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La scoperta dell'infanzia in Sans Famille di Hector Malot: modernità e limiti

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Introduzione - La scoperta dell’infanzia

Nel XIX secolo la figura infantile inizia a prendere campo sulla scena sociale, interessandola sotto molteplici aspetti.

Un primo interesse si era sviluppato già nel XVII secolo; prima di allora il bambino non era dotato di grande valore perché considerato un individuo non autosufficiente. Sia in campo privato, sia in campo sociale o letterario, l’infanzia era vista o come una fase primordiale dell’uomo in cui il bambino era come un piccolo animale, un essere guidato solo da passioni e pulsioni o dal punto di vista religioso come creature contaminate dal peccato originale in cerca di salvezza.

Gli stessi genitori, di qualsiasi classe sociale, dalla più abbiente alla più povera, si curavano il meno possibile di queste piccole creature dal punto di vista materiale, mentre quello affettivo era del tutto escluso: “nulla il bambino-flebile scintilla di vita, solo a volte, poteva essere amata per ragioni non economiche”.1

Praticamente non considerato un soggetto civile, se non appartenente a una famiglia prestigiosa, spesso non se ne ricordava neanche la data di nascita.

Ancora neonati non c’era una diversificazione dei vestiti tra bambini e bambine e una volta un po’ più grandi i loro vestiti erano delle riproduzioni in scala ridotta dei vestiti degli adulti. Non esistevano giocattoli o oggetti creati a posta per loro, ma venivano usati quelli degli adulti. La loro igiene e nutrizione era presso che ignorata, non vi erano delle indicazioni da seguire, ma solo precetti tramandati di generazione in generazione e basati più su conoscenze popolari che su veri e propri studi.

Anche in campo artistico si aveva una difficoltà nell’approccio all’infanzia: essa era scarsamente rappresentata e le uniche immagini infantili erano quelle del bambin Gesù e dei piccoli putti alati, ma si nota spesso una muscolatura anche troppo evidenziata, sviluppata in queste figure e dei volti quasi invecchiati. Come se si riuscisse a riprodurre solo un aspetto alterato del bambino, questo presenta già caratteristiche adulte fin dalla più tenera età. In campo letterario, invece, l’infanzia non era presa in considerazione né come pubblico né come materia narrativa.

Mancava quindi del tutto il sentimento dell’infanzia, non nel senso che si ignoravano o disprezzavano i bambini volontariamente, soltanto non si era consapevoli di questa età diversa, delle sue caratteristiche peculiari e della necessità di operare una

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distinzione tra età infantile ed età adulta. Appena un bambino non necessitava più delle costanti cure della madre, o più spesso della balia, entrava immediatamente nell’età adulta.

Nel Settecento e in seguito, invece, i bambini diventano sempre più “simili ai cuccioli di un animale domestico ai quali si deve impartire un addestramento o simili a un seme cui bisogna permettere di crescere naturalmente”.2 L’infanzia non è più un periodo di transizione, di preparazione prima dell’età adulta, ma una fase della vita separata che ha valore per se stessa. Il modo in cui viene vissuta l’infanzia determinerà l’età adulta, per questo non è più possibile ignorarla.

In Francia sono due gli eventi che hanno principalmente modificato questa visione: la pubblicazione dell’Émile ou De l’éducation di J.J. Rousseau (1712-1778) nel 1762 e l’ascesa della borghesia.

L’opera di Rousseau sceglie come tema centrale proprio l’infanzia, normalmente ignorata o trattata in modo sommario in qualsiasi tipo di narrazione. Anche l’autobiografia non aveva interesse per questa parte della vita: dopo aver specificato le origini, la genealogia magari illustre del personaggio di cui trattava la vita, sceglieva solo alcuni episodi dell’infanzia, magari per la loro esemplarità o con fini didattici per il lettore. Rousseau compie quindi una grande rivoluzione, decidendo di trattare l’infanzia nella sua interezza e compilando un vero e proprio trattato di pedagogia. Egli non vede più nel bambino l’uomo che sarà, bensì egli vede il possibile adulto già nel bambino.

Spiegato il fattore culturale, vediamo quello sociale; a seguito della Rivoluzione, si affaccia sulla scena una classe che trova la sua collocazione tra l’aristocrazia di

Ancien Régime e il popolo: la borghesia. Questa classe sociale inizialmente ha dai

contorni non ben definiti, cerca perciò di darsi un’identità. Essa si consacra come vera e propria classe sociale a partire dal 1830, grazie all’ascesa al trono di Luigi Filippo, chiamato appunto re borghese, perché appartenente a un ramo collaterale della famiglia Borbone e non diretto discendente al trono. Gli anni della sua reggenza (dal 1830 al 1848) saranno i migliori per la classe borghese che consoliderà la sua posizione. Il modo che essa sceglie per definirsi è quello di contrapporsi alla vecchia aristocrazia dove tutto è lusso, ozio e dissoluzione morale. Inizialmente quindi i valori di cui la borghesia si farà portavoce saranno: lavoro, famiglia e morale.

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Inserendo la famiglia in questo schema di identificazione, non si può più ignorare o trascurare ciò da cui essa è composta. Se indubbiamente il suo nucleo è costituito dal matrimonio, che diventa un vero e proprio contratto tra due parti, i figli ne rappresentano il futuro e la prosperità. Sono infatti coloro che erediteranno i frutti e i sacrifici del lavoro dei loro padri e che ne continueranno l’ascesa sociale. Diventa così impossibile ignorare l’infanzia, ma non le si dà importanza a livello affettivo, quanto più per un interesse personale soprattutto di tipo economico; si scopre l’infanzia, ma perché il figlio rappresenta un investimento.

Conseguenza di questa presa di coscienza è la messa al bando di qualsiasi discendenza bastarda, molto comune nella classe aristocratica, ma non più tollerata in quella borghese; ciò spiega probabilmente anche il grande numero di bambini abbandonati agli hospice durante il XIX secolo. Inoltre, si vede una diminuzione del numero di figli per famiglia. Senza dubbio le famiglie aristocratiche erano numerose e i figli non comportavano un grande sacrificio, perché erano sempre affidati a balie e istitutori; anche le famiglie operaie o contadine continuano ad avere famiglie numerose, mentre mediamente una famiglia borghese ha un massimo di due figli. Questo perché un figlio è di fatto una spesa per la famiglia, mentre deve rappresentare soprattutto un investimento fruttuoso; maggiore il numero di figli, maggiori le parti in cui dovrà essere diviso il patrimonio della famiglia.

Successivamente a queste motivazioni, si inizia a interessarsi all’infanzia anche sotto tutti gli altri aspetti fino ad allora trascurati. Nelle famiglie di ceto medio, si inizia a porre maggiore attenzione su tutto ciò che compone la vita infantile. Per quanto riguarda l’alimentazione, dopo l’allattamento non si ricorre più a cibi simili a quegli degli adulti, ma si cerca di sostituire gradualmente il latte a cibi più solidi, ma sempre facilmente digeribili. Una serie di progressi medici e farmaceutici pongono nuova attenzione su un miglioramento dei livelli di igiene e cura delle malattie. Si scoprono i vaccini e le cure sanitarie sono impartite anche nelle scuole. Possiamo parlare di scuole, perché questo secolo vede un grande progresso nelle riforme relative all’istruzione pubblica. Materialmente, compaiono, e via via si sviluppano, tutti gli oggetti creati per l’infanzia. I vestiti diventano più comodi, abbandonando la pratica delle strette fasciature che avvolgeva il bambino; si differenziano inoltre da quegli degli adulti, differenziandosi per sesso ed età. Compaiono i primi veri e propri giocattoli, inizialmente artigianali, vanno pian piano specializzandosi, adattandosi all’età e al sesso del bambino (giochi più morbidi per i bambini molto piccoli,

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bambole per le bambine, ….). Seguono poi tutti gli oggetti che si legano al mondo domestico (culle, bavaglini, …) e scolastico (pennini, calamai,…).

Nella famiglia di ceto medio il bambino si ritaglia dei veri e propri spazi personali e ha delle stanze a lui dedicate all’interno della casa; vi è, inoltre, del personale domestico incaricato di occuparsi di lui, composto per lo più da balie, nutrici e istitutori.

