tumorali causate da quegli agenti virali. Anche un batterio può correlarsi al cancro: Helicobacter pylori è molto spesso alla base di ulcere gastriche e gastriti, ma è stato anche ricollegato ad alcuni tumori dello stomaco[1].

1.4 TRATTAMENTO DEL CANCRO

La terapia antitumorale si basa principalmente su tre approcci: chirurgia, radioterapia, chemioterapia.

Con l’asportazione chirurgica viene rimossa fisicamente la massa tumorale. Questo approccio è indicato nel caso di tumori solidi ben localizzati, in fase non troppo avanzata e che non abbiano metastatizzato[37].

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La riduzione per via chirurgica delle dimensioni di un tumore (procedura nota come “debulking”) può essere, inoltre, molto utile per rendere chemioterapia e radioterapia più efficaci o per alleviare i sintomi di dolore, nausea o vomito, che possono essere causati quando un tumore ostruisce l’intestino[38].

La radioterapia sfrutta l’azione di radiazioni ionizzanti, in particolare i raggi X, per distruggere le cellule cancerose. Esse sono più sensibili all’effetto tossico delle radiazioni ionizzanti rispetto alle cellule sane, perché si dividono con frequenza maggiore e perché spesso non sono in grado di riparare i danni inflitti dalle radiazioni al DNA[39].

Tale terapia viene condotta con elevata precisione, per colpire solo l’area interessata dal tumore e ridurre al minimo gli effetti collaterali derivanti dall’irradiazione delle cellule sane vicine. La radioterapia può essere utilizzata per rimuovere completamente un tumore (radioterapia radicale), può essere impiegata per ridurre i sintomi nei casi in cui non è possibile una guarigione (radioterapia palliativa), può trovare applicazione nella riduzione delle dimensioni di un tumore per favorirne l’asportazione chirurgica (radioterapia preoperatoria), può essere successiva a un trattamento chirurgico per aumentare le probabilità di eradicazione di ogni residuo del tumore (radioterapia postoperatoria), può essere eseguita durante l’operazione chirurgica (radioterapia intraoperatoria) e può essere estesa a tutto l’organismo quando devono essere trattati particolari tumori delle cellule del sangue e del sistema linfatico (radioterapia total body)[40].

Ad oggi la radioterapia è fondamentale in un caso di cancro su due e risulta sempre meno tossica e sempre più personalizzata, potente e precisa[41].

La chemioterapia consiste nella somministrazione sistemica di farmaci antitumorali e trova applicazione, da sola o in associazione a chirurgia e/o radioterapia, sia nel trattamento di tumori localizzati sia in presenza di metastasi. I farmaci classici utilizzati in questo tipo di terapia esplicano un’azione citotossica: interferiscono con i meccanismi legati alla replicazione cellulare, uccidendo le cellule durante questo processo. Le cellule tumorali sono quelle maggiormente colpite dall’azione citotossica, perché, essendo in rapida divisione cellulare, accumulano elevate concentrazioni di farmaco antitumorale più rapidamente rispetto alle cellule sane dell’organismo.

Il problema principale di questo approccio è la mancanza di selettività d’azione: anche le cellule dei bulbi piliferi, dell’ovaio, del testicolo, della mucose dell’apparato digerente, del midollo osseo sono in rapida proliferazione e quindi accumulano alte concentrazioni di farmaco, dando luogo ai tipici effetti collaterali della chemioterapia: anemia, indebolimento del sistema immunitario, perdita dei capelli, teratogenicità, sterilità, nausea,

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vomito, diarrea, ridotta capacità di cicatrizzazione. Inoltre, le cellule neoplastiche che si trovano al centro di un tumore possono essere in fase G0 del ciclo cellulare, cioè dormienti, e quindi in grado di eludere gli effetti dei farmaci[1,42].

