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INTRODUZIONE: Il genere del racconto
Premessa terminologica
Prima di addentrarsi nelle varie definizioni teoriche, è quanto mai opportuno fare una premessa terminologica. Vi è un problema di definizione non trascurabile che concerne la narrativa breve, la mancanza di una precisa corrispondenza tra i termini usati nelle varie lingue per definire le varie tipologie di testo narrativo breve, sicuramente ascrivibile alle differenti realtà storico-culturali e letterarie. In italiano il termine racconto ha un uso abbastanza ambiguo, in quanto viene impiegato per indicare un po’ tutte le varietà di testo breve. L’unica distinzione che viene operata è con il termine novella, che indica la forma di narrativa breve contenuta nelle raccolte medievali e rinascimentali. La parola italiana racconto rimanda quindi ai termini inglesi tale e short story.1 La forma di testo narrativo breve che ha avuto inizio in America nella prima parte dell’Ottocento e che sarà oggetto del mio studio non ha pertanto una denominazione propria nella nostra lingua. Per questo motivo mi riferirò al genere utilizzando sia il termine inglese short story sia il termine italiano racconto, essendo tuttavia consapevole della mancanza di una totale corrispondenza fra i due.
Problemi di definizione teorica
Il racconto e il suo relativo studio accademico sono quanto mai difficili da delimitare. Per molto tempo, esso è stato considerato solamente un surrogato del romanzo, un esercizio giovanile per coloro che erano interessati a cimentarsi, successivamente, con qualcosa di più “difficoltoso”. Non è stato affatto facile
1 Vittoria Intonti, “Introduzione, L’arte della short story: genesi, sviluppo e teoria del genere”, in
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riconoscerlo come genere a sé stante e tuttora la sua diffusione non è omogenea. Ad oggi si è discusso molto riguardo agli aspetti che lo contraddistinguono, cercando di decidere quali siano quelli che lo caratterizzano maggiormente. Gli studi accademici sono proliferati, dimostrando come il racconto si sia ormai smarcato dall’incombente presenza del romanzo e affermato come genere tout court.
Tutti questi studi teorici hanno, tuttavia, messo in luce caratteristiche molto diverse. Il dibattito è davvero molto vivo e tanti sono i pareri su quali siano le proprietà intrinseche della short story, per cui è difficile darne una definizione condivisa. Alcuni ritengono che il carattere determinante di un racconto sia il suo legame con la fine della storia, in altre parole che la storia venga scritta in base al finale e che tutto il testo sia una climax ascendente il cui apice viene raggiunto alla fine. Altri pensano che una short story sia tale solo se coglie alcuni attimi fondamentali della vita del personaggio, senza raccontarla tutta, come invece accade in un romanzo. Come ha affermato A. M. Wright2, molte delle difficoltà sono riconducibili principalmente a due problemi: uno storico ed uno teorico. Il primo è collegato al tentativo, da parte dei primi studiosi, di distinguere tra le short
stories e le stories che sono “solo” brevi. Infatti ancora oggi ci sono pareri contrari
sul periodo a cui far risalire la nascita del racconto; alcuni si rifanno a testi come quelli di Boccaccio e de Le mille e una notte, mentre altri credono che la short story come oggi la intendiamo inizi solo con Poe. Sono due idee molto distinte, che hanno alla base una diversa concezione di genere. I primi cercano fondamenti per il “nuovo” genere e stabiliscono relazioni con testi precedenti, cercando di costruire una sorta di storia del racconto. Non credono che la short story sia un genere completamente nuovo, ma credono che vada inscritta in una fenomenologia più ampia, che abbia delle radici in altri testi, magari non chiamati short stories. I secondi, invece, credono che il racconto non abbia niente a che fare con i testi che lo precedono, ma che vada considerato diverso e completamente nuovo. Il secondo problema indicato da Wright, invece, riguarda l’individuazione del giusto approccio teorico. Come lui afferma, “there is ambiguity in the concept of genre itself”. Non si è d’accordo sul metodo critico con cui approcciarsi allo studio del genere; non è
2 Austin M. Wright, “On defining the Short Story: The Genre Question”, in Short Story Theory at a
Crossroads, ed. by Susan Lohafer and Jo Ellyn Clarey, Louisiana State University Press, Baton
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chiaro se esso vada considerato esistente di per sé e quindi debba essere solo approfondito o se vada ritenuto una categoria ancora da stabilire. Questo inoltre ci può in parte spiegare anche tutte le discussioni sorte intorno al confronto fra racconto e romanzo. Sicuramente questi due punti sono strettamente legati l’uno all’altro e non possono essere considerati separatamente, come non possono non essere tenute in considerazione tutte queste difficoltà nell’approcciarsi al genere della short story.
Sviluppo storico dello studio teorico del racconto
Come afferma Susan Lohafer3, per molto tempo lo studio della short story come genere è stato portato avanti direttamente da coloro che scrivevano racconti. Infatti, fino alla seconda metà del XX secolo non ci sono stati veri studi accademici. Furono direttamente gli scrittori, come Poe e Chekhov, ad interessarsi alla riflessione sul genere che, di fatto, stavano fondando e ad apportare un contributo veramente significativo.
Uno studio sulla short story non può non tenere conto di colui che effettivamente ne è stato il primo teorizzatore. All’inizio dell’Ottocento, Edgar Allan Poe è stato il primo ad enunciare la poetica del racconto, sottolineando la differenza tra questo e il romanzo e la relativa superiorità di quello che ancora chiamava tale. Poe riteneva che la somiglianza fra le due forme fosse solo apparente e che le loro caratteristiche basilari li diversificassero molto. Riteneva che l’unità di effetto, o impressione, fosse centrale e che da essa dipendesse la riuscita o meno di un testo letterario. Credeva, infatti, che un storia troppo lunga minasse questa unità, raggiungibile solo attraverso una lettura unica del testo. Poe affermava che un testo riesce nel suo intento di “impressionare” il lettore solo se viene letto in un’unica seduta; solo un testo “breve” può provocare un’intensa e durevole impressione nel lettore. Per Poe la brevità è la vera anima dell’arte.
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Tuttavia, questa “brevità” non deve essere intesa semplicemente come un tratto a sé stante, ma ad essa sono collegate in un senso più ampio tutte le caratteristiche che rendono il racconto diverso e, dal punto di vista di Poe, migliore rispetto al più lungo romanzo. Alla brevità deve essere associata infatti, secondo Poe, una semplicità della struttura che renda più efficace il testo. Il racconto deve avere unità di intreccio; non si deve perdere in mille digressioni, spostando l’interesse del lettore dall’azione principale, ma deve rimanere concentrato su un'unica “storia”; solo in questo modo si può provocare l’effetto tanto sperato nel lettore. L’attenzione deve concentrarsi su un singolo personaggio, il testo non deve essere popolato da una miriade di personaggi che distolgono l’attenzione dal protagonista e da quello che gli accade. Lo scrittore, inoltre, deve sapere già cosa vuole scrivere prima di mettersi a farlo; il racconto non può essere scritto di getto, ma deve essere ben organizzato e progettato. L’effetto da raggiungere, quindi, deve essere già ben presente nella mente dell’autore e così il modo per realizzarlo al meglio. Ogni singola parola deve essere ben studiata, data, appunto, la brevità del testo. Perciò, il concetto di unità deve riguardare anche la forma del racconto stesso, volta, come tutto il resto, all’accrescimento dell’effetto finale. 4
Molto importante è notare come Poe fosse interessato all’effetto che un testo esercita sul lettore, con cui lo scrittore di racconti deve avere un rapporto più attivo. Per lui, infatti, la reazione del lettore è fra i fattori che un autore deve tenere in considerazione al momento della scrittura. Lo scrittore non può prescindere dal considerare colui che in effetti sarà il fruitore di quanto compone e deve considerare, appunto, quanto sarà la durata della sua attenzione.
Nella poetica del racconto di Poe tutto è collegato, quindi, e mira, tramite la sua precisa costruzione, a provocare un determinato effetto in colui a cui il testo è rivolto.
Fra i primi teorici della short story deve essere ricordato sicuramente Brander Matthews, che si distingue dagli altri per il non trascurabile fatto di non essere uno scrittore, bensì uno studioso. Nel suo saggio, The Philosophy of the
Short-Story5 (1901), Matthews condivide le affermazioni di Poe, riaffermando
4 Edgar Allan Poe, “Poe on Short Fiction”, in The New Short Story Theories, ed. by C. May, Ohio
University Press, Athens, 1994, pp. 59-72.