Si comincia a parlare di pedagogia, ma anche di educazione familiare perché “les enfants ne peuvent être élevés au petit bonheur, mais ils ont le droit d’obtenir de ceux qui les ont mis au monde une constante préoccupation vers leur destinée”. 3

Una volta stabilita la posizione di rilievo del bambino, la sua importanza, gli adulti non possono più trascurare il loro ruolo di genitori, di guide. Anche la famiglia quindi, con le sue regole diventa luogo di apprendimento e istruzione:

(…) les parents ont de ce chef des obligations auxquelles ils ne peuvent manquer sans forfaire aux responsabilités des ceux qui créent une famille, et sous peine aussi de se priver d’une des plus douces préoccupations de la vie : l’avenir de leurs enfants.4

Ovviamente questo pensiero e anche tutte le pratiche prima citate non sono subito adottate, ma anzi faticano a prendere campo e vengono osteggiate su molti fronti. Non dobbiamo scordare, infatti, che siamo in un’epoca in cui il lavoro minorile è ancora molto impiegato, specialmente per tutta una serie di lavori che sfruttano la fisicità esile del bambino, come per esempio il lavoro nelle miniere e quello di spazzacamino. Inoltre, occuparsi della crescita, dell’educazione, della salute dei propri figli comporta dedicarvici tempo e denaro; questo può essere molto semplice per famiglie aristocratiche, che possono contare anche sull’aiuto esterno del personale domestico, relativamente possibile per una famiglia borghese che comunque gode di buoni guadagni, ma è al contrario molto difficile in tutti gli strati più bassi della popolazione. La maggior parte delle famiglie del popolo vive in condizioni di forte indigenza, alle quali si associa spesso l’ignoranza delle nozioni più comuni in tema di educazione e igiene. In una situazione di questo tipo è comune che la prole venga lasciata a se stessa: malnutrita, ignorata, non di rado picchiata e sfruttata, non conosce istruzione e affetto.

3 La famille et l’éducation: comptes rendus su III Congrès International d’éducation familiale,

Bruxelles, Goemaere, Imprimerie du roi éditeur, 1910, IV p. 40.

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5 (…) les familles pauvres, plus touchées que d’autres par la maladie

et la mort, sont souvent traduites en termes d’associations économiques, d’où rien d’autre ne peut s’échapper, sans produire d’autre sens que celui d’un corps à corps quotidien avec la survie, empêchant l’affectivité (telle que nous l’entendions aujourd’hui) de trouver sa place.5

Se questo è il secolo della scoperta dell’infanzia, non va dimenticato che è anche un secolo in cui la mortalità infantile è ancora alta e gli abbandoni sono numerosi, vengono aperti nuovi brefotrofi, il lavoro minorile continua a essere sfruttato e non tutelato.

La realtà è dunque bipartita: da un lato una società che inizia a capire quanto l’infanzia sia una parte centrale nella formazione dell’uomo, dall’altra l’incapacità di mettere in pratica un serio e netto miglioramento. Da un lato i figli istruiti e amati, dall’altro l’infanzia abbandonata, bambini maltrattati, considerati alla stregua di un capo da bestiame:

Il Settecento, quindi, dà vita a due infanzie sempre più differenti tra loro, a due «infanzie di classe», che procedono, sempre di più, per vie totalmente separate: un’infanzia borghese, valorizzata, amata, curata e protetta (anche se vigilata e punita) e un’infanzia proletaria (o popolare in genere) sfruttata, abbandonata o istituzionalizzata (in ospizi, orfanotrofi, ecc.), oppressa in vari modi, comunque sempre deprivata e infelice. Le due infanzie (…) saranno le protagoniste della storia dei bambini anche nell’Ottocento6

Analizzando una fascia temporale che copre quattro secoli, dal 1500 al 1900, H. Cunningham, ci dice quanto sia stato lungo il passaggio da una condizione di sfruttamento a una di potenziamento dell’infanzia:

Il ruolo dei bambini nella famiglia cambiò considerevolmente nel corso dei quattro secoli considerati. All’inizio del periodo l’infanzia per la maggior parte dei bambini a partire dall’età di sette anni si riduceva ad una lenta iniziazione al mondo del lavoro. Alla fine del periodo in esame in quasi ogni paese l’istruzione regolare era diventata obbligatoria per tutti i bambini.7

Anche E. Becchi nel suo saggio sull’infanzia nell’Ottocento evidenzia come

5 A. FARGE, La vie fragile, Saint-Amand-Montrond, Hachette, 1986, p. 61.

6 L. TRISCIUZZI, F. CAMBI, L’infanzia nella società moderna, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 51. 7

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la pedagogia parentale si differenzi a seconda del ceto e del contesto culturale; ritrova, però, una caratteristica comune, ovvero la divisione in ruoli dei genitori. La madre ricopre la funzione affettiva, mentre il padre rappresenta l’autorità del capofamiglia. Questa ripartizione corrisponde a quella effettuata tra uomo e donna dalla società; la donna è deputata al ruolo di brava moglie e buona madre, ubbidisce al marito, a cui è sottoposta dal matrimonio in quanto mineur; l’uomo, invece, si occupa di prendere tutte le decisioni e controlla la gestione economica. Questa idea di donna che si definisce, trova il suo spazio nella famiglia porta anche a un nuovo modo di essere madre; prima di allora, infatti, l’atteggiamento della madre nei confronti del neonato era caratterizzato dall’indifferenza. Si potrebbe obiettare che in alcuni strati della popolazione ciò era dovuto alla necessità di molte madri di lavorare per mantenere la famiglia, ma al di là di questa motivazione senza dubbio valida e veritiera, lo scarso valore conferito all’infanzia non portava certo al formarsi di quello stretto legame emotivo a cui ci ha abituati la modernità.

Ecco come ci vengono descritte per esempio le madri della Loira ancora nel 1808:

Qui le madri si occupano dei neonati con quella tranquilla placidezza che è caratteristica dei temperamenti pituitari. Quando li prendono in braccio o li fanno camminare, ciò avviene in silenzio; nel silenzio della rassegnazione ai propri doveri, che madri e serve eseguono con esattezza, ma raramente andando al di là. Esse non cantano, non parlano al bambino, non cercano di destarne i sensi; né si sforzano minimamente di sviluppare le sensazioni del bambino con la gaiezza o i piccoli vezzi della tenerezza materna.8

Anche laddove le donne compiono i loro doveri nell’accudire il neonato lo fanno senza sentimento, escludendo tutta la sfera affettiva che normalmente veicola il rapporto madre-figlio. A questo scopo si cerca di rinsaldare sempre più questo legame e per questo si fanno largo tutta una serie di nuovi modi di concepire la crescita del neonato. Si cerca di creare un filo diretto fin dalla nascita, ricorrendo sempre meno a balie o nutrici, promuovendo l’allattamento materno, fino al “definirsi di atteggiamenti di attenzione e di cura della mamma di ceto medio verso i più piccoli, di avocazione a sé dell’allattamento da parte della madre biologica, e , conseguentemente, del diminuire dell’alienazione del bambino a una balia lontana e

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poco controllabile; del provare dolore per la perdita del figlio piccolo; dell’allevarlo con più igiene e rispetto seguendo i consigli medici”.9

La famiglia moderna inizia così a differenziarsi, preferendo la privacy delle mura domestiche alla rete di legami con la comunità. Di conseguenza, la madre, non è più soltanto colei che mette al mondo il figlio, ma è colei che lo nutre, lo cura, lo educa, ma soprattutto lo ama e lo indirizza nella vita:

(…) à cette heure grave de la première formation, il plaît à la mère d’en prendre la peine et les moyens elle exercera sur l’avenir de l’enfant une influence dont les traces estampilleront toutes les œuvres de sa vie.10

Se fino al Settecento la storia della famiglia, come dice anche H.

Cunningham, era incentrata sugli adulti, nell’Ottocento la prospettiva cambia in favore del bambino, non più soltanto risorsa o soggetto passivo, ma soggetto da amare e in ogni caso dotato di una propria interiorità. Se si parla dell’adulto, lo si fa perché è prima di tutto genitore, deputato a guidare la prole.

Solo tenendo conto di questo netto cambio di rotta possiamo capire le parole pronunciate da M. Lantsheere durante il terzo Congresso Internazionale d’educazione familiare, tenutosi a Bruxelles nel 1910:

L’enfant aujourd’hui n’est plus enfermé dans un cercle étroit et tranquille. Dès son plus jeune âge il communique pour ainsi dire avec le monde entier.11

9

E. BECCHI, L’Ottocento, in E.BECCHI e D. JULIA , Storia dell’infanzia, Vol II, Bari, Laterza, 1996, p. 205.

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La famille et l’éducation: comptes rendus su III Congrès International d’éducation familiale, cit. , IV p. 43.