La chemioterapia risulta particolarmente efficace se si somministrano in associazione più farmaci antitumorali (diretti contro target diversi), in modo tale da avere una sinergia d’azione che consente non solo di somministrare dosi inferiori dei farmaci rispetto a quando vengono assunti singolarmente, riducendo così gli effetti indesiderati, ma anche di abbassare la probabilità che le cellule cancerose sviluppino meccanismi di resistenza[43].

1.5 I NUMERI DEL CANCRO IN ITALIA

I dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) indicano per il 2016, che è l’ultimo anno al momento disponibile, poco più di 179.000 decessi attribuibili a tumori, sia maligni sia benigni, tra i circa 600.000 decessi verificatisi in quell’anno. I tumori rappresentano la seconda causa di morte (29% di tutti i decessi), dopo le malattie cardio-circolatorie (37%). Nel sesso maschile, tumori e malattie cardio-circolatorie causano circa lo stesso numero di decessi (34%), mentre nel sesso femminile i tumori sono responsabili del 25% delle morti contro il 40% delle malattie cardio-circolatorie.

I dati riguardanti le aree coperte dai Registri Tumori indicano che il tumore del polmone è la prima causa di morte oncologica nella popolazione totale (12%) e anche fra gli uomini (27%), mentre fra le donne è il tumore della mammella (17%), seguiti dai tumori del colon-retto (12% tra le donne e 11% tra gli uomini), dal tumore della prostata tra gli uomini (8%) e dal tumore del polmone tra le donne (11%).

Il carcinoma del polmone risulta la prima causa di morte oncologica in tutte le fasce di età negli uomini, mentre per le donne in tutte le fasce di età il tumore della mammella è la prima causa di morte oncologica[44].

Il 24 settembre 2019 è stato presentato a Roma, in un convegno nazionale tenutosi nell’Auditorium del Ministero della Salute, il volume “I numeri del cancro in Italia 2019”, che scatta una fotografia aggiornata della diffusione e dell’impatto della malattia in Italia. Tale testo nasce dal lavoro dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), dell’Associazione Italiana Registri Tumori-AIRTUM, di Fondazione AIOM e di PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), di PASSI d’Argento e della Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica (SIAPEC-IAP). Nel 2019 sono stimate 371.000 diagnosi (196.000 uomini e 175.000 donne), erano 373.000 nel 2018: 2000 in meno in 12 mesi.

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I cinque tumori più frequenti sono quello della mammella, (53.500 casi nel 2019), colon-retto (49.000), polmone (42.500), prostata (37.000) e vescica (29.700).

In calo, in particolare, le neoplasie del colon retto, dello stomaco, del fegato e della prostata e, solo negli uomini, i carcinomi del polmone, che continuano, invece, ad aumentare fra le donne (+2,2% annuo), per l’incremento dell’abitudine al fumo di sigaretta fra le italiane. In crescita anche il tumore della mammella e, in entrambi i generi, quelli del pancreas, della tiroide e i melanomi, in particolare al Sud.

Escludendo i tumori della cute (non melanomi), negli uomini prevale il tumore della prostata che rappresenta il 19% di tutti i tumori diagnosticati; seguono il tumore del polmone (15%), il tumore del colon-retto (14%), della vescica (12%) e dello stomaco (4%). Tra le donne il tumore della mammella rappresenta il 30% delle neoplasie femminili, seguito dai tumori del colon-retto (12%), del polmone (12%), della tiroide (5%) e del corpo dell’utero (5%).

Quasi 3 milioni e mezzo di italiani (3.460.025, il 5,3% dell’intera popolazione) vivono dopo la diagnosi di cancro, cifra in costante crescita (erano 2 milioni e 244 mila nel 2006, 2 milioni e 587mila nel 2010, circa 3 milioni nel 2015). Ciò significa che di tumore si muore sempre meno: merito anche degli interventi di screening che permettono di identificare la malattia nelle prime fasi, quando è più semplice curarla.

Anche i dati di sopravvivenza dimostrano i passi avanti compiuti: oggi in Italia il 63% delle donne e il 54% degli uomini sono vivi a 5 anni dalla diagnosi.