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alcune cose da lui dette e aggiungendone di nuove. Una delle prime enuncia come una Short-Story6 sia differente da una storia semplicemente breve, mettendo in risalto che le caratteristiche intrinseche del racconto vanno al di là della mera brevità. Come Poe prima di lui, Matthews afferma che una delle caratteristiche più importanti e distintive del racconto è l’unità, presente a più livelli, come anche l’importanza che tutto sia incentrato su un singolo personaggio. Il testo deve essere, infatti, armonioso e logico, senza alcun elemento digressivo e con un senso della forma. Un altro tratto ritenuto importante e distintivo rispetto al romanzo è la possibilità di eliminare la storia d’amore nella short story. Infatti, secondo Matthews, il romanzo non può prescindere da raccontare, almeno marginalmente, una storia d’amore, per tenere vivo l’interesse del lettore. Il racconto, invece, proprio grazie alla sua brevità, può farne a meno ed incentrarsi su qualsiasi altra cosa, avendo possibilità illimitate. Tuttavia, il racconto, per essere definito tale, deve possedere alcune caratteristiche fondamentali, quali l’essere conciso ed essenziale. Da questi due tratti non può prescindere, secondo Matthews, pena l’essere considerato non facente parte del genere e quindi una short story e non una
Short-Story7. Le prime, infatti, secondo lui, sono facilmente scrivibili da tutti, mentre le seconde sono ben più difficoltose. Oltretutto, il racconto deve avere originalità, ingegnosità e, se possibile, un tocco di fantasia. Inoltre, Matthews afferma che il genere del racconto, a sé stante e distinto dal romanzo, ha conosciuto una storia ed uno sviluppo più lunghi di quelli del romanzo, rivendicando così un’importanza ed un’autorevolezza storiche mai riconosciute prima. Oggi le affermazioni di questi autori possono sembrarci non molto innovative, ma se pensiamo a quando sono state pronunciate, ci possiamo rendere conto della loro forza ed originalità, soprattutto in un contesto che riteneva il genere di scarsa rilevanza.
Un punto di vista nuovo e differente sulla short story viene, invece, rappresentato da Anton Chekhov, i cui racconti giunsero in Inghilterra e America all’inizio del nuovo secolo. La poetica che da essi traspare è molto diversa da quella
6 Matthews si riferisce alla short story scrivendo il nome con un “trattino” fra le due parole e in
maiuscolo, per differenziarla dalle storie che sono semplicemente brevi e non facenti parte del genere. Cerca così di sottolineare graficamente il senso della brevità qualitativa della short story.
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“romantica” dei primi scrittori, come Poe, Hawthorne e Melville. In Chekhov vi è una differente idea di short story. Le caratteristiche che contraddistinguono questo nuovo tipo di racconto sono diverse: la trasformazione dei personaggi, non più espressione di realtà né proiezione simbolica di qualcosa, bensì espressione di un sentimento, di uno stato d’animo; l’intreccio che si configura come un divenire privo di eventi, in cui non viene raccontata l’intera vita di un personaggio, ma viene messo in luce un particolare attimo di quella vita, un’esperienza, influenzata però da un particolare stato d’animo. Possiamo dire, quindi, che, differentemente dai “primi” scrittori di racconti, l’unità d’effetto viene data qui non dall’intreccio, bensì dal tono, dall’atmosfera del racconto. L’attenzione viene posta non sulla realtà esterna, ma su quella interna, messa in rilievo non già con una dettagliata descrizione dello stato d’animo, bensì da un oggetto rappresentante quel determinato sentimento (il correlativo oggettivo). La realtà descritta non è più la mimesi esatta della nostra, ma ad essa è aggiunta la realtà psichica dei personaggi. La rappresentazione della vita in queste short stories è quella della realtà come impressionismo e arte.8
Inizialmente le sue storie furono mal interpretate come esempio di realismo ottocentesco e, allo stesso tempo, ritenute manchevoli di alcuni tratti essenziali. Altri critici, invece, capirono come tali aspetti così “differenti” segnassero l’inizio di un nuova forma di testo narrativo breve, una modern short story. La poetica di Chekhov è, infatti, assimilabile a quella di poeti e scrittori modernisti e postmodernisti del XX secolo, come Woolf, Joyce e Mansfield. Molti studiosi successivi hanno perciò fatto coincidere con Chekhov l’inizio di una nuova forma di short story, per alcuni solamente un sottogenere del racconto che ha avuto inizio con Poe, per altri un genre completamente nuovo e ben distinto dal precedente.
Come abbiamo visto, quindi, i primi studi teorici sul genere sono stati elaborati dagli scrittori di racconti. Per avere, invece, i primi studi critici, alcuni dei quali solo marginalmente interessati all’argomento, dobbiamo aspettare Propp e i formalisti russi (in special modo B.M. Éjxenbaum) negli anni venti del XX secolo. Tuttavia negli anni che seguono non abbiamo uno sviluppo vero e proprio, ma
8 C. E. May, “Chekhov and the Modern Short Story”, in The New Short Story Theories, cit., pp.
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continuano ad esserci studi isolati, fino ad arrivare ai primi anni quaranta, quando la pratica del racconto viene interpretata come un buon metodo per far fare esercizio agli studenti. È proprio questo uso molteplice che se ne può fare, come scrive acutamente S.Lohafer9, a rendere difficoltoso l’inizio di un vero studio accademico sul genere. Negli anni sessanta, Eugene Current-Garcia e Walton R. Patrick curano un’antologia e dedicano una parte di essa allo studio del racconto come genere a sé stante; raccolgono nel loro volume tutti i singoli studi dei diversi autori e creano così una base da cui partire per poi andare a leggere i testi primari che seguono. Infine, un ulteriore ed importante passo in avanti verso un vero studio teorico viene compiuto da Charles May10, che elimina definitivamente la parte relativa alla lettura antologica, per creare una antologia di soli testi critici. Da questo punto in avanti lo studio teorico della short story come genere incontrerà un interesse sempre maggiore, arrivando a un dibattito critico molto prolifico ed interessante.
La short story in Gran Bretagna
Quando parliamo di short story, ci riferiamo a di un fenomeno letterario la cui nascita e diffusione sono certamente legati alla letteratura americana. Infatti è proprio là che il racconto, come oggi viene inteso, ha trovato genesi e sviluppo. Sicuramente questo si deve a varie ragioni, siano esse sociali, economiche o letterarie. La fioritura del racconto negli Stati Uniti è legata, infatti, a tutta una serie di concause, non ultima alla rappresentazione di una realtà frammentata e multiforme, di una società multiculturale e multirazziale. Scrittori come Poe, Hawthorne e Melville scrissero short stories credendo in una forma che non aveva niente da invidiare al romanzo, quest’ultimo espressione tipica della cultura britannica ottocentesca.
In Inghilterra, il panorama era diverso. Prima di tutto nei secoli precedenti al XIX non furono molti gli autori e le autrici che si dedicarono anche alla scrittura
9 Susan Lohafer, op. cit., pp. 3-10.
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di testi narrativi brevi, oltre ai generi “più in voga”; inoltre, anche fiabe e favole erano praticamente scomparse tra il XVI e XVII secolo, a differenza di altri paesi europei, probabilmente a causa dell’influenza del puritanesimo.11 Soltanto nell’Ottocento, perciò, possiamo cominciare a vedere una ripresa di alcune forme di testo narrativo breve e solo verso la fine del secolo abbiamo la prima comparsa di vere e proprie short stories. Per molto tempo, poi, è stato difficile classificare tutti quei racconti redatti da molti scrittori dell’epoca, che non rispondevano pienamente alle caratteristiche della short story. Il susseguirsi delle diverse correnti teoriche ha poi fatto in modo che si sviluppasse un approccio meno intransigente, più metatestuale, e che opere non propriamente ortodosse venissero considerate come facenti parte di un genere più ampio e aperto.12 I racconti della prima parte del XIX secolo trattano dei temi più vari: si va, dalle storie di fantasmi alla favola urbana, dal fantastico alle storie raffiguranti la società contemporanea vittoriana. Essi, inoltre, non rispettano l’unità di effetto e coesione teorizzate da Poe e non sono legati a un’idea di testo narrativo breve inteso come opera d’arte paragonabile al romanzo. Per capire come si sono sviluppati questi testi non è possibile prescindere dal considerare la committenza ed il contesto in cui essi vengono creati. All’epoca, infatti, non era uso pubblicare raccolte di racconti, ma questi venivano scritti ad uso e consumo dei giornali, per il grande pubblico, e, generalmente, servivano ai grandi scrittori per fare pubblicità al romanzo che stavano per pubblicare.13 Non erano, quindi, redatti con la profonda attenzione rivolta ad un’opera considerata dal suo autore di grande importanza e, anche per questo, godevano di una maggiore libertà tematica; gli scrittori, infatti, in questi testi narrativi brevi potevano esplorare tematiche che non si potevano permettere nella letteratura più “alta”. Generalmente, inoltre, in essi viene riconosciuto un tipo di linguaggio più semplice, quasi popolare e familiare; le parole non sono scelte in modo oculato per dare un certo significato e, allo stesso modo, l’intreccio non viene elaborato prima di essere scritto. Il racconto in questo contesto sembra essere più associato all’occasionalità, ad una scrittura di getto, facendoci ancora di più capire