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1. Les enfants trouvés

Se non bastasse il titolo, Sans Famille (1878), a farci capire il soggetto principale dell’opera di Hector Malot (1830–1907), l’incipit della storia elimina ogni dubbio:

Je suis un enfant trouvé. 12

La storia che l’autore si propone di raccontarci è dunque quella di un orfano, di un bambino abbandonato dai genitori. Il termine che usa Malot non è però quello di “orphelin”, ma di “enfant trouvé”. In un suo saggio lo storico francese Muriel Jeorger distingue tre diverse categorie di bambini che occupavano gli orfanotrofi: “les enfants trouvés”, coloro che, nati da padre e madre sconosciuti, sono stati trovati in un luogo qualunque o sono stati portati all’orfanotrofio da terzi, “les enfants abandonnés”, coloro che sono nati e cresciuti per un periodo da genitori conosciuti, ma che in seguito sono stati lasciati all’orfanotrofio senza che si sappia più niente dei loro genitori, e infine “les orphelins”, coloro che non hanno né padre né madre e nessun mezzo di sussistenza proprio. In realtà Jeorger riprende il decreto del 19 gennaio 1811, in cui si specifica le tipologie di bambini la cui educazione è responsabilità della carità pubblica; le tipologie sono tre e sono appunto: les trouvés, les abandonnés, les orphelins pauvre.13 Dunque, un “enfant trouvé” è un bambino di cui non si conosce o non si è in grado di stabilire alcuna origine. Ecco, invece, la definizione che ne dà una scrittrice francese, Pierre Ninous: “ces pauvres êtres qui entrent dans la vie sans famille, sans nom, sans affection d’aucune sorte, mais qui portent au front, comme un ineffaçable sceau de malédiction qui doit les suivre, les accompagner ou plutôt les posséder partout”.14

La condizione che delinea è sicuramente sfortunata e negativa; non solo si evidenzia l’assenza di radici, come detto in precedenza, ma sembra evidente che, un ingresso nel mondo di questo tipo, rappresenti un marchio indelebile, che peserà per sempre sulla vita dell’individuo che lo porta. Infatti, nella parte finale del suo discorso, la Ninous si chiede addirittura se non sia meglio chiamare questi bambini “enfant perdus”. La condizione di orfano

12 H. MALOT, Sans Famille, Paris, Hachette, data rif. 1878, ed. utilizzata 2012, p. 11. 13

Citato in L. LALLEMAND, Histoire des enfants abandonnés et délaissés, Paris, Picard et Guillaumin, 1885, p. 266.

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con tutte le sue problematiche non è facile da affrontare in epoca contemporanea, sicuramente lo era ancora meno nel corso XIX secolo e precedentemente.

Il protagonista del romanzo, nonché io narrante, appartiene quindi a questa sfortunata categoria di bambini; il suo nome è Rémi. Non sappiamo chi sia stato a dargli questo nome, ma visto che il neonato non è mai arrivato direttamente in un orfanotrofio, è facile supporre che sia stata la sua balia e madre adottiva.

Rémi è stato abbandonato quando era solo un neonato vicino alla porta di un giardino in Avenue de Breteuil a Parigi. Viene ritrovato una mattina di febbraio all’alba da Jérôme Barberin, un operaio originario di Chavanon, trasferitosi a Parigi per lavoro; questi appena si accorge del bambino che piange fa in tempo solo a vedere un uomo allontanarsi di corsa. Intanto le grida del bambino richiamano l’attenzione di altri operai che percorrono quella strada e tutti d’accordo decidono di portare il bambino al commissariato. Qui il commissario li informa che il bambino sarà inevitabilmente trasferito à l’hospice des enfants trouvés a meno che qualcuno dei presenti non decida di prendersi carico del bambino. Barberin decide di proporsi, ma non lo fa in modo disinteressato, a convincerlo sono, infatti, le parole del commissario:

(…) c’était un bel enfant, sain, solide, qui ne serait pas difficile à élever; ses parents, qui bien sûr allaient le chercher, récompenseraient généreusement ceux qui en auraient pris soin. 15

Quello che persuade Barberin è quindi la possibilità di un guadagno futuro. L’aspetto stesso del bambino ne costituisce una garanzia, in quanto la biancheria e le fasciature usate per vestirlo sono di ottima qualità, arricchite da pizzi e merletti: esse indicano inequivocabilmente l’appartenenza a una famiglia ricca. L’abito, anche se quello di un neonato, rappresenta un elemento importante in seno alla società borghese, in quanto esso indica in modo inequivocabile la classe sociale a cui si appartiene.

“(…) je pensais que tes parents étaient dans une bonne et même dans une grande position de fortune. Cette idée m’était confirmée par la façon dont tu étais habillé lorsque Barberin t’a apporté à Chavanon, et qui disait bien clairement quel es objets que tu portais appartenaient à la layette d’un enfant riche.”16

15 H. MALOT, Sans Famille, cit. , p. 24. 16

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Sulle fasciature si trovavano anche le iniziali della famiglia, ma probabilmente erano state recise dai rapitori; infatti proprio questo elemento fa supporre che il bambino sia stato sottratto ai genitori e che presto questi lo ricercheranno.

Rémi è quindi accolto dalla famiglia Barberin; Jérôme lo porta a Chavanon, dove in una casa modesta di contadini, vive sua moglie e il loro bambino, della stessa età di Rémi. Jérome torna a Parigi e lascia i due neonati alle cure della moglie. Di lì a tre mesi Nicolas, il figlio dei Barberin, muore a causa di una malattia. A partire da quel momento mère Barberin si affeziona ancora di più al piccolo orfano che le è stato affidato e lo cresce come se fosse suo figlio. Rémi arriva fino a otto anni credendo di essere il vero figlio dei Barberin:

Mais, jusqu’à huit ans, j’ai cru que, comme tous les autres enfants, j’avais une mère, car lorsque je pleurais, il y avait une femme qui me serrait si doucement dans ses bras en me berçant, que mes larmes s’arrêtaient de couler. (…) Par tout cela et par bien d’autres choses encore, par la façon dont elle me parlait, par la façon dont elle me regardait, par ses caresses, par la douceur qu’elle mettait dans ses gronderies, je croyais qu’elle était ma mère.17

Nell’immaginario del bambino non c’è neanche la possibilità che quella donna che si prende cura così amorevolmente di lui non sia sua madre.

Il ritorno a casa di Jérôme porta Rémi a scoprire la verità. Jérôme torna a Chavanon senza avvertire la moglie: è zoppo a causa di un incidente sul lavoro e ha perso la causa contro il suo datore di lavoro, e quindi tutto il denaro che vi aveva investito. Appena entra in casa, sembra molto sorpreso di trovare lì Rémi, ma non ci è subito chiaro il motivo; appena i due coniugi pensano che Rémi si sia addormentato (in realtà il bambino è sveglio e finge soltanto di dormire) iniziano a discutere. Barberin è molto contrariato dalla presenza di Rémi in quanto già molto tempo fa aveva ordinato alla moglie di portarlo all’ “hospice des enfants trouvés”.

L’ospizio in questione è una particolare struttura, dotata di una “tour”, in cui le madri potevano abbandonare i loro figli o in cui orfani e bambini abbandonati venivano portati da terzi. Questa struttura si è diffusa, con tempi diversi, in molti Paesi europei, ma vediamo nello specifico come si è sviluppata in Francia.

Le prime esposizioni (con questo termine si intende l’abbandono in un luogo qualunque) di neonati in Francia risalgono al IV secolo e si compivano quasi

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esclusivamente alle porte di monasteri e delle chiese, poiché solo la Chiesa si occupava di prendersi carico degli orfani. Ovviamente l’esposizione rimaneva un crimine severamente punito e in caso di decesso del bambino gli esecutori potevano essere condotti al rogo. Secondo quanto riporta Jean-Pierre Bardet nel suo saggio La

société et l’abandon fino al XVII secolo “il n’existait pas d’organisation spécifique

pour la prise en charge des trouvée. (…) il revenait aux seigneurs hauts justiciers de financier leur placement”18. La situazione francese appare quindi molto drammatica, poiché nessuno si interessa veramente di questi piccoli orfani. Si ha un miglioramento nel 1638 a Parigi con l’apertura della Maison de la Couche grazie a Saint Vincent de Paul (1581-1660), Louise de Marillac (1591-1660) e alle Figlie della Carità, fondate da quest’ultima. A Rouen invece si occupa degli orfani prima l’Hotel Dieu e poi l’Hôpital général. Nel 1763 quest’ultimo si prende carico di tutti gli orfani della città, in un momento in cui si ha un picco di abbandoni. Sempre nel XVIII secolo (decreto del 19 gennaio 1811) si crea alla porta degli ospizi la cosiddetta “tour”, la ruota. Si tratta di un incavo cilindrico all’interno del muro che ruota su un asse, accanto al quale si trovava una campana. Coloro che abbandonavano i neonati, li adagiavano in questa cavità e suonavano la campana per avvertire la guardia dall’altra parte che un bambino era stato lasciato. La ruota veniva quindi girata e il bambino era accolto nell’ospizio, mantenendo l’anonimato di chi lo abbandonava. Con il decreto del 28 giugno 1793 lo Stato è obbligato a prendersi carico degli orfani e cerca di farlo in questo modo. Con la creazione di queste istituzioni, però, l’abbandono non sembra più un delitto e coloro che abbandonano i bambini possono deporli senza rischio in un luogo sicuro. L’atto era compiuto dagli stessi genitori, ma spesso il compito veniva assunto da degli intermediari; le figure prescelte erano molto frequentemente le stesse levatrici che avevano aiutato la madre durante il parto. Alcune si facevano pagare con grandi somme il loro servizio, altre si specializzavano in questo tipo di attività criminale. Inoltre gli ospizi assumevano e pagavano numerose balie per curare gli orfani e frequentemente capitava che una madre abbandonasse il proprio bambino per poi “recuperarlo” diventandone la balia retribuita. Se da un lato il nuovo meccanismo permette una maggiore protezione e controllo del bambino, dall’altro probabilmente ne agevola il suo abbandono, come

18J. P. BARDET, La société et l’abandon, in Enfance abandonnée et société en Europe, XIV_XX siècle, actes du colloque international (Rome, 30 et 31 janvier 1987), Roma, Scuola

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ci testimonia un passo di Eugène Buret in De la misère des classes laborieuses en

Angleterre et en France:

M. de Necker estimait qu’avant 89, le nombre des enfants-trouvés entretenus dans les différents hospices de France était de 40,000; 14 ans plus tard, il est porté à 51,000. En 1815, 4 ans après le décret de 1811, qui institute les tours et regularize la legislation applicable à l’admission des enfants- trouvés dans les hospices, le nombre s’élève à 67,966; en 1819, il est de 99,343; enfin en 1834, le rapport du ministre de l’Intérieur le porte à 129,699! Le budget des enfants-trouvés s’élève alors à prés de dix millions!19

Con lo stesso decreto del 1793 è inoltre fatto obbligo di inserire gli orfani in particolari registri, in cui si descriveva il bambino, il giorno di abbandono, il sesso, l’età apparente, i caratteri distintivi e i vestiti o altri oggetti lasciati con lui. Dopo di che il bambino veniva dichiarato allo stato gli veniva attaccata al collo una catenina con una medaglietta di riconoscimento con il numero con cui era stato registrato. I motivi dell’abbandono potevano essere i più vari: estrema povertà della famiglia d’origine, morte di uno dei due genitori, malformazioni o malattie del bambino abbandonato, bambino nato da una relazione adulterina. L’esposizione nell’ospizio poteva essere anche temporanea, il bambino veniva lasciato lì per un periodo e ripreso in seguito dalla famiglia; purtroppo dai registri pervenutici questi casi risultano molto rari.

In caso di un abbandono definitivo gli orfani erano spesso affidati a una nutrice, in modo da rendere il più breve possibile la loro permanenza all’interno della struttura, spesso molto affollata e quindi non in grado di supplire ai bisogni di tutti . Il soggiorno era prolungato solo se il bambino era molto fragile e cagionevole di salute o in caso di malformazioni gravi. Solitamente si prediligeva uno spostamento dalla città alla campagna. La famiglia della nutrice diventava facilmente la famiglia affidataria, che in seguito poteva a sua volta affidare l’orfano, per un periodo e sotto pagamento di una somma concordata, a un acheteur d’enfants, figura su cui ritorneremo più avanti.

Questa breve e sommaria analisi è necessaria solo per far capire le condizioni degli orfani in Francia e il fatto che questi, in quanto tali non avevano nessuna libertà o alcun potere decisionale sulla loro persona. Nel caso di Rémi questo è ancora più

19

E. BURET, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Tome premier, Paris, Chez Paulin, 1840, p. 418.

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evidente visto che nel libro non si fa minimamente cenno a una sua registrazione in nessun albo ufficiale, né al rilascio di nessun tipo di documenti; possiamo dire che per i registri dello stato Rémi non esista.

Tornando al testo, Mère Barberin non è riuscita ad abbandonare Rèmi, che ormai per lei è come se fosse figlio suo. Cerca di convincere il marito a cambiare idea e a tenere il bambino con loro, ma Barberin è irremovibile: guardando la realtà dei fatti nessuna famiglia benestante, ma neanche povera, è venuta a reclamare Rémi, Barberin è storpio e senza lavoro, non hanno più soldi, hanno dovuto addirittura vendere la loro vacca per affrontare le spese del processo e il futuro che si presenta è un futuro incerto e di miseria.

Faut-il que, quand nous n’avons pas de quoi manger, nous nourrissons un enfant qui n’est pas le nôtre?20

Mère Barberin cerca di convincere il marito che Rémi potrà lavorare nei campi e guadagnarsi da vivere, ma Barberin vede impossibile questa prospettiva: il bambino è certamente grazioso, ma di corporatura fragile e cagionevole di salute, assolutamente inadatto al lavoro nelle campagne.

Troviamo qui un tema che percorre tutto il romanzo ovvero quello della mercificazione dell’infanzia; se nel XIX secolo la borghesia francese scopre la figura del bambino, importante non tanto a livello affettivo, ma maggiormente in quanto erede, per le classi più basse della società, i bambini sono soprattutto un peso per la famiglia, che non ha né il tempo né il denaro per prendersene cura. A questo proposito così scrive Eugène Buret:

Le lien sacré des familles, s’il est jamais formé, est bientôt rompu par la dissolution et l’indiscipline des enfants, et par la negligence des parents. Les sentiments de la paternité et de l’amour filial ne résistant pas aux rudes épreuves de la misère. Les parents essaient de se débarasser au plus vite du fardeau coûteux quel leur impose la famille.21

Due sono quindi i problemi che evidenzia Buret: l’indisciplina dei bambini e la negligenza dei genitori. Posto che per cause principalmente esterne (condizioni di vita e di lavoro molto dure, mancanza di strumenti e di denaro) il genitore tipico

20 H. MALOT, Sans Famille, p. 21.

21 E. BURET, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Tome Second, cit. ,

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delle classi popolari è sovente negligente, questi ricerca nel proprio bambino una docilità di carattere e una robustezza fisica che gli permettano di guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro fin dalla più tenera età. Il bambino è quindi considerato non tanto come un essere umano, ma come qualcosa da cui si può trarre profitto. Tutta la sfera affettiva è spesso negata addirittura al proprio figlio; impossibile dunque aspettarsi un trattamento migliore per un orfano. Gli ospizi, come già detto, affidavano spesso e volentieri gli orfani a famiglie contadine che li sfruttavano per i lavori agricoli; ritroviamo testimonianza di ciò in un’opera recente riguardo ai “sans famille” di Jean- Pierre Bordet et Guy Brunet:

Coinvancus que la champagne est un milieu favorable à leur développement physique et moral, les administrateurs des hospices puis les inspecteurs des enfants assistés privilégient les placements dans des familles d’agriculteurs. L’attitude des parents nourriciers, sans doute lourde de conséquence sur le développement ultérieur du caractère de ces enfants, est très variable, allant probablement de l’attachement réel à un intérêt purement financier et éventuellement à la maltraitance. Leur enfance est marquée par le travail, parfois sans doute plus pénible et plus long que celui des autres enfants. Leur scolarité est en général brève, leurs “parents” jugeant parfois leur travail plus important que leur présence à l’école.22

In conformità a quanto detto è chiaro che Rémi rappresenti agli occhi di Barberin solo un ulteriore peso economico. Per lui l’orfano non è mai stato un figlio, poteva rappresentare una ricompensa da parte della famiglia d’origine, ma dato che in questi anni non è mai stato cercato, e vista la sua incapacità di potersi guadagnare da vivere a Chavanon, la soluzione migliore è liberarsene portandolo all’ospizio.

In questo modo Rémi viene a sapere la verità riguardo al suo stato di orfano. Ovviamente per lui la rivelazione è scioccante e la sola idea dell’hospice lo terrorizza, poiché la collega immediatamente a dei bambini di Chavanon che vi si trovano:

Il y avait au village deux enfants qu’on appelait «les enfants de l’hospice»; ils avaient une plaque de plomb au cou avec un numéro; ils étaient mal habillés et sales; on se moquait d’eux; on les battait. Les autres enfants avaient la méchanceté de les poursuivre souvent comme on poursuit un chien perdu pour

22

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15 s’amuser, et aussi parce qu’un chien perdu n’a personne pour le

défendre. 23

L’ospizio per il bambino ha un’immagine totalmente negativa e si lega imprescindibilmente a uno stato d’animo che caratterizza l’orfano: la solitudine. Infatti, se fino ad allora Rémi aveva creduto di avere come tutti i bambini una madre, il sentimento che lo assale e che lo accompagnerà per tutto il romanzo è proprio quello della solitudine. Il bambino si sente solo al mondo, senza alcun punto di riferimento, senza alcun legame affettivo certo; quest’ansia è causata indubbiamente dal fatto che ogni volta che riesce a legarsi a qualcuno, è poi costretto a separarsi da questa persona.

Sarà proprio mère Barberin, colei che Rémi ha ritenuto per lunghi anni la sua vera madre, la prima persona che dovrà abbandonare. Lei cerca di convincere in ogni modo il marito a tenere Rémi con loro, ma viene ingannata e Jérôme affida, in cambio di una certa somma, il bambino a un “achteur d’enfants” e artista di strada: Vitalis.

Barberin viene avvicinato da Vitalis a un café, mentre racconta a un amico la sua intenzione di recarsi al comune del villaggio per avere un contributo da parte dell’ospizio per mantenere Rémi. A questo punto un “grand veillard à la barbe blanche, qui portait un costume bizarre”24

, s’inserisce nella conversazione e manifesta il suo interesse a pagare lui una somma a Barberin in cambio del ragazzo. Questo strano personaggio è appunto Vitalis, accompagnato dalla sua troupe: tre cani, Capi, Dolce e Zerbino, e una scimmia, Joli-Cœur.

Inizia quindi una lunga discussione tra i due in merito a Rémi e al valore del ragazzo. Ritorna qui il tema della mercificazione dell’infanzia, perché la discussione tra Vitalis e Barberin ricorda la contrattazione per l’acquisto di un capo di bestiame:

-Il est bon pour travailler. -Il est bien faible.

-Lui faible, allons donc! Il est fort comme un homme et solide et sain; tenez, voyez ses jambes, en avez-vous jamais vu de plus droites?

Barberin releva mon pantalon. -Trop minces, dit le vieillard. -Et ses bras? Continua Barberin.

23

H. MALOT, Sans Famille, cit. , pp. 24-25.

24

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16 -Les Bras sont comme les jambes; ça peut aller; mais ça ne

résisterait pas à la fatigue et à la misère.

-Lui, ne pas résister! Mais tâtez donc, voyez, tâtez vous-même. Le vieillard passa sa main décharnée sur mes jambes en les palpant, secouant la tête et faisant la moue.25

Notare come Barberin cerchi di rovesciare le argomentazioni di Vitalis, nonostante siano state anche le sue davanti alla moglie, riguardo alla debolezza fisica di Rémi e di conseguenza alla sua incapacità di sopportare la fatica e la miseria del lavoro. Tutta questa conversazione s’inserisce in uno schema tipico della contrattazione per l’acquisto di un animale o comunque di un bene qualsiasi. Il venditore cerca di mettere in risalto ogni aspetto del “bene”, garantendo la sua perfetta funzionalità, mentre il compratore, nel tentativo di abbassare il prezzo segnala ogni tipo di difetto e dubbio.

Rémi non è altro che una merce, se ne annulla ogni aspetto umano, per considerarlo soltanto come qualcosa di cui servirsi. Naturalmente questo tipo di comportamento da parte degli adulti non fa che aumentare il senso di solitudine e angoscia del bambino, che per primo paragona questa scena a quella della vendita della vacca di mère Barberin:

J’avais déjà assisté à une scène semblable quand le marchand était venu pour acheter notre vache. Lui aussi l’avait tâtée et palpée. Lui aussi avait secoué la tête et fait la moue: ce n’était pas une bonne vache, il lui serait impossible de la revendre, et cependant il l’avait achetée, puis emmenée.26

L’occhio di Rémi è disincantato, vive la scena e ne conosce già il significato. Il giorno dopo, infatti, Barberin allontana la moglie da casa con una scusa mentre Vitalis si reca a prendere Rémi. Straziante e dolorosa la scena in cui il bambino si allontana piangente dalla casa in cui è cresciuto, non da meno quella in cui da sopra una collina Rémi scorge mère Barberin che torna a casa e disperata ne riesce cercandolo.

Seguono i primi viaggi e le prime avventure con Vitalis e la sua troupe, che trasforma anche Rémi in un artista di strada. Il bambino, conoscendo meglio il suo

25 Ivi, p. 29. 26 Ibidem.

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maître, non fa fatica a affezionarvisi, vedendolo quasi come quella figura maschile, paterna, che non ha mai avuto:

Je n’étais plus au temps où Vitalis m’inspirait de l’effroi. À vrai dire, ce temps n’avait duré que quelques heures. Assez rapidement, je m’étais attaché à lui d’une affection sincère, et cette affection avait été en grandissant chaque jour.27

Purtroppo un incidente mette fine a questo periodo felice nella vita di Rémi e lo obbliga a separarsi da Vitalis per un periodo. Quest ultimo, infatti, discute aspramente con un gendarme, per difendere la sua libertà di artista di strada, ma soprattutto per difendere Rémi ed è costretto a restare in prigione per due mesi. Rémi si sente nuovamente solo e triste, senza più alcun punto di riferimento, senza sapere quale strada intraprendere: “Deux mois de séparation! Où aller?”28

Fortunatamente Rémi incontra lungo il suo cammino Mme Milligan e

Arthur; madre e figlio, entrambi inglesi, viaggiano su un battello che risale il Reno. Arthur è stato gravemente malato fin dalla più tenera età ed è stato salvato più volte dalle cure amorevoli della madre. L’ultimo medico consultato da Mme Milligan ha consigliato di far restare Arthur sdraiato, a riposo per un periodo; Mme Milligan ha quindi fatto costruire un battello sul quale il figlio potesse stare sì nella sua posizione di riposo, ma senza annoiarsi rinchiuso in una stanza.

Arthur affascinato da Rémi e dalla troupe di animali che lo accompagna convince sua madre ad accoglierli sul loro battello per tutto il tempo in cui Vitalis resterà in prigione. Su Le Cygne, questo il nome del battello, Rémi instaurerà per la prima volta un intenso legame di amicizia proprio con Arthur e allo stesso tempo vedrà l’amore incondizionato che lega una madre a un figlio e viceversa. Prendere coscienza di una realtà familiare diversa dalla sua lo porterà per un momento perfino a invidiare Arthur, nonostante il suo precario stato di salute. Ovviamente ciò che invidia non è una certa agiatezza economica o il possesso di particolari beni materiali, ma l’affetto della madre:

Comme il devait être heureux d’être ainsi aimé, d’être ainsi embrassé dix fois, vingt fois par jour, et de pouvoir lui-même

27

Ivi, pp. 79-80.

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18 embrasser de tout son cœur cette belle dame, sa mère, dont j’osais

à peine toucher la main lorsqu’elle me la tendait!

Et alors je me disais tristement que, moi, je n’aurais jamais une mère qui m’embrasserait et que j’embrasserais. Peut-être un jour je reverrais mère Barberin, et ce me serait une grande joie, mais enfin je ne pourrais plus maintenant lui dire comme autre fois: “Maman”, puisqu’elle n’était pas ma mère.

Seul, je serais toujours seul!29

Rémi non vede un possibile lieto fine per se stesso, un ricongiungimento con la sua famiglia. Da quando ha scoperto di essere orfano si è come rassegnato a questa sua condizione: da un lato sempre subordinato alla volontà degli adulti, dall’altro costretto a non poter stringere legami duraturi con nessuno, come se la solitudine fosse già il demarcatore della sua giovane vita.

Est-ce que sera toujours ainsi? Est-ce que je trouverais jamais personne à aimer pour toujours? (…) Je n’aurais donc jamais de père; jamais de famille; toujours seul au monde; toujours perdu sur cette vaste terre, où je ne pouvais me fixer nulle part!30

Indubbiamente queste parole ricordano molto bene un passo di La Rochefoucault-Liancourt, citato in Noms et destins des sans famille, di Jean- Pierre Bordet e Guy Brunet:

“Fixez vos regards sur cette classe d’enfants qui, comme perdus sur la terre, n’ont jamais connu les auteurs de leurs jours, qui, sans parents, sans appui, sans aucun être qu’ils intéressent, se trouvent seuls au milieu du monde entière, n’appartiennent qu’à l’espèce humaine.”31

Arriva addirittura la vergogna per la propria condizione di orfano, anche se in realtà non si tratta di una scelta personale, ma di qualcosa che si subisce; Rémi non confessa, infatti, di esserlo a Madame Milligan:

Je parlai de mes parents sans dire qu’ils n’étaient pas réellement mes père et mère, car il aurait fallu avouer en même temps que je n’étais qu’un enfant trouvé.32

29 Ivi, pp. 105-106. 30 Ivi, p. 142.

31 Citato in J. BORDET ET G. BRUNET, Noms et destins des Sans Famille, cit. , p. 27. 32 H. MALOT, Sans Famille, cit. , p. 107.

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Essere orfani è considerato un marchio d’infamia e il bambino lo nasconde per tutto il tempo, credendo che se la famiglia Milligan lo sapesse non lo vorrebbe più con sé o temendo che i loro sentimenti potrebbero mutare. Quando Madame Milligan propone a Rémi di parlare con Vitalis e poi con i suoi genitori per prendersi lei carico della sua crescita e della sua istruzione, il bambino è terrorizzato all’idea che la verità possa venire a galla. La sua sola speranza è che Vitalis non accetti la proposta ed è, infatti, così che procedono le cose. Una volta scontata la sua pena Vitalis è intenzionato a riprendere il cammino con il ragazzo e quindi Rémi lascia anche la famiglia Milligan; ma non è solo, è di nuovo con il suo maestro. Questo momento di ritrovata stabilità non dura però a lungo: prima la troupe viene sorpresa dalla neve e perde tre dei suoi membri, Zerbino, Dolce e Joli-Cœur. Dopo non molto Vitalis, provato dall’età e dalla mancanza di riposo muore una notte molto fredda in cui lui, Rémi e Capi sono costretti a dormire all’aperto. Anche Rémi rischia la vita, ma le cure della famiglia Acquin, che li ha soccorsi la mattina dopo trovandoli alla porta, lo salvano. Sembra riiniziare tutto da capo per Rémi, che già si sente perso e confuso in seguito alla morte di Vitalis; Pierre Acquin, però, gli offre l’opportunità di restare con lui e i suoi quattro figli: Alexis, Benjamin, Étiennette e Lise. Père Acquin non è ricco, non può offrire a Rémi una vita agiata, ma un lavoro con lui come giardiniere e una vita in famiglia. Facile capire che è proprio quest’ultima cosa la più apprezzata dall’orfano:

Je n’étais plus seul, je n’étais plus l’enfant abandonné; j’avais mon lit à moi, j’avais ma place à moi à la table qui nous réunissait tous. Si durant la journée quelquefois Alexis ou Benjamin m’envoyait une taloche, la main retombée je n’y pensais plus, pas plus qu’ils ne pensaient à celles que je leur rendais; et le soir, tous autour de la soupe, nous nous retrouvions amis et frères.33

Inizia un periodo felice nell’infanzia di Rémi, le giornate sono scandite dal lavoro nei campi e nelle serre, ma la sera tutta la famiglia si ritrova in casa Acquin e il bambino finalmente sente di fare parte di qualcosa di più grande. C’è però come un’ombra da cui Rémi si sente minacciato, qualcosa che gli dice che lui non potrà “rester longtemps heureux”.34 Come a confermare questa sensazione, nel momento più inaspettato un temporale molto forte distrugge le serre della famiglia Acquin,

33

Ivi, p. 180.

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causandone la rovina. Père Acquin, non potendo pagare i suoi debiti viene condotto in prigione, mentre i figli sono accolti da parenti diversi in varie zone della Francia, sotto l’organizzazione di una zia, Catherine. In questo momento Rémi risente tutta la differenza del suo stato; quando chiede cosa ne sarà di lui a Catherine la risposta è semplice: “Toi? Mais tu n’es pas de la famille”.35

Quando gli altri bambini, e soprattutto Lise, cercano di far capire alla zia che lui è parte della famiglia, la zia non può non comprendere il sentimento che li lega, ma spiega anche che “dans la vie, on ne fait pas ce qu’on veut”36 e che “on accepte ses parents, on n’accueille pas les étrangers; le pain est mince rien que pour la seule famille, il n’y en a pas pour tout le monde”.37

Rémi riparte quindi per le strade della Francia, insieme al fedele Capi che in tutto questo tempo non l’ha mai abbandonato. Davanti a lui adesso si apre il mondo, qualunque altro bambino crederebbe di essere libero, di poter fare ciò che più gli piace, ma in realtà Rémi avverte in questa enorme libertà di scelta, soltanto tutta la solitudine data dalla sua condizione.

La vita di solitudine, di mancanza d’affetti porta ogni bambino a essere sensibile a qualsiasi tipo di attenzione e tenerezza che gli venga rivolta. Rémi indubbiamente segue questo meccanismo, ma anche Mattia, il bambino che Rémi incontra in casa di un acheteur d’enfants di Parigi, Garofoli, e che in seguito diventerà suo amico fraterno e compagno di avventure.

Mattia non è orfano, ma sua madre è una vedova molto povera che si deve occupare di altri cinque figli più piccoli e per questo motivo l’ha ceduto a suo fratello. Garofoli è quindi lo zio di Mattia, ma egli incarna anche il classico modello di acheteur che sfrutta e maltratta i bambini; non risparmia assolutamente il nipote, che riceve lo stesso trattamento di tutti gli altri bambini che vivono con lui. Quando Rémi incontra per la prima volta Mattia, rimane colpito dal suo aspetto: il bambino è molto denutrito, tanto che la sua testa sembra poggiarsi direttamente sulle gambe e la sua espressione è di “douleur et de douceur, avec la résignation dans les yeux et la désespérance dans sa physionomie générale”.38

Mattia racconta a Rémi com’è la vita in casa di suo zio e gli confessa di desiderare di ammalarsi gravemente, in modo da poter essere ricoverato in ospedale; i maltrattamenti, le violenze che subisce sono

35 Ivi, p. 193. 36 Ivi, p. 194. 37 Ibidem. 38 Ivi, p. 146.

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ormai così insopportabili che Mattia preferisce l’ospedale, luogo che generalmente impaurisce sempre i bambini. Non sono però le cure fisiche o il cibo che vi riceve che fanno apprezzare a Mattia l’ospedale, ma c’è una motivazione in particolare:

Si vous saviez comme on est bien à l’hôpital (…) et puis les sœurs vous parlent doucement: “Fais cela, mon petit; tire la langue, pauvre petit.” Moi j’aime qu’on me parle doucement, ça me donne envie de pleurer, ça me rend tout heureux. C’est bête, n’est-ce pas? Mais maman me parlait toujours doucement.39

Il modo dolce e tenero di parlare che hanno le suore che accudiscono i malati in ospedale, ricorda al piccolo Mattia il tono della madre ormai lontana. Quella stessa maniera di parlare è sufficiente a intenerirlo e renderlo felice. Mattia si rende conto che le suore non si rivolgono a lui con la stessa intenzione o con gli stessi sentimenti di sua madre, tanto che lui stesso dice che questo comportamento è stupido, però è come se in questo modo lui rivivesse, attraverso il ricordo, la parte felice della sua infanzia, quella trascorsa in famiglia. Il meccanismo che si crea permette al bambino di ristabilire un legame con la madre lontana, di avere l’illusione che lei sia lì vicina e si prenda cura di lui.

Questo è un primo esempio che troviamo nel testo di Malot di ricerca di un rapporto affettivo con una persona adulta, che magari incarni la figura paterna o materna, da parte di bambini abbandonati. Abbiamo numerosi altri episodi; un altro molto toccante, e direi quasi estremo nell’esplicazione di questo bisogno di affetto, lo troviamo in seguito e coinvolge sia Rémi che Mattia.

I due bambini dopo aver attraversato la Francia e guadagnato una somma considerevole di denaro dando rappresentazioni in vari villaggi e città, riescono finalmente a realizzare il loro progetto: comprare una mucca da portare in regalo a mère Barberin. Rémi, ormai non più subordinato a nessun adulto dopo la morte di Vitalis, ha deciso che l’ultima meta del suo pellegrinaggio, e di quello di Mattia, sarà Chavanon, dove spera di fare una sorpresa alla sua cara mère. Non volendo presentarsi a mani vuote, crede che il regalo migliore sia una mucca come quella che mère Barberin è stata costretta a vendere per pagare il processo di suo marito. Dopo quest’acquisto, i due percorrono con la loro vacca il tragitto per arrivare a Chavanon. Decidono di fare una pausa e fermarsi a una locanda. Qui per la prima volta

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assaggiano il latte della loro mucca; sono talmente felici del sapore di quel latte e della realizzazione del loro desiderio, che corrono a carezzare e abbracciare la loro mucca. Questa ricambia le loro carezze leccandoli e causando nei due bambini un entusiasmo ancora più grande, che Rémi spiega in questo modo al lettore:

Pour comprendre le bonheur que nous éprouvions à embrasser notre vache et à être embrassés par elle, il faut se rappeler que ni Mattia ni moi nous n’étions gâtés par les embrassades; notre sort n’était pas celui des enfants choyés, qui ont à se défendre contre les caresses de leurs mères, et tous deux cependant nous aurions bien aimé à nous faire caresser.40

Ho definito questo episodio come un’estrema ricerca nei bambini di quel calore umano che gli manca in quanto abbandonati, perché in questo caso non sono le attenzioni, le gentilezze di un adulto, di un altro essere umano a renderli felici, ma addirittura quelle di un animale. Indubbiamente la scena è emblematica e la spiegazione che Rémi si sente in dovere di dare al lettore, ci fa subito capire la fragilità emotiva che accompagna ogni tipo d’enfant trouvé. Non è però la prima volta che la solidarietà di un animale, riempie il vuoto affettivo che regna nel cuore di Rémi: cioè era già successo con uno dei cani di Vitalis, Capi, poco tempo dopo che il bambino si era unito alla sua troupe.

Se indubbiamente la vita nella sua materialità è colma di pericoli e insidie per un enfant trouvé, ciò non è meno vero per tutto quello che concerne la sfera caratteriale e psicologica che si sviluppa nel bambino che vive questa condizione. L’esperienza di enfant trouvé, accompagnerà per sempre un bambino e segnerà le sue scelte di vita anche una volta diventato adulto.

In un’analisi di Eugène Buret riguardo alle classi più povere, egli evidenzia come molto spesso questi bambini, totalmente trascurati e senza qualcuno che guida la loro educazione, perdono velocemente l’ingenuità e la spensieratezza tipiche della loro età: “Dans cette atmosphere impure, l’enfance affecte fièrement des vices qu’elle ne devrait pas comprendre, et l’innocence est perdue long-temps avant que les sens aient parlé.”41

Questo non avviene per il protagonista di Sans Famille, che anzi, nonostante tutte le difficoltà che è costretto ad affrontare, non perde la sua bontà d’animo e non è

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Ivi, p. 285.

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E. BURET, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, Tome second, cit. , p. 12.

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corrotto da nessun tipo di vizio. Inoltre nel finale Rémi decide di fondare un’istituzione che possa accogliere i petits musiciens de rues; come detto in precedenza, anche da adulto, anche dopo essersi riunito alla sua famiglia, Rémi non si è dimenticato di come ha vissuto la sua infanzia e per questo cerca di aiutare coloro che sono nella stessa condizione in cui è stato lui da bambino.

Ovviamente con ciò non intendo dimenticare che il libro che stiamo analizzando è un libro per l’infanzia e che, quindi, questa caratterizzazione così positiva del bambino orfano si inserisce nel disegno dell’autore di scrivere una storia che culmini in un finale assolutamente positivo. Malot segue quelli che erano gli schemi tipici dell’epoca: il bambino solo e abbandonato subisce umiliazioni e punizioni, ma grazie alla sua buona condotta viene ricompensato.

Se molti aspetti della vita dell’enfant trouvé riportati da Malot sono veritieri, non possiamo dire lo stesso del finale, che difficilmente nella realtà si conclude altrettanto felicemente.

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2. Lavoro minorile ed enfants errants

Spesso si sostiene che il lavoro minorile inizia con l’industrializzazione; ciò in realtà non è vero, perché già molto tempo prima, specialmente nelle campagne, i bambini erano impiegati come forza lavoro. Bisogna, però considerare che il lavoro agricolo era molto diverso da quello che sarà poi di tipo industriale: spesso l’attività si svolgeva tra i membri della propria famiglia e c’era una solidarietà tra lavoratori diversa da quella presente nelle fabbriche. Inoltre il lavoro agricolo era per lo più stagionale, mentre con la protoindustrializzazione e poi con l’industrializzazione vera e propria, il lavoro assume un ritmo continuativo, regolare.

Nel XVIII secolo si inizia a pensare al lavoro minorile come un tirocinio da compiere o presso degli artigiani o in una piccola fabbrica. Un decreto del 1811 evidenzia che “les contrats d’apprentissage ne stipuleront aucune somme en faveur ni du maître ni de l’apprenti, mais ils garantiront au maître les services gratuits de l’apprenti, jusqu’à un âge qui ne pourra exceeder vingt-cinq ans, et à l’apprenti, la nourriture, l’entretien, et le logement ”42

. Il lavoro minorile non viene quindi retribuito, ma il padrone ha come unico dovere quello di non ricoprire solo il ruolo di datore di lavoro, ma anche una sorta di padre di famiglia; nella maggior parte dei casi però questo non avviene e il proprietario sfrutta il lavoro del bambino facendolo vivere anche in condizioni disagiate.

Negli stessi anni nascono dei lavori fatti apposta per i bambini o in cui comunque si predilige impiegarli per sfruttarne la fisicità piccola e minuta, come per esempio il lavoro in miniera e l’attività di spazzacamino.

Il 22 marzo 1841 il governo francese emana una prima legge per disciplinare il lavoro minorile e diminuire così i danni sociali provocati dal suo abuso. Tale decreto è composto da tredici articoli e obbliga: a non assumere bambini al di sotto degli otto anni; a non far lavorare i bambini sotto ai dodici anni per più di otto ore e quelli al di sopra per più di dodici; a consentire pause e intervalli all’interno dell’orario lavorativo; ad assumere per turni notturni solo ragazzi che abbiano compiuto almeno tredici anni; a far lavorare in giorni festivi solo i maggiori di sedici anni e ad assumere bambini che frequentino le scuole pubbliche o private locali.

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Inizia quindi un primo tentativo di controllo da parte dello stato per tutelare i bambini lavoratori; queste norme non sono però subito accettate e rispettate, specialmente quelle che riguardano l’obbligo di assumere solo bambini che frequentino la scuola. Risulta, infatti, difficile conciliare le otto o dodici ore lavorative con l’orario da riservare alla scuola e allo studio e spesso questo non rientra negli interessi dei datori di lavoro né tantomeno in quelli dei genitori stessi. Lo Stato continua però la sua opera riformatrice e il 22 febbraio 1851 compare un decreto legge per l’ordinamento del tirocinio. In esso è fatto obbligo al datore di lavoro di stilare un contratto scritto in cui lui si impegna a insegnare il proprio mestiere al bambino, mentre questi promette di lavorare per lui. L’orario lavorativo non può superare le dieci ore giornaliere per i bambini sotto i quattordici anni, le dodici ore per quelli sopra i quattordici anni; il lavoro notturno non è permesso per i minori di sedici anni. Oltre a queste norme generali il testo fa riferimento anche a quale deve essere l’ulteriore ruolo del datore di lavoro: egli, infatti, dovrà essere anche un padre di famiglia per il bambino, sorvegliandone il comportamento e la moralità e assicurandosi che completi la sua istruzione. Ritroviamo quindi una maggiore specificazione di quel doppio ruolo che già era presente nel decreto del 1811.

" Le maître doit se conduire envers l'apprenti en bon père de famille, surveiller sa conduite et ses mœurs, soit dans la maison, soit au dehors, et avertir ses parents ou leurs représentants des fautes graves qu'il pourrait commettre ou des penchants vicieux qu'il pourrait manifester. Il doit aussi les prévenir, sans retard, en cas de maladie, d'absence, ou de tout fait de nature à motiver leur intervention. Il n'emploiera l'apprenti, sauf conventions contraires, qu'aux travaux et services qui se rattachent à l'exercice de sa profession. Il ne l'emploiera jamais à ceux qui seraient insalubres et au-dessus de ses forces." (Article 8).

In realtà la legge del 1851 si preoccupa molto di più di proteggere la morale, con tutta una serie di articoli in cui ci si cerca di salvaguardare i buoni costumi della società borghese, senza, però, assicurarsi che questi vengano messi in pratica. Se, per esempio, è fatto divieto a celibi o vedovi di assumere giovani ragazze, in nessuna parte il testo fa cenno a quale sia l’età minima del bambino per siglare un contratto di tirocinio o a una qualsiasi forma di controllo e punizione per chi non rispetti le norme.

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interessa sempre del lavoro minorile, ma questa volta in modo un po’ più approfondito. Il testo si rivolge ai ragazzi e alle ragazze impiegate nel lavoro industriale. Viene subito specificata l’età minima di assunzione: dodici anni; viene fatta eccezione solo per alcuni tipi di industrie (soprattutto quelle tessili) a cui è consentito assumere bambini sopra i dieci anni. L’orario di lavoro è definito in sei ore per i bambini che non hanno compiuto il dodicesimo anno d’età e in dodici per coloro che l’hanno compiuto; in entrambi i casi devono essere previste delle pause. Il lavoro notturno è permesso anche in questo caso solo al compimento dei sedici anni. Un’intera sezione è dedicata all’importanza dell’istruzione che il bambino deve compiere aldilà dell’orario di lavoro; il livello d’istruzione deve essere controllato dal datore di lavoro al momento dell’assunzione e questi si dovrà anche accertare che il bambino vada a scuola fino al raggiungimento dell’istruzione primaria elementare. Seguono norme che si riferiscono al rispetto dell’igiene e della moralità sul luogo di lavoro, alla registrazione del tirocinante in un apposito libretto, alle norme di sicurezza e ai lavori proibiti ai minori.

Tutte queste condizioni sono periodicamente controllate da quindici ispettori scelti dal governo e da una commissione locale per ogni dipartimento. Abbiamo quindi degli organismi di controllo, e di conseguenza anche delle pene per chi non rispetta le norme poste dal testo. Ogni contravvenzione è infatti punibile con un’ammenda da sedici a cinquanta franchi e ogni ammenda più essere applicata per tante volte quante sono le infrazioni commesse, fino a un massimo di cinquecento franchi. Sono inoltre sanzionati anche la recidiva e l’ostacolo al lavoro degli ispettori.

Senza dubbio quindi quest’atto legislativo appare più completo del precedente e più attento a proteggere realmente i diritti del minore. Nonostante il progredire della legislazione bisogna però ammettere che tutte queste norme hanno impiegato molto più tempo a essere rispettate. I bambini e ragazzi restavano per i proprietari di atelier e industrie una forza lavoro che richiedeva minor dispendio di denaro, mentre erano per i genitori una bocca in più da sfamare, che, per questo motivo, doveva contribuire alle spese della famiglia con il proprio lavoro. Quindi, questa nuova legislazione oltre a non favorire l’interesse economico dei datori di lavoro, negli strati popolari più poveri, non incontrava nemmeno quello degli stessi genitori, che erano i primi a preoccuparsi poco dei propri figli, per motivi economici o per mancanza di tempo:

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27 (…) l’enfant, au sortir de l’atelier, est abandonné à lui-même, parce

ses parents sont encore occupés à la fabrique, et le plus souvent, au lieu d’aller à l’école, il va s’amuser sur la voie publique.43

Questi bambini, una volta usciti dal luogo di lavoro, sono abbandonati a loro stessi e piuttosto che andare a scuola o studiare a casa vagano per le strade cittadine. La strada è un luogo a due facce: qui i bambini sfuggono al proprio dovere (lavoro o istruzione) in cerca del divertimento, ma è anche un luogo pieno di pericoli, dove il bambino erra alla ricerca di un guadagno, svolgendo lavori spesso illeciti che gli fanno rischiare di essere catturato dalla polizia per essere poi condotto in prigione o in un orfanotrofio; nella strada inoltre il minore entra in contatto con tutta una serie di personalità da cui la famiglia cerca di tenerlo lontano, condividendo con loro esperienze e modi di essere.

Egle Becchi e Dominique Julia rintracciano nel loro volume dedicato all’infanzia ben sei figure emblematiche dell’infanzia nella strada. La prima è quella del bambino che chiede l’elemosina, non come atto isolato, ma come vero e proprio mestiere. Segue l’ infanzia errante che ha la sua rappresentazione migliore nel Gavroche dei

Miserables; questo come altri personaggi letterari popolano le strade delle città

muovendosi come dei fuochi fatui, incantando i passanti. Troviamo poi quella del bambino catturato nella tratta, bambini cioè dati via dalle loro famiglie, troppo umili per sostentarli, spostati da una regione all’altra e obbligati a svolgere lavori umili e gravosi; non a caso i due autori segnalano come esempio maggiore di questa figura proprio Rémi di Sans Famille. Come quarta figura ne abbiamo una tipicamente inglese, quella cioè del piccolo deportato, facendo riferimento alle folte schiere di bambini inglesi deportati dalla madrepatria alle colonie. Arriviamo poi all’infanzia corrotta: rappresentata da piccoli ladri, prostitute in erba e complici di malviventi per terminare infine con la figura più drammatica: quella del bambino che muore perché è sulla strada, vittime del fato, ma spesso anche della violenza umana.

Le strade sono quindi popolate da numerosi bambini e ragazzi che hanno dato origine a quelli che la società borghese ha poi chiamato gli enfants errants e che Honoré Antoine Frégier indica come il primo passo dell’uomo verso il vagabondaggio nella

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M. SCHNEIDER, Rapport présenté au nom de la Commission chargé d’examiner la loi du 22 mars

1841 sur le travail des enfants dans les manufactures, Paris, Imprimerie administrative de P. Dupont,

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28

sua opera Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes, et des

moyens de les rendre meilleures. Ecco come l’autore analizza questa situazione:

Lorsque l'enfant est indolent et paresseux, son caractère résiste au travail avec une opiniâtreté instinctive; la discipline régulière et sévère de l'école est pour lui une entrave insupportable; livré à lui-même sur le pavé de Paris, exempt de surveillance en raison de la position de ses parens qu'un travail assidu retient hors du logis du matin jusqu'au soir,

il parvient aisément à secouer le joug de cette discipline qui lui pèse; au lieu d'aller à l'école, il erre souvent dans les rues, sur les quais, sur les boulevards; attiré par les jeux des enfans de son âge, il se mêle parmi eux avec empressement ; il contracte leurs goûts et leurs habitudes, d'autant plus volontiers qu'ils sont dominés comme lui par

une répugnance naturelle pour le travail ; enfin renvoyé de l'école à cause de ses absences continuelles, il est désormais acquis sans partage à l'oisiveté. (…) Il reçoit une rude correction; il fuit et ne rentre pas au logis. (…) Pour lui, il s'est associé tout-à-fait aux mauvais sujets qui l'ont corrompu, il connaît maintenant à fond les lois du vagabondage.44

In questa parte del testo Frégier prende in esame un tipo di vita errante volontaria, nel senso che è la cattiva disposizione caratteriale del bambino, la sua pigrizia, a portarlo ad abbandonare il tetto paterno; ma proseguendo nel testo l’autore ammette anche la possibilità di una necessità in questa scelta:

(…) un malheureux enfant est excédé de travail par ses parens ; il est retenu captif; il ne mange pas jusqu'à ce qu'il ait rempli sa tâche qui serait trop pesante pour un ouvrier dans la force de l'âge; les mauvais traitemens accompagnent les privations: est-il donc étonnant, qu'ainsi torturé, un enfant s'échappe de la maison paternelle comme d'une maison de malheur ! (…) Que dirai-je des orphelins, de ceux qui sont abandonnés par un père ou une mère dénaturés ? Certes, dans cet état d'isolement et d'abandon, dans l'âge de la faiblesse et de l'inexpérience, le vagabondage, la mendicité, le vol même, tout cela n'est-il pas une conséquence forcée, quoique déplorable, des lois cruelles de la nécessité ?45

Volontà o necessità, è indubbio che per lungo tempo le strade delle città francesi fossero popolate da questi gruppi di ragazzi e bambini, legati in organizzazioni con regole proprie e che si mantenevano mendicando o compiendo piccoli furti. Ovviamente come spiega Louis Chevalier nel suo libro Classes labrieuses et classes

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H. A. FRÉGIER, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes, et des moyens

de les rendre meilleures, Londra, H. Baillière, 1840, pp. 195-196.

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