Almeno un paziente su quattro, pari a quasi un milione di persone, è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e può considerarsi guarito[45].

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CAPITOLO 2: GLI ENZIMI CHINASI

La fosforilazione reversibile di proteine e lipidi determina una significativa riorganizzazione strutturale sia delle prime che dei secondi, e per questo gioca un ruolo fondamentale in numerose vie di trasduzione del segnale inter e intracellulari, come ad esempio quelle implicate nei processi di crescita cellulare, differenziazione, proliferazione, angiogenesi, apoptosi e metabolismo. Il processo di fosforilazione è mediato da specifiche proteine con attività chinasica, dette chinasi: una vasta gamma di enzimi che catalizzano la reazione di trasferimento del gruppo γ-fosfato dell’ATP, o meno comunemente del GTP, su un substrato proteico o lipidico. Per quanto riguarda le proteine, l’accettore del fosfato è il gruppo ossidrilico di un residuo di serina, treonina o tirosina. A seconda del residuo fosforilato, si possono descrivere tre categorie di chinasi: tirosina chinasi, serina/treonina chinasi e chinasi a doppia specificità, cioè in grado di fosforilare tutti e tre gli amminoacidi. Le chinasi dei lipidi, invece, fosforilano i gruppi ossidrilici presenti a livello delle teste polari dei lipidi, localizzati sia a livello della membrana cellulare, sia a livello delle membrane degli organuli citoplasmatici. È dimostrato che alterazioni nell’attività delle chinasi possono condurre a disfunzioni nelle vie di segnalazione cellulari e, in ultima analisi, possono determinare lo sviluppo di condizioni patologiche, quali diabete, cancro, disordini immunitari, cardiovascolari, patologie neurodegenerative, comportamentali e dello sviluppo.

Il kinoma umano è l’insieme delle chinasi di tutte le cellule dell’organismo umano e comprende circa 20 chinasi dei lipidi e 518 proteine chinasi; i geni che codificano per queste ultime rappresentano l’1,7% del genoma umano. 478 proteine chinasi contengono un dominio noto come “eukaryotic protein kinase (ePK) domain”, mentre le altre 40 mancano di tale dominio e, per questo motivo, vengono definite “proteine chinasi atipiche (aPKs)”. Le proteine chinasi che presentano il dominio ePK possono essere ulteriormente raggruppate in 8 grandi categorie, sulla base delle similarità strutturali esibite proprio da tale dominio: TK (tyrosine kinase), TKL (tyrosine kinase-like), STE (STE20, STE11, and STE7 related), CK1 (casein kinase 1), AGC (protein kinase A, protein kinase G, and protein kinase C related), CAMK (Ca2+/calmodulin-dependent kinases), CMGC (Cdk, MAPK, GSK, Cdk-like related), RGC (receptor guanylyl cyclase) [46].

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2.1 PROTEINE TIROSINA CHINASI

Ad oggi sono conosciute 90 proteine tirosina chinasi, che vengono suddivise in recettori tirosin-chinasici (RTK) e tirosina chinasi non-recettori (nRTK).

Esistono 58 diversi recettori tirosin-chinasici, che sono riuniti in 20 sottofamiglie (Figura

7) sulla base dei geni che li codificano (ErbB, Ins, PDGF, VEGF, FGF, PTK7, Trk, Ror,

MuSK, Met, Axl, Tie, Eph, Ret, Ryk, DDR, Ros, LMR, ALK, STYK1), mentre le tirosin-chinasi non-recettori sono 32 e sono classificate in 10 sottofamiglie (ABL, ACK, CSK, FAK, FES, FRK, JAK, SRC, TEC, SYK) (Figura 8) [47].

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Figura 8[49]. Le 10 sottofamiglie di nRTKs.

I recettori tirosin-chinasici (RTKs) sono proteine transmembrana che consistono di una porzione extracellulare, deputata al legame con i relativi ligandi polipeptidici, di un’elica transmembrana e di una porzione citoplasmatica, che possiede attività tirosin-chinasica. Mentre la maggior parte dei RTKs sono costituiti da una singola catena polipeptidica ed esistono in forma monomerica quando sono liberi dai relativi ligandi, i membri della famiglia Met presentano una corta catena α legata mediante ponti disolfuro a una catena β transmembrana, e i membri della famiglia Ins presentano due catene α legate tramite ponti disolfuro sia fra loro sia a una catena β ciascuna. La porzione extracellulare può presentare una vasta varietà di domini globulari, per esempio domini immunoglobulino (Ig)-simili, fibronectina di tipo III-simili, ricchi in cisteina, EGF-simili. L’organizzazione strutturale della porzione citoplasmatica è, invece, molto più semplice: una regione juxtamembrana (che si trova subito dopo l’elica transmembrana), seguita da un dominio ad attività tirosin-chinasica e una regione carbossi-terminale. Le dimensioni del dominio ad attività tirosin-chinasica sono simili fra i membri di tutte le sottofamiglie di RTKs, mentre a variare molto in quanto a dimensioni sono la regione juxtamembrana e la carbossi-terminale. Inoltre, alcuni RTKs, come quelli della famiglia PDGFR, sono caratterizzati da un dominio chinasico interrotto dall’inserzione di una sequenza di circa 100 amminoacidi[50].

Il dominio tirosin-chinasico è composto da 12 sottodomini, organizzati in due lobi, e include un’ansa di attivazione. L’orientamento e lo stato di fosforilazione di tale ansa determinano lo stato di attività o inattività del dominio tirosin-chinasico. L’ATP richiesto per l’attività chinasica è alloggiato fra i due lobi.

Nonostante il numero e la distribuzione di residui tirosinici varino significativamente fra le varie famiglie di RTKs, un paio di tirosine sono quasi sempre presenti a livello dell’ansa di

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attivazione e vengono fosforilate in seguito all’attivazione del recettore: esse, infatti, risultano necessarie per la funzionalità dello stesso. La fosforilazione di queste due tirosine stabilizza la conformazione “aperta” del loop di attivazione e di entrambi i lobi del dominio tirosin-chinasico; inoltre, permette il legame dell’ATP e del substrato peptidico. Una terza tirosina, situata nei pressi del loop di attivazione, partecipa al cambiamento conformazionale di quest’ultimo. Tutti i tipi di mutazione a livello di questi residui tirosinici implicano inattivazione del recettore. L’unica eccezione è rappresentata da EGFR, che presenta una sola tirosina nella posizione in cui tutti gli altri RTK ne hanno due; tale tirosina, inoltre, non risulta essenziale per l’attivazione e la funzionalità del recettore[51].

La maggioranza delle proteine chinasi non-recettore si localizza a livello citoplasmatico; altre invece sono ancorate alla membrana cellulare tramite modificazioni ammino-terminali, come miristoilazione o palmitoilazione. Oltre al dominio tirosin-chinasico, le nRTK possiedono specifici domini che mediano le interazioni proteina, lipide e DNA. I più comuni domini che permettono le interazioni proteina-proteina sono Src homology 2 (SH2) e Src homology 3 (SH3). Il dominio SH2 è costituito da 100 amminoacidi ed è responsabile del legame a residui di fosfotirosina, mentre SH3 è costituito da 60 residui amminoacidici e lega sequenze ricche in prolina, capaci di formare eliche di poliprolina di tipo II. Alcune nRTK mancano dei domini SH2 e SH3, ma possiedono altri domini specifici per ogni sottofamiglia e responsabili delle interazioni proteina-proteina. I membri della famiglia Jak, ad esempio, hanno domini che consentono loro di legarsi alla porzione citoplasmatica dei recettori delle citochine. Abl possiede, oltre a SH2 e SH3, un dominio di legame alla F-actina e un dominio di legame al DNA. Un altro importante dominio è PH (pleckstrin homology), presente nei membri della sottofamiglia TEC; tale dominio consente il legame all’inositolo di fosfoinositidi[50].

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