11 Toni Cerutti, “Dickens e la favola urbana”, in Intonti, op. cit., pp.78-117. 12 Ivi.
13 E. Liggins, A. Maunder, R. Robbins, “Introducing the Victorian and Edwardian Short Story”, in
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la scarsa reputazione critica che tale tipo di scrittura aveva. Inoltre, questa narrativa breve si rifà non a quella continentale europea, ma riprende piuttosto la fiaba. Infatti, nell’età vittoriana c’è una ripresa d’interesse nella lettura e riscrittura di fiabe e ad esse molti scrittori si ispirano per la stesura dei loro racconti. La fiaba non era intesa come genere riservato esclusivamente ai bambini, basti pensare ad opere come Alice’s Adventures in Wonderland di Carrol. Un esempio dell’influenza avuta dalla fiaba nei primi racconti inglesi è la produzione breve realizzata da Dickens. Ispirandosi, per l’appunto, ad essa nella struttura e nelle tematiche, egli realizza nei suoi racconti quella che è stata chiamata successivamente la favola
urbana; come altri suoi contemporanei, unisce nei racconti tematiche del fantastico
e del fiabesco alle esigenze del realismo domestico modernizzandole, rendendole espressione del conflitto tra conservazione e modernità tipico della società vittoriana.14
Le idee riguardanti la short story cominciarono a cambiare alla fine dell’Ottocento, grazie principalmente allo sviluppo delle tecniche di stampa che aumentò l’efficienza tipografica e alla creazione di una nuova massa di lettori, a seguito degli Education Acts introdotti dopo il 1870.15 Infatti, queste ultime leggi provocarono la nascita di una folta schiera di giornali e riviste di ogni tipo, tutti interessati alla pubblicazione di narrativa breve. Secondo i redattori dei giornali, le
short stories davano la possibilità ai lettori di leggere alcuni fra gli autori più
famosi, ma con una maggiore varietà rispetto al romanzo. Inoltre, era possibile acquisire nuovi lettori ad ogni pubblicazione, diversamente da quanto avveniva nella pubblicazione seriale dei romanzi. Sul finire del secolo il successo delle short
stories crebbe di pari passo alla domanda. Uno degli aspetti più apprezzati dagli
autori era sicuramente il fatto che l’apparato economico impiegato per la loro pubblicazione fosse meno dispendioso rispetto a quello del romanzo. Questo incredibile successo portò alcuni autori, che fino a quel momento avevano avuto un’idea della short story come genere “commerciale”, si pensi ad Hardy o Gissing, a riprendere racconti scritti precedentemente e a raccoglierli in volume.
14 Toni Cerutti, op. cit., pp. 78-117.
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L’autore che meglio rappresenta questo cambiamento è R.L. Stevenson. Per lui la short story non era semplicemente un mezzo con cui cercare di arricchirsi, ma faceva parte di un più ampio processo di sperimentazione formale. A differenza di altri, Stevenson non si rifaceva solamente a testi e autori inglesi, ma spaziava da Poe a Dumas, da scrittori arabi ai romances di Hugo.16 Inoltre, come afferma Rosella Mallardi17, molto interessante è il fatto che Stevenson pubblicasse in special modo tramite i nuovi canali, così da avere una libertà maggiore rispetto a quella concessagli da un editore. La scelta della forma breve, per di più, si accompagnava ad una maturazione estetica che contrastava con quella del Realismo e ricercava una forma più idonea a una nuova sensibilità. Le sue short stories non sono, quindi, come quelle degli autori precedenti, scritte per un puro scopo remunerativo, ma ognuna di esse testimonia una forte attenzione stilistica. I racconti che Stevenson elaborò, inoltre, avevano delle caratteristiche di base molto diverse da quelli dei suoi predecessori, le più importanti delle quali sono: l’attenzione per le varie sfumature della personalità, la focalizzazione su un certo evento significativo che turba e cambia la vita dell’individuo, l’interiorizzazione di tempo e spazio e una nuova concezione del rapporto tra narratore/autore ed eroe.
Moltissimi furono gli scrittori che si dedicarono alla short story in questo periodo, ma molti di loro sono ormai dimenticati. Questo ci fa capire quanta strada ancora dovesse fare la short story per essere considerata dai critici. Grazie alla grande diffusione e a questa nuova concezione, tuttavia, a partire dagli anni ’90 dell’Ottocento alcuni scrittori ‒ primo fra tutti Henry James ‒ fecero del racconto l’oggetto della loro riflessione. In questi lavori di fine secolo, poi, si percepisce anche nelle tematiche l’arrivo della modernità. Essi rappresentano bene attraverso la loro brevità il senso di incertezza e instabilità che il nuovo secolo e le nuove tecnologie sembrano portare. Inoltre, non furono soltanto uomini a scrivere short
stories, ma, come oggi la critica femminista ha messo in rilievo, furono moltissime
le autrici di racconti.
L’inizio del Novecento vede infatti un grande sviluppo del genere della
short story. La critica ha spesso posto in rilievo le grandi differenze rispetto ai testi
16 Rosella Mallardi, “Una short story per ‘un matrimonio singolare’: “The Enchantress” di R.L.
Stevenson”, in Intonti, cit., pp. 143-167.
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del secolo precedente, anche mettendo l’accento sulla totale mancanza di legame fra i due, come se le sperimentazioni letterarie avessero inizio solamente con il nuovo secolo. Asserendo tali concetti, tuttavia, non si dà una visione globale dello sviluppo del genere, perché non è possibile non considerare i cambiamenti che la fine del secolo ha contribuito ad apportare nel genere del racconto e nel suo sviluppo in Gran Bretagna. Ne è un esempio il proliferare, nel tardo Ottocento, di short
stories scritte da autrici, che sicuramente, almeno in parte, influenzarono le scrittrici
del nuovo secolo. Inoltre, alcuni scrittori, come Kipling e H.G. Wells, che cominciarono a scrivere nell’età vittoriana continuarono, evolvendo la propria poetica, nel secolo successivo. Nei primi anni del nuovo secolo, peraltro, la maggior parte dei racconti pubblicati appartenevano ai generi popolari diffusisi nel periodo precedente, ma con un accentuarsi di interesse per la dimensione psicologica dei personaggi.18 Con l’andare del tempo questi primi generi, come la detective story, la spy story (sviluppatasi durante il periodo della Prima Guerra Mondiale, ma con radici in questi primi generi popolari) e il romance, si andarono sviluppando raggiungendo davvero un largo consenso.
Con il volgere del secolo e l’avvento della Prima Guerra Mondiale la corrente letteraria che maggiormente contribuì allo sviluppo del genere fu il Modernismo. La short story si adattava molto bene alle tematiche moderniste, rappresentando perfettamente con la sua brevità il momento di epifania nella opaca e grigia vita di tutti i giorni o la frammentarietà e soggettività dell’esistenza umana. Scrittori come Katherine Mansfield e James Joyce diedero nuovo impulso e una nuova dimensione alla short story. Peraltro, è certamente interessante notare che, benché siano fra gli autori più significativi del genere, né Joyce né Mansfield sono inglesi, ma rispettivamente irlandese e neozelandese. La short story, infatti, ebbe un grande sviluppo nel XX secolo in Irlanda, patria di alcuni dei maggiori scrittori di racconti, come Frank O’Connor, Elizabeth Bowen e Samuel Beckett.
Un ulteriore cambiamento nella poetica e nella diffusione della short story si ha dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Negli anni successivi alla guerra ha luogo una controtendenza rispetto alle decadi precedenti, con un declino di
18 E. Liggins, A. Maunder, R. Robbins, “Introducing the Twentieth-Century Short Story”, cit., pp.
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popolarità del racconto. Le motivazioni sono sicuramente molteplici. Riviste e giornali che li pubblicavano cominciarono a diminuire, mentre i vari agenti letterari consigliavano agli scrittori di spostarsi verso un genere più redditizio come il romanzo.19 Inoltre, mentre durante la guerra la drammaticità del momento favoriva la lettura di questi testi, grazie anche alla loro brevità, con tematiche ovviamente legate al conflitto, negli anni successivi gli autori difficilmente furono inclini a scrivere al riguardo.
In ogni caso, il genere non scomparve completamente. Gli editori della
Penguin continuarono a pubblicare antologie di racconti sia dell’epoca presente che
delle decadi precedenti, aiutando vari autori ad affermarsi.20 Inoltre, si sviluppò un nuovo modo di scrivere racconti, dominato da un sentimento misto di amarezza e sfida, dove ad essere messi in rilievo erano nuovi tipi di personaggi, provenienti da una classe sociale che non era più quella aristocratica o borghese, ma proletaria. I protagonisti di questi racconti, scritti per lo più da uomini, erano giovani proletari ai margini della società, che sfidavano le convenzioni e l’autorità e quindi, attraverso di loro, la società stessa. Le relazioni amorose in questi racconti sono prive di ogni aspetto romantico e vengono descritte in maniera cruda ed esplicita. Questi racconti si “ribellavano” non solo contro la società, ma anche contro la precedente poetica letteraria modernista, percepita come troppo pretenziosa, sperimentale ed elitaria.
Nella seconda metà del XX secolo aumenta il numero delle scrittrici e la proliferazione del racconto in paesi diversi dalla madrepatria, tanto che possiamo parlare di decentramento letterario. Londra e l’Inghilterra non sono più il centro dell’universo letterario inglese, ma moltissime short stories sono ambientate nelle colonie ed ex-colonie britanniche con la loro storia e cultura, o nelle altre nazioni della Gran Bretagna. Come già accennato, per il genere ha grande importanza la
Irish short story, con un interesse per gli altri, coloro che non fanno parte della
società e della cultura inglesi.
Negli ultimi anni del XX secolo e nei primi del XXI, si è assistito a una ripresa del genere anche in Inghilterra. Tantissime sono le cause che hanno portato
19 E. Liggins, A. Maunder, R. Robbins, “Introducing the Post-War Short Story”, cit., pp. 211-220. 20 Ivi.
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a questo rinnovato interesse, come la nascita di riviste interamente dedicate alla pubblicazione di racconti e poesie, l’aumento di corsi di scrittura creativa nelle università o la lunga serie di festival e premiazioni nati in tutto il paese. Inoltre, i racconti hanno cominciato a sviluppare tematiche che rispecchiano profondi cambiamenti nella società, nel concetto tradizionale di famiglia e nelle relazioni moderne. Uno dei fattori maggiormente messi in rilievo è sicuramente la vita urbana di oggi, con tutti i cambiamenti che il mutare dei tempi ha portato.
La short story in Gran Bretagna, quindi, ha avuto uno sviluppo alle volte discontinuo e spesso è stata messa in ombra dalla grande importanza data al romanzo, ma, come si può vedere da un’attenta analisi, è altrettanto interessante, copiosa e piena di testi di grande spessore.21
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CAPITOLO PRIMO
EDWARD MORGAN FORSTER
1.1 Vita e Poetica
Edward Morgan Forster nacque a Londra il 1° gennaio 1879, unico figlio di Alice Clara e Edward Morgan Llewellyn Forster. L’ambiente familiare dal quale proveniva era quello della media borghesia. Il padre Edward morì di tubercolosi quando lui aveva poco più di un anno, il 30 ottobre 1890 e la madre acquisì così grande importanza nella vita e nella formazione dell’autore.
Ebbero altrettanta importanza nella sua vita e nelle sue scelte intellettuali le esperienze scolastiche. Ebbe una prima esperienza negativa frequentando la
Tonbridge school nel Kent, una scuola privata. L’opinione che ne trasse a proposito
è notoriamente espressa in Abinger Harvest, in cui descrive gli studenti che ne escono come ragazzi
with well-developed bodies, fairly developed minds, and undeveloped hearts. And it is this undeveloped heart that is largely responsible for the difficulties of Englishmen abroad […] For it is not that the Englishman can’t feel—it is that he is afraid to feel. He has been taught at his public school that feeling is bad form.1
Questo sottosviluppo, o anche atrofia, del cuore è infatti presente nei testi come uno dei tratti più ricorrenti di molti dei personaggi forsteriani.2
Totalmente opposta fu invece l’esperienza al King’s College di Cambridge dal 1897 al 1901, che costituì un periodo fondamentale nella vita dell’autore, tanto da rappresentare per lui, negli anni successivi, un simbolico paradiso, come si può capire da molti dei suoi testi. In quel periodo frequentavano Cambridge alcuni fra i più significativi esponenti della cultura anglosassone, come Bertrand Russel, G.E. Moore, Lytton Strachey e John Maynard Keynes. Fra questi quasi tutti fecero parte
1 H. J. Oliver, The Art of E. M. Forster, Melbourne University Press, Melbourne, 1960, p.2. 2 Cristina Bombieri, “Introduzione”, in Camera con vista, Garzanti Editore, Milano, 2012, pp.
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di un club molto esclusivo fondato nel 1820 e che ebbe una grande importanza nella formazione intellettuale degli studenti migliori. Questa society venne denominata con derisione da alcuni “Gli Apostoli”, ma il nome piacque molto anche ai partecipanti. Forster fu uno degli adepti e, insieme ad altri compagni, fondò dopo la fine del periodo universitario a Londra il gruppo di Bloomsbury, di cui faceva parte anche Virginia Woolf. Il Bloomsbury group fu un circolo intellettuale molto esclusivo, quasi una comunità a sé stante e ben lontana dal resto del mondo. In entrambi i gruppi (quello universitario e quello londinese) trovava centralità la grande tradizione del liberalismo inglese, dove l’individualità veniva rispettata e posta in rilievo, come l’importanza dei rapporti umani, la ricerca della verità e un approccio aperto alle discussioni e alle relazioni.3
Un’altra esperienza importante per Forster furono i viaggi con la madre subito dopo la laurea in molti paesi del continente, come in Italia e Grecia, di cui troviamo così larghe tracce nei suoi scritti (il romanzo When Angels Fear to Tread, per esempio, pubblicato nel 1905, testimonia l’influenza del soggiorno italiano sull’autore). In questi viaggi, infatti, venne a contatto con popoli il cui modo di vivere era completamente diverso da quello inglese. Successive a questo periodo furono le pubblicazioni delle prime opere; dopo il primo romanzo, uscito nel 1905, pubblicò nel 1907 il secondo, The Longest Journey, cui fecero seguito nel 1908 A
Room with a View, nel 1910 Howard’s End e nel 1911 la raccolta di racconti The Celestial Omnibus.
Dopo questo periodo smise presumibilmente di scrivere e fece ulteriori viaggi. Andò in Germania, Egitto e India (che visitò altre due volte); svolse volontariato ad Alessandria d’Egitto per la Croce Rossa durante la Prima Guerra Mondiale e tornò a Londra nei primi anni ’20 dopo un periodo passato in India. Qui concluse l’ultimo romanzo, A Passage to India, uscito nel 1924. Dopo quest’ultimo capolavoro smise di scrivere romanzi dedicandosi a racconti, saggi, articoli e libretti d’opera. Del 1928 è la pubblicazione della seconda raccolta di racconti, The Eternal
Moment. Furono pubblicati postumi il romanzo concluso fra il 1913 e il ’14, Maurice, e una raccolta di racconti, The Life to Come. Edward Morgan Forster morì
a Coventry il 7 giugno 1970.
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Molto è stato scritto per giustificare il suo silenzio nel campo del romanzo dopo il 1924 e molte sono state le ragioni addotte a tale riguardo. Secondo alcuni Forster non riuscì a capire fino in fondo le problematicità che il mutare del secolo portava con sé, come non riuscì a rappresentare tutte quelle istanze di rinnovamento che la società e la letteratura richiedevano. Secondo altri il suo isolamento fu dovuto alle ancora retrograde idee riguardo alla rappresentazione dell’amore omosessuale nella letteratura del tempo e alla sua mancata accettazione nella vita reale. Questi critici ritengono che Forster smise di scrivere, poiché non poté in nessun modo raccontare nei suoi romanzi una parte fondamentale del proprio essere, senza essere il bersaglio della stessa feroce critica che aveva precedentemente colpito così duramente Oscar Wilde. Oltre a non saper affrontare le sfide che la venuta del nuovo secolo portava, Edward Morgan Forster non fu capace di fronteggiare e assimilare il nuovo tipo di romanzo che il nuovo mondo richiedeva.
È impossibile sapere quali furono le vere motivazioni che lo spinsero al silenzio nella grande narrativa; per di più, ritenere che tutto questo sia semplicemente dovuto all’incapacità di far fronte ai cambiamenti è riduttivo e non tiene conto fino in fondo dei meriti oggettivi dell’autore. Egli ha saputo esprimere a pieno la complessità della vita e delle relazioni umane, comprendendo che il
muddle è una condizione permanente e, spesso, addirittura preferibile.
Nel cercare di classificare Forster molto spesso ci si è riferiti a lui come a un autore di transizione, facente parte della letteratura cosiddetta “interstiziale”; altre volte è stato definito eduardiano, quindi ancora legato ad una letteratura fine-ottocentesca. È ritenuto, infatti, un innovatore in senso contenutistico e definito “moderno” (termine contrapposto a “modernista”). Dal punto di vista formale, a differenza di autori come Joyce, Eliot e Woolf, egli fu piuttosto tradizionale. I suoi modelli letterari erano tutti “canonici”: da Jane Austen a Thomas Hardy, da George Meredith a Samuel Butler. L’unica voce fuori dal coro era Proust, anche se si è supposto lo interessasse più per la sua acuta analisi psicologica e come romanziere dell’omosessualità che per le sue innovazioni formali.
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Nello studio teorico Aspects of the Novel4 è possibile ritrovare gli elementi più importanti della sua poetica e della sua idea di letteratura. È un testo molto interessante fin dall’introduzione, dove l’autore si sofferma ad analizzare e criticare il tradizionale approccio critico diacronico alla letteratura. Forster, infatti, afferma che l’analisi dei vari autori ‒ e la relativa suddivisione ‒ in base alla temporalità storica è quanto mai deficitaria ed erronea. Cerca di mettere in rilievo la vicinanza tematica di alcuni autori di periodi storici diversi e sottolinea come sia sbagliato operare una distinzione “scientifica” della materia letteraria. Le differenze importanti, infatti, sono altre e altri sono i modi in cui vanno evidenziate. Ne emerge un’idea di letteratura che travalica il senso del tempo, dove scrittori di epoche diverse si trovano sullo stesso piano e vengono distinti gli uni dagli altri solamente in base alla tecnica letteraria posseduta. L’opera d’arte è, quindi, per Forster un oggetto chiuso in se stesso, che va contemplato e valutato isolatamente, senza fare riferimento alla società che lo ha prodotto.
Successivamente tratta minuziosamente gli aspetti del romanzo da lui giudicati più importanti (Story, Characters, Plot, Fantasy, Profecy, Pattern and
Rhythm) e ne emerge un’idea ben definita di opera letteraria, soprattutto di opera
narrativa. Secondo Forster, l’intreccio della storia raccontata deve assomigliare alla vita; un racconto deve narrare della natura umana e sulla natura umana. Ogni aspetto di esso deve puntare, perciò, a questo. A tutto ciò consegue, nella sua riflessione, che la storia non deve seguire le leggi aristoteliche, proprio perché deve assomigliare al reale. Un romanzo non può, quindi, prescindere dal concetto di tempo. Come afferma nel suo saggio5, un romanzo racconta una storia e per questo non può escludere la dimensione temporale. Esempio di questa impossibilità è il romanzo di Gertrude Stein, scrittrice che ha tentato di abolire il tempo senza successo.6 Il capitolo sulla story è sicuramente centrale, poiché ci fa capire cosa Forster ritenesse veramente importante in un romanzo. Egli, infatti, oltre all’importanza data alla dimensione temporale, valorizza l’intensità e il valore
4 Si tratta di uno studio critico pubblicato nel 1927 in seguito ad un ciclo di conferenze tenute
dall’autore a Cambridge nella primavera dello stesso anno.
5 E. M. Forster, Aspetti del Romanzo, Mondadori Editore, Milano, 1968, pp. 33-51.
6 Da notare come a tal proposito Forster non accenni, invece, ad autori che hanno raggiunto tale
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dell’esperienza in sé, che deve essere considerato, secondo lui, un dato essenziale da mettere in rilievo in ogni testo narrativo.
Compie un ulteriore passo in avanti in questa direzione attraverso l’espressione del concetto di plot; infatti, il bravo scrittore, secondo Forster, si distingue per la sapiente costruzione della vicenda, che si differenzia dalla semplice narrazione cronologica, perché pone l’accento sulla causalità. Il senso di causalità adombra, infatti, la sequenza cronologica e mette in risalto altri aspetti, come il mistero, la cui risoluzione richiede nel lettore intelligenza e memoria.7 Un altro aspetto che avvicina il racconto al reale è l’uso che l’autore può fare del narratore. Forster afferma, infatti, che nella narrazione della storia l’uso di un punto di vista sempre diverso (e, quindi, la saltuarietà con cui il lettore comprende gli avvenimenti) rende il racconto equivalente al nostro senso della vita e al nostro rapporto con l’altro.8 A tutto questo bisogna, tuttavia, aggiungere che, nonostante quanto da lui affermato in Aspects of the Novel, Forster ha sempre fatto brillantemente uso di un narratore onnisciente, che, però, non racconta tutto al suo lettore. A suo parere, infatti, l’autore “had better not take the reader into his confidence about his characters”, in modo da mantenere l’illusione e la nobiltà di ciò che scrive.9
In un romanzo è poi fondamentale la trattazione dei rapporti umani in tutta la loro complessità. Un testo può mostrare di un personaggio ciò che nella realtà non possiamo vedere e non potremmo mai sapere di una persona. Secondo Forster, questo è ciò che realmente piace al lettore, il riuscire a capire fin da subito come una personaggio sia nel profondo, cosa che nella vita reale è impossibile da realizzare. Suddivide i personaggi in flat e round; i personaggi “piatti” (quelli che, secondo lui, possono essere definiti in una sola frase) sono necessari al romanzo, soprattutto in alcune circostanze, ma sono i personaggi “a tutto tondo” quelli veramente importanti. Si distinguono dagli altri, perché non possono essere facilmente descritti e riescono sempre a sorprenderci. Sono i round characters ad avere in loro stessi l’elemento fondamentale della vita, che attraverso di loro si trova rappresentata nelle pagine di un libro.
7 E.M. Forster, Aspetti del Romanzo, cit., pp. 95-115. 8 Ibidem, pp. 75-93.
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Si può forse rilevare una certa conflittualità fra il concetto di arte come entità separata dalla storia e dalla società e l’idea che un’opera letteraria debba riflettere la realtà dei rapporti umani e della vita in tutta la loro complessità. Sicuramente, tuttavia, questi due aspetti erano ben distinti nella mente di Forster: l’arte deve sicuramente assomigliare alla vita, ma “sembrare” non vuole certamente dire “essere”. Forster è stato giustamente definito lo scrittore delle sottigliezze. Nei suoi testi dominano le allusioni e il non detto, poiché tante sono le cose a cui ritiene di non poter fare esplicito riferimento. Attraverso questo largo uso delle sottigliezze cerca sempre di trovare un compromesso fra i desideri dell’individuo e la società.
Fra i concetti più importanti della sua poetica vi sono quelli di muddle,
connection e tolleranza. Il muddle10 è il caos, il garbuglio, l’inerzia; è una situazione in cui è impossibile riuscire a “vedere chiaramente”. In alcuni testi spesso è necessario che intervenga qualcuno a salvare il protagonista e a districare il garbuglio, in altri invece l’intervento comporta un peggioramento della situazione. Ad un certo punto, infatti, il muddle non è più qualcosa di negativo da cui fuggire, ma una situazione quasi preferibile.
Altrettanto importante è la connection, la connessione, il legame da instaurare con altre persone. Per Forster ciò che importa è “only connect”. È quasi una testimonianza del suo bisogno di entrare in contatto con gli altri, con i membri di altre classi sociali. Ciò che è importante per lui, infatti, è superare le barriere sociali ed entrare in contatto con le altre persone. Nei suoi testi si cerca costantemente di andare oltre la barriera della rigida educazione anglosassone per andare incontro all’altro, alla sua cultura e a un diverso modo di vedere. Cerca, inoltre, di trovare delle sfumature e delle forme che accomunino parti fra loro opposte. Forster cerca, appunto, un contatto, un compromesso fra poli contrapposti; questo aspetto è talmente importante per lui da divenire la tematica centrale di tutte le sue opere.
Un altro concetto importante è quello di ‘tolleranza’. Secondo Forster solamente la tolleranza sarebbe riuscita a creare dei miglioramenti in tutto ciò che concerne i public affairs. Riteneva che fosse la sola ed unica forza “which will
10 Il termine muddle non ha una perfetta corrispondenza in italiano, ma è traducibile con varie
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enable different races and classes and interests to settle down together to the work of reconstruction”11. Detto ciò non bisogna ritenere che Forster pensasse che l’essere tolleranti ed avere delle soddisfacenti relazioni con gli altri risolvesse i grandi problemi, ma credeva che fosse un primo passo verso la loro soluzione.12
Da tutto ciò possiamo quindi capire come le relazioni e il rapportarsi con gli altri fossero essenziali e determinanti per Forster, che ne fece quasi una religione. Nei suoi romanzi tutto soggiace all’ only conect, temine ultimo e scopo finale di ogni cosa.
1.2 I romanzi
I romanzi di Edward Morgan Forster furono tutti scritti e pubblicati fra il 1905 e il 1924, salvo Maurice che uscì postumo. In essi troviamo fin da subito tutte le più importanti tematiche dell’autore, prima fra tutte la necessità di stabilire un legame con l’altro.
La maggior parte dei critici opera una distinzione fra i primi tre romanzi e gli ultimi; infatti, benché tutti siano uniti dalle stesse tematiche, i primi tre presentano molti fattori in comune: dalla struttura ancora acerba al modo in cui i temi vengono trattati e sviluppati. Solitamente, infatti, When Angels Fear to Tread,
The Longest Journey e A Room with a View vengono considerati dalla critica più
immaturi ed espressione, quindi, di una poetica e di una scrittura non ancora pienamente sviluppate.
In questi primi tre romanzi è di centrale interesse l’inconciliabile conflitto fra due tipi di persone: coloro che credono nelle relazioni interpersonali e coloro che non ci credono. Ognuno dei due gruppi, inoltre, è associato ad un luogo.13 Nel primo romanzo, When Angels Fear toTread14, pubblicato nel 1905, il cui titolo riprende una frase del poema di Alexander Pope An Essay on Criticism, il conflitto
11 H. J. Oliver, op. cit., pp. 7-18. 12 Ivi.
13 Ibidem, pp. 19-38.
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è fra due paesi: l’Italia, in particolar modo la Toscana, e l’Inghilterra, rappresentata dalla città di Sawton. A scontrarsi sono due culture e due modi di vivere completamente differenti; infatti, alla fredda educazione inglese, rappresentata dalla famiglia Herriton, si contrappone la volgare, ma appassionata, realtà italiana, il cui portavoce è Gino, un individuo volgare e privo di educazione, che, tuttavia, non nasconde le sue emozioni vivendole a pieno.
Il motivo del conflitto è l’affidamento del bambino nato dalla relazione tra l’italiano Gino e la vedova Lilia Herriton, che muore dandolo alla luce. Si contendono il piccolo il padre e i suoceri di Lilia, che desiderano portarlo a Sawton e strapparlo così al destino di una vita da loro ritenuta umile e volgare. Lo scontro fra le due parti, che ha inizio fin da quando Lilia decide di rimanere in Italia e sposare Gino, si radicalizza dopo la morte della donna, quando la cognata di Lilia, Harriet, rapisce il bambino conducendolo inavvertitamente alla morte.
In The Longest Journey15, pubblicato due anni dopo e ritenuto dallo stesso autore il più autobiografico fra i suoi romanzi, il conflitto è espresso fra due realtà presenti all’interno della stessa Inghilterra: Sawton da una parte e Cambridge e lo Wiltshire dall’altra. Il perbenismo inglese classico e bigotto si oppone a un approccio più liberale e naturale alla vita e ai sentimenti. A rappresentare quest’ultima controparte ci sono Ansell, l’amico di Rickie, per Cambridge e il suo fratellastro Stephen per lo Wiltshire, the man of nature i cui sentimenti non sono bloccati da educazione e decoro. Sono, invece, emblemi di Sawton i Pembroke, i fratelli Agnes e Herbert; portavoce, come già detto, dell’arida educazione che si apprende nelle public schools.16
Sono, invece, nuovamente contrapposte Italia e Inghilterra, incarnate da Firenze e Londra, nel terzo romanzo forsteriano, A Room with a View17, opera pubblicata nel 1908, ma già iniziata nel 1903. A rappresentare la naturalità e genuinità vi sono gli Emerson, padre e figlio, entrambi molto poco inglesi, in cui i critici hanno rivisto alcuni aspetti di Samuel Butler. Benché lo stesso Forster abbia negato alcun tipo di influenza, come dice H. J. Oliver18, Emerson padre è
15 In Italiano è stato tradotto con Il viaggio più lungo. 16 H. J. Oliver, op. cit., pp. 19-38.
17 Camera con vista in italiano. 18 Ivi.
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sicuramente espressione di molti concetti “butleriani”. Associati, invece, alla controparte inglese sono la cugina della protagonista, Charlotte, e il suo fidanzato, Cecil Vyse. Entrambi sono portatori di un modo di fare e di vivere tutto dedito al rispetto delle regole sociali e dell’educazione, a cui deve essere sottomesso ogni aspetto della vita e che non è possibile trasgredire.
Un altro elemento fondamentale condiviso dai tre romanzi è l’importanza che viene data alla questione della scelta. In ognuno un personaggio deve scegliere fra le due realtà contrapposte e tutta la vicenda si svolge intorno a questa decisione. In Where Angels Fear to Tread i personaggi che devono operare questa scelta sono Philip Herriton e Caroline Abbott, l’amica di Lilia. Infatti, inizialmente si recano in Italia per osteggiare Gino ed avere poi la custodia del bambino. Una volta lì, tuttavia, capiscono quale sia la verità delle cose: devono scegliere fra lasciare il bambino alle cure amorevoli del padre, benché destinato ad essere cresciuto nella “volgarità”, o portarlo in Inghilterra, in modo che abbia un’ottima educazione crescendo, tuttavia, senza amore. Infatti, capiscono che, sebbene Gino sia privo di buone maniere, ha dei meriti che superano quelli dati dalla buona educazione; lui, come Stephen in The Longest Journey, è un uomo della natura, che dimostra apertamente ciò che prova, senza sottostare alle regole sociali e ai dettami della buona educazione. Dimostrazione dell’infondatezza delle loro iniziali credenze è la morte del figlio di Lilia, causata dal rapimento del bambino da parte della sorella di Philip, Harriet. La vita è quindi più grande di come l’avevano immaginata, ma, allo stesso tempo, anche meno completa; entrambi, infatti, pur avendo compreso la verità dei sentimenti, non possono realizzare i propri desideri, ma sono destinati a tornare alla pochezza delle loro esistenze.19
In The Longest Journey il personaggio che deve scegliere fra due realtà opposte ed inconciliabili è Rickie Elliot, uno studente di Cambridge, che deve scegliere fra la realtà di Sawton, rappresentata dalla donna che pensa di amare, Agnes, e quella universitaria e dello Wiltshire con l’amico Ansell ed il fratello Stephen. Apparentemente sembra scegliere subito Sawton sposando Agnes Pembroke e perdendo così se stesso e le proprie aspirazioni, ma le cose cambiano e vengono nuovamente messe in discussione con la comparsa del fratellastro Stephen.
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Infatti, anche se inizialmente lo rifiuta, una volta scoperto che in realtà è figlio illegittimo della tanto amata madre e non dell’odiato padre, comincia a cercare di conoscerlo e a instaurare un rapporto con lui. Alla fine sacrifica la propria vita per salvare quella del fratello, il quale, ubriaco, sta per essere travolto da un treno e sembra scegliere, quindi, la vita rappresentata da Stephen. Dopo la morte riesce, inoltre, ad ottenere quella fama come scrittore che in vita non era riuscito ad avere. Tuttavia, secondo alcuni critici come H. J. Oliver20, quella di Rickie non è una completa vittoria dello spirito, né un completo cambiamento, poiché egli non è riuscito ad accettare realmente fino in fondo Stephen.
Diversamente da ciò che avviene negli altri due romanzi, la scelta che la protagonista di A Room with a View opera alla fine del romanzo prevede un finale positivo. Inoltre, questa volta è un personaggio femminile, Lucy Honeychurch, al centro assoluto della vicenda e nella posizione di incertezza fra due realtà opposte. Allo stesso modo del protagonista del romanzo precedente, Rickie Elliot, Lucy oscilla fin dall’inizio fra i due gruppi. Inizialmente, infatti, rifiuta George Emerson abbandonando anche Firenze per Roma e accetta, poi, una volta tornata in Inghilterra, la mano di Cecil Vyse. Tuttavia, alla fine rifiuta Cecil rompendo il fidanzamento e si lega a George. Il romanzo si chiude, poi, sui due novelli sposi, tornati in luna di miele a Firenze e alloggiati nella stessa pensione Bartolini con, stavolta, a room with a view. Il romanzo sembra, quindi, chiudersi con un lieto fine; tuttavia, alcuni critici hanno sottolineato come in realtà i due sposi non approfittino completamente della vantaggiosa posizione che hanno guadagnato, perché si trovano a discutere alla fine del romanzo delle reali intenzioni della cugina Charlotte.21 In ogni caso, possiamo considerare questo romanzo uno dei pochi scritti dell’autore che prevede un finale positivo, poiché, comunque, il finale vede i due innamorati uniti e felici, avendo trovato finalmente un punto di contatto.
Un altro aspetto molto importante che va posto in evidenza è il simbolismo soggiacente alla trama in tutti e tre i testi, che li conduce oltre il mero dato realistico. Questo non è fondamentale per la comprensione della trama, ma ogni azione è arricchita con un significato ulteriore. A tale proposito molti sono gli esempi che
20 H. J. Oliver, op. cit., pp. 19-38. 21 Ivi.
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possono essere addotti. L’Italia non è soltanto una nazione, ma, come detto finora, rappresenta un modo di vivere; la morte del figlio di Gino è causata dallo scontro fra due carrozze, quella di Harriet e Philip, a suggerire che forze così opposte mai dovrebbero scontrarsi, ma anzi cercare un punto di incontro. Allo stesso modo anche il titolo del terzo romanzo ha un significato simbolico: la camera con vista mette in contatto l’artificiosità della realtà umana con la semplicità e la bellezza della natura. Attraverso di essa l’uomo può tralasciare tutti quegli aspetti del vivere sociale che lo soffocano e sperimentare un modo di vivere più naturale, dove i rapporti umani sono la sola cosa che conta.22
Contemporaneamente a tutti questi aspetti, molti critici hanno evidenziato come i tre testi condividano anche lo stesso tipo di manchevolezze. È stato notato, per esempio, che in essi Forster riesce a caratterizzare meglio i personaggi negativi piuttosto che quelli chiamati a esemplificare positivamente le sue convinzioni. Personaggi rappresentanti un’idea chiusa e classista della vita e dei rapporti umani, come Cecil Vyse, sembrano, perciò, convincere di più dei personaggi positivi come George Emerson, che non paiono possedere effettivamente tutto il fascino che Forster intendeva probabilmente attribuire loro. L’unica eccezione solitamente indicata è Gino, che convince poiché il suo creatore sembra essere perfettamente consapevole di tutte le sue mancanze, come la sua volgarità, presentandolo così con imparzialità. A questo aspetto è, poi, legato il fatto che spesso Forster più che “lasciar parlare gli eventi” si lascia andare a lunghe dissertazioni sui meriti dei singoli personaggi, senza, tuttavia, dimostrarli attraverso le azioni; anche per questo, quindi, molti dei suoi personaggi non risultano credibili.
Un’ulteriore critica che è stata spesso rivolta all’autore è l’apparente incapacità di descrivere e raccontare l’amore fra un uomo e una donna. Le donne che popolano i suoi romanzi vengono descritte come “perfette” in tutto meno che nelle questioni amorose, per le descrizioni delle quali l’autore usa spesso lo stratagemma della lettera. Tuttavia, a parte questo aspetto, è da sottolineare il modo sapiente con cui gli riesce penetrare la realtà femminile sotto tutti gli altri punti di vista. In ogni caso, fra tutte le critiche rivolte ai primi romanzi forsteriani, quella più rilevante riguarda il plot. Infatti, secondo alcuni, spesso l’attenzione posta sui
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personaggi va a discapito dello sviluppo della vicenda, tanto che in alcuni casi taluni critici hanno ravvisato dei momenti in cui i vari personaggi sembrano estranei alla vicenda di cui, invece, dovrebbero essere protagonisti. Molte volte simbolismo e storia non combaciano e non si amalgamano perfettamente gli uni con gli altri, a discapito della vicenda.
Di tutt’altro genere è il quarto romanzo di Forster, Howards End23.
Sicuramente uno dei più amati, è considerato anche uno dei suoi capolavori. Nonostante la vicinanza fra le date di pubblicazione di questo romanzo e del precedente24, Howards End se ne differenzia rappresentando un’evoluzione della poetica e della scrittura dell’autore. Forster sembra, infatti, voler includere in questo gli altri tre romanzi, ma al tempo stesso va oltre e sviluppa quanto già detto. Il tema qui magistralmente illustrato è ancora quello dei mondi contrapposti, ma vi si aggiunge una tensione sempre più forte e un incalzare di interrogativi che portano a una sorta di implicita tragedia.25 I due modi contrapposti di vedere la vita sono rappresentati da due famiglie: da una parte vi sono le sorelle Schlegel, Margaret e Helen, di origine tedesca e facenti parte della middle-class intellettuale e anticonvenzionale, che dà valore ai rapporti umani e ai sentimenti; dall’altra, invece, l’aristocratica famiglia Wilcox, indifferente a tutto ciò che non riguardi loro stessi, portavoce dei valori delle public schools e della politica capitalista dell’Impero Britannico. L’unica eccezione è Mrs Wilcox, che sembra essere molto vicina alle due giovani sorelle. La prima Mrs Wilcox sembra, tuttavia, rappresentare per Forster qualcosa di più. Ella sembrerebbe, infatti, una figura super partes, portatrice di una saggezza primaria, femminile ed illogica. Non ha la consapevolezza del conflitto e di ciò che lo caratterizza, ma sembra essere naturalmente portatrice di una profonda e vera morale istintuale, a cui l’intelletto da solo non può arrivare. Secondo alcuni critici, Mrs Wilcox si identifica con la tradizione passata e futura, a cui le persone possono rifarsi per giungere alla verità. È proprio questa continuità che permette, poi, a Margaret di sostituirla.
Il resto della famiglia, al contrario, si interessa pragmaticamente solo a ciò che desidera e che può ottenere, senza dare valore ad altro. Il personaggio più
23 In italiano è stato tradotto con il titolo Casa Howard.
24 Il romanzo viene pubblicato nel 1910, un anno dopo la pubblicazione di A Room with a View. 25 C. Bombieri, op. cit., pp. VII-XVI.
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negativo è raffigurato in Charles Wilcox, una versione peggiore del padre, la cui capacità di comprendere le proprie ed altrui emozioni è fortemente limitata. Le emozioni sono, infatti, viste da Henry Wilcox e dai suoi figli come qualcosa di fortemente negativo, di cui è doveroso riuscire a fare a meno. Gli Wilcox sono, quindi, incapaci di amare e di provare trasporto o desiderio sessuale, tendendo più ad approcciarsi alle donne in maniera cinica e fredda. Mr Wilcox e i suoi figli rappresentano l’approccio maschile alla vita, nella sua accezione negativa, contrapposto a quello femminile di cui Helen e Margaret sono portavoce.26 Le due sorelle Schlegel, infatti, ritengono che siano la vita e gli affetti privati a dover avere il nostro primario interesse; in loro i critici hanno rivisto molto della giovane Virginia Woolf e di sua sorella Vanessa.27 Quindi, ancora una volta sono contrapposte due idee, due modi di vivere, ma, stavolta, una non è completamente giusta né l’altra del tutto sbagliata; entrambe sono erronee se non si fondono insieme e cooperano. Come afferma H. J. Oliver28, “it is a matter of seeing that there is something to be said for the wrong side as such”. È proprio una delle sorelle Schlegel, Margaret, a mettere in pratica questo nuovo punto della poetica forsteriana sposando il capofamiglia dei Wilcox. Margaret ha scelto di vedere il mondo in tutta la sua completezza, perciò questo implica vederlo da tutti i possibili punti di vista. Attraverso il matrimonio, inoltre, ella cercherà più volte di far fondere i due mondi opposti. È stato comunque rilevato dai critici che l’affermazione che le Schlegel hanno bisogno dei Wilcox, come questi ultimi di loro, non è supportata dai fatti e quindi non è veritiera. Infatti, a parte le affermazioni dell’autore, la critica non ha rilevato nel romanzo alcun miglioramento nella vita di Margaret dopo aver sposato Henry. A ben vedere, comunque, alla fine del romanzo Margaret riesce a cambiare qualcosa: salva la sorella ed il figlio di lei destinando loro casa Howard. Allo stesso tempo fra le sorelle stesse è possibile rilevare una certa differenza di carattere; alla impetuosa e schietta Helen si contrappone la costante e vivace Margaret, che crede fermamente nella vita interiore e cerca veramente di only
connect, al punto, addirittura, di divenire la seconda Mrs Wilcox.29
26 H. J. Oliver, op. cit., pp. 39-56. 27 C. Bombieri, op. cit., pp. VII- XVI. 28 H. J. Oliver, op. cit., p. 42.
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Nella dicotomia fra queste due classi sociali, rappresentanti due modi di vivere diversi, si interpone una terza classe, la working class, quella degli esclusi per censo e per educazione, simbolicamente rappresentata da Leonard Bast, un piccolo impiegato. Leonard simboleggia tutte le persone private della propria terra e “obbligate” a modernizzarsi nelle città, ma che, tuttavia, non riescono a venire a patti con questa nuova realtà. Questi inizialmente sarà solamente un protetto di Helen, per poi diventare successivamente il suo amante e la persona da cui avrà un figlio. Purtroppo, proprio a causa di questo, Leonard morirà diventando la vittima sacrificale dell’espansionismo e del profitto moderno.
Lionel Trilling vede in casa Howard il simbolo dell’Inghilterra, a cui l’autore sembrerebbe alludere più volte nel testo, e, allo stesso tempo, scorge nel romanzo il destino che secondo Forster l’attende. Tuttavia, non è solo questo mistero a pervadere il romanzo e a farci riflettere; tanti sono i temi che non concernono solamente il suolo inglese: quello della vita e della morte; la vita degli esclusi e quella degli eletti; il panico ed il vuoto, che colpiscono tutti indistintamente e indipendentemente da quello che cercano di fare; la ricerca di ognuno di connettere i frammenti che compongono la propria vita. Al centro del romanzo vi è, ancor più che nei precedenti, un forte ed acceso conflitto interiore che sembra non avere fine; il libro, infatti, sembra sottolineare in ogni suo aspetto, dalla struttura stessa alla singola descrizione, una non-fine.
Forster compone qui una maestosa e compatta costruzione, ricca e attenta ad ogni piccolo dettaglio, che sicuramente si distacca dai romanzi precedenti e che sembra preludere al suo capolavoro finale.
Scritto fra il 1913/1914, ma rivisto in continuazione fino agli anni ’50 e pubblicato postumo nel 1971, Maurice narra esplicitamente di un amore omosessuale nell’Inghilterra dei primi del ‘900. Pare che l’ispirazione sia nata visitando nel 1912 la villa nel Derbyshire di un amico, il poeta Edward Carpenter, e rifacendosi alla sua relazione con George Merrill. Proprio per questi elementi biografici sembra, dunque, che Forster abbia sempre resistito alla tentazione di pubblicarlo. Infatti, la morale vigente dell’epoca osteggiava i rapporti omosessuali, arrivando addirittura alla persecuzione. Maurice conferma la natura dei problemi che la condanna dell’omosessualità, e quindi dell’omosessualità stessa, aveva posto
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a Forster, nel rapportarsi con un mondo ostile a cui non poteva fare a meno di rivolgersi.30
Sicuramente questo romanzo, insieme ad una raccolta di racconti inediti pubblicati anch’essi postumi con il titolo The Life to Come and Other Stories31,
getta una luce diversa sul suo dramma personale e fornisce ai critici delle possibili ragioni psicologiche al suo silenzio. Potrebbe offrirci, inoltre, alcuni dei motivi per capire certe incertezze e certe vaghe allusioni presenti nei primi romanzi nel trattare tematiche amorose.
In una breve premessa al romanzo, Forster afferma come il lieto fine fosse necessario per dare “moralità” ad un racconto altrimenti considerato dal mondo immorale. Il romanzo racconta del giovane Maurice e del travagliato percorso da lui compiuto per accettare se stesso e i propri desideri. Non stupisce che tutto abbia inizio all’Università, dove il giovane crea un legame particolare con l’amico Clive, che fin dall’inizio sembra fargli da guida lungo un percorso diverso da quello tradizionale. I due, infatti, sono legati da una relazione amorosa che tengono nascosta a tutti; tuttavia, le intenzioni dei due sono diametralmente opposte: Clive non desidera stravolgere la proprio vita ed andare contro le regole sociali, mentre Maurice vorrebbe che la loro relazione continuasse. Una volta apprese le reali intenzioni dell’amico, il giovane sconvolto abbandona gli studi. Comincia così un lungo periodo alla ricerca di se stesso, in cui costantemente rifiuta le proprie vere inclinazioni cercando un modo di “risolvere il suo problema”. Senza, ovviamente, essere arrivato ad alcuna soluzione si reca a trovare l’amico Clive ormai sposato. Questa visita sarà per lui un punto di svolta; infatti, là incontra il giovane guardiacaccia dell’amico, restandone inevitabilmente attratto. Data la reciprocità del sentimento, Maurice deve, dopo un’iniziale negazione, venire a patti con se stesso e finisce con accettarsi stabilendo così un legame con il giovane Alec. Il finale felice, tuttavia, si contrappone alla descrizione di una realtà sociale inglese dove la mancanza di accettazione dell’altro e del diverso è sempre più marcata. L’Inghilterra di inizio Novecento si contrappone ad altre realtà europee, dove vi sono maggiori libertà per l’individuo. Per essere liberamente ciò che è Maurice
30 H. J. Oliver, op. cit., p. 2.
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pensa addirittura di abbandonare il proprio paese che ostinatamente si rifiuta di accettarlo. Come accennato precedentemente, questo può sicuramente aiutarci a capire almeno in parte le difficoltà incontrate dall’autore vivendo in una realtà come questa. Maurice è certamente il romanzo più intimo e personale di Forster.
A Passage to India32 è l’ultimo romanzo di Edward Morgan Forster, pubblicato nel 1924, e sicuramente il suo capolavoro. È difficile elencare tutti i motivi che rendono questo testo la sua opera più bella, uno dei grandi romanzi della letteratura inglese. È un testo che narra in tutta la sua reale complessità dell’incontro-scontro fra due realtà fra loro opposte e del tentativo da parte di due personaggi, Aziz e Fielding, di superare tali differenze. Come dice Cristina Bombieri33, è il libro dove l’autore porta alla perfezione la rappresentazione dell’eterno scontro tra due mondi. Questa volta i due mondi contrapposti vengono raffigurati nei due gruppi “etnici” che convivono nella cittadina indiana di Chandrapore: gli inglesi e gli indiani, occupanti e occupati. A contraddistinguere i due gruppi ci sono anche le due diverse aree da loro occupate. Infatti, la parte alta di Chadrapore è occupata dagli europei e la parte bassa dagli indiani. La città, quindi, appare divisa in due, unita solamente dal cielo che la sovrasta, come Forster sottolinea nell’incipit del romanzo.34 Stavolta, però, il conflitto fra le due realtà è molto più complesso che negli altri suoi romanzi, il muddle sembra essere davvero inestricabile. All’interno del testo, inoltre, i significati sono molteplici e i diversi livelli si compenetrano.
Il titolo stesso è un esempio della complessità semantica, laddove il termine
passage assume vari significati. Una delle possibili valenze è il passare al nemico,
passare dall’altra parte; infatti, una delle tematiche principali è la relazione interculturale. L’India è un coacervo di culture diverse che vengono a contatto e che per convivere devono riuscire a relazionarsi, ma, allo stesso tempo, implica anche il “passaggio” alla cultura dell’altro, del diverso, il tentativo di “essere dall’altra parte”. Passage può, inoltre, indicare un rito di passaggio, quindi un
32 Passaggio in India nella traduzione italiana. 33 C. Bombieri, op. cit., pp. VII- XