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Mircea Cărtărescu, mitografie dell’io e della storia

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Mircea Cărtărescu,

mitografie dell’io e della

storia

Pubblicato il 9 settembre 2016 · in alfapiù, libri · Add Comment

Raffaele

Donnarumma

L’ala destra è l’ultimo volume di Abbacinante, la trilogia che Mircea Cărtărescu ha pubblicato in Romania fra il 1996 e il 2007 e che in Italia è uscita da Voland curata eccellentemente da Bruno Mazzoni: il primo volume, L’ala sinistra, è stato stampato da noi del 2003; il secondo, Il corpo, nel 2015. C’è da supporre che sia stato, per l’autore, il momento più difficile del suo lavoro, che è insieme la storia della vita di uno scrittore e di una nazione. La costruzione complessiva è scandita da un’ossessione simmetrica: ogni parte della trilogia è divisa in tre e il disegno

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immagine, del resto, ricorre in tutta l’opera, chiarendosi come un simbolo dell’Anima e dello Spirito, ma anche della mutazione dei corpi, simili a insetti destinati a liberarsi dal loro bozzolo di crisalide per volare via, splendidi. Eppure, l’ordine è apparente. Anzitutto, la distribuzione della pagine è asimmetrica e non ricrea affatto l’ampiezza delle ali ai lati e la sottigliezza del corpo centrale; soprattutto, a una tendenza progressiva si oppone ostinatamente il ritorno su temi e forme che il lettore ha già incontrato nei primi due volumi, e che ricorrono in tutti i libri di Cărtărescu, da Travesti a Nostalgia. Certo, il primo volume ricorda il secondo dopoguerra; il successivo, attraverso la gioventù dei genitori del protagonista-narratore, Mircea, che parla di sé ora in prima, ora in terza persona, l’epoca di Gheorghiu-Dej, presidente della repubblica tra 1961 e 1965; e ora arriviamo a Ceauşescu e alla sua caduta nella Rivoluzione del 1989 (L’ala destra parte proprio dalla rivolta di Timişoara): il tema che più ci si aspettava affrontasse quello che è riconosciuto da moltissimi, in patria e fuori, come il maggior scrittore romeno di oggi.

Ma questo disegno, come dicevo, è solo uno dei fili del racconto, non la struttura che lo regge davvero. Anzitutto, in ciascun volume compaiono altri momenti della storia pubblica: il passato non è mai liquidato, e interi episodi ambientati nell’Ottocento o ancora prima hanno uno spazio di rilievo – uno spazio, per di più, favoloso. Soprattutto, la storia di Mircea e della sua famiglia recalcitra a un racconto cronologicamente ordinato. Questa possibilità, infatti, è negata dall’insistenza con cui il narratore ripropone figure già apparse, come il vicino Herman o il misterioso gemello Victor, o torna sull’infanzia di Mircea e sulla giovinezza dei suoi genitori, o sprofonda in un passato anteriore (una lunga sequenza di questo volume, per esempio, narra di un antenato polacco, il principe Witold): in modo discontinuo ma ostinato, un magnete riporta indietro la bussola del tempo. Cărtărescu, d’altro canto, crede nel progresso spirituale, nella rinascita e nella resurrezione, ma non nella Storia: «dobbiamo rinunciare alla storia», scrive, «come a un racconto infatuato, secco e triste». La stessa salvezza non è il telos che dovrà essere raggiunto, un giorno, ma è già presente, in potenza, nel qui e ora; e analogamente l’apocalisse non è quello che avverrà alla fine dei tempi, ma quanto accade ogni giorno, in forma pulviscolare e dispersa.

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Questo misticismo, che ispira pagine da incubo o da sogno, da allucinazione psichedelica o da ierofania, non può concedere spazio a una rappresentazione – diciamolo pure – realistica della vita umana, né a un grado zero della prosa. Ogni evento pubblico o privato è costantemente sottoposto a una trasfigurazione che vuol rendere ragione del «continuum realtà-allucinazione-sogno-ricordo». Così, assuma le forme del lirismo o dell’epica, dell’apologo fantastico o del discorso di rivelazione, dell’allegoria o del simbolo, Abbacinante è sempre mitografia, sposa sempre la cultura con le fissazioni di un immaginario insieme orgogliosamente individuale e universalmente archetipico. Il cosmo è mosso da metamorfosi continue, e sotto gli occhi si producono continue anamorfosi. Nulla è separato, e tutto si può rovesciare nel suo contrario: realtà e irrealtà, materiale e immateriale, vivente e inanimato, maschile e femminile, bene e male, tempo ed eterno, corpo e mente, io e altro, umano e animale sono i nomi in cui l’indistinto prende forme momentanee e illusorie. La scrittura combatte allora la sua battaglia contro le apparenze e l’abitudine, cerca le leggi segrete del mondo, si libera delle superstizioni del razionalismo, e diventa il teatro di svelamenti successivi.

Tutto poteva dunque interessare Cărtărescu fuorché un romanzo storico sugli anni di Ceauşescu: il racconto si concentra sugli ultimi giorni del dittatore e ne ripercorre la vicenda a partire dall’ascesa al potere attraverso lo sguardo prima fiducioso, poi sempre più sdegnato di Costel, il padre del narratore, che vede tradite le sue speranze nel socialismo e nel progresso del suo paese. La soggettività dello sguardo, senza la quale non si dà racconto, diventa invenzione fantastica quando appare sulla scena, gigantessa fascinosa e agghindata dei suoi abiti tradizionali, la personificazione della Rivoluzione romena, che verrà ridicolmente violentata nel sonno una delle ultime notti del 1989 dai militari e dai politici lillupuziani che hanno rovesciato il comunismo; o quando le statue di Bucarest abbandonano i loro piedestalli e si riuniscono per ascoltare le concioni ispirate e ammorbanti di Lenin; o ancora quando, ad annunciare l’arresto del presidente, alcuni edifici si trasformano in oro, e dalla testa di Herman viene partorito, in un nuovo Natale, un bambino prodigioso. Il racconto della storia non è solo inseparabile dal fantastico, dalla satira, dalla deformazione grottesca, e insomma dal giudizio, ma dalla chiacchiera favolosa

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suoi dodici sosia, tra i quali si smarrisce l’autentico, o delle imprese da barzelletta di Elena, sua moglie, vice primo ministro e sedicente scienziata. Ma la condanna suona ancora più dura per i congiurati che per il dittatore detronizzato. Ceauşescu, nei suoi primi anni, ha nutrito illusioni; i suoi successori ne sono da subito incapaci. E così, l’aggressione satirica contro il despota non viene spinta sino in fondo, né la pietà riesce a raggiungerlo. La storia è una commedia sanguinosa e vana in cui tutti si perdono; i mostri feroci del potere sono sempre anche ridicoli. Sul popolo, ingannato e connivente, il giudizio sembra sospeso. Come il manoscritto di Mircea, Abbacinante è «tutto quel che poteva essere di più di diverso da un romanzo»: è «un libro»; e un libro è «una collezione di testure delle cose del mondo», è il corpo stesso di chi lo scrive, «è il mondo». Cărtărescu sfida tutte le nostre idee sull’arte del racconto. Ben inteso: è capace di invenzioni narrative trascinanti, specie nel registro fantastico, e sa attingere genialmente persino ai modi del romanzo d’avventura (come accade quando rivela la vita di Victor). Ma la narrazione è solo uno dei materiali dell’edificio, che, come in un disegno di Escher, sta in piedi sovvertendo la fisica e la ragione. La confusione di piani è così deliberata e così intensa, la consecuzione degli eventi così inadatta a far procedere il discorso, la tendenza alla ripetizione così insistita, il disegno generale così simbolicamente sovradeterminato e così enigmatico, che questa non è forse neppure, etimologicamente, prosa, discorso che va in avanti. La logica oscura di Abbacinante è la suggestione: come un sogno enorme e frastornante, ne intuiamo la coesione, e ne vediamo le deliberate rivolte alla coerenza e all’economia del pensiero diurno. Può avere fine, un’opera del genere? Ognuno dei tre volumi ha una conclusione ispirata e definitiva, nel modo della visione o del discorso teofanico; e l’effetto è simile a quelle opere in cui il concertato del primo o del secondo atto suona più perentorio dell’ultimissima scena. La volontà di concludere, di dire, brucia se stessa e il compito pare non poter essere portato a termine. Nelle ultime pagine, l’unione mistica tra Mircea e il suo negativo demoniaco, il gemello Victor, è una nuova coincidenza degli opposti; ma come pensare che le metamorfosi si arrestino?

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La prassi di Cărtărescu è del resto una continua riscrittura, intesa non come intertestualità postmoderna, ma come necessità di tornare su se stesso e impossibilità di evadere dal proprio mondo immaginario che, mirifico e ipnotico, esercita inflessibilmente il suo potere. Il libro illeggibile che Mircea scrive, e che leggiamo, è perciò due cose insieme: il sogno di una totalità, e l’impossibilità di raggiungerla; il teatro meraviglioso dei fasti dello stile, e l’ammissione che nessuna parola può essere definitiva; la volontà di esaurire una storia, la propria, e la necessità di tornarci ancora sopra. Coazione a ripetere, dunque? I traumi infantili rievocati in questo volume (la scomparsa del gemello, il pericolo della violenza sessuale) non spiegano molto. Se non c’è storia collettiva, neppure si può credere nella storia del singolo: essere ossessionati dal passato non significa confidare nel post hoc ergo propter hoc. La psicologia del profondo è pur sempre razionalista, e per questo va abbandonata. Come tutti i veri egotisti, Cărtărescu si sente a casa solo nel cosmo aperto. Le trasformazioni della materia universale diventano quelle della scrittura, che, mentre ambisce a far rifluire il mondo sulla pagina, rivela che nessuna somma di pagine può esaurirlo. Cărtărescu pronuncia il suo atto di fede nella letteratura riconoscendo che essa è sempre parziale, insufficiente – il che, se ne segna il limite, ne garantisce anche l’esistenza. Come nella Recherche, la letteratura non redime nessun’altra parte di mondo, se non quella che vive nel soggetto: solo in questo io sempre sul punto di dissolversi, ma che si mette «al centro del mondo», c’è salvezza. Alla fine, le vite degli altri – le si chiami storia, o realtà – possono ispirare desideri struggenti o nutrire odi feroci, ma restano inattingibili: «Non posso provare il mal di denti di un altro, né la sua passione, né la sua noia. Sono bloccato nella mia propria sofferenza». Persino quando il mondo si manifesta nella sua violenza di «sangue e merda», Mircea trova in esso «un che di irreale, molto più scialbo, più artificiale e più livido di qualsiasi lettera del suo manoscritto». E così in questo libro narcisista e cosmologico, concentrato sulla propria scrittura e affamato della pluralità dei multiversi, pieno di cultura e a caccia dell’inaudito, ci sono un’ingenuità e un candore che non ci si attenderebbe, e che è difficile trovare in altri scrittori di oggi.

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S H A R E →

a cura di Bruno Mazzoni Voland, 2016, 640 pp., € 25

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Cani di Nanni Balestrini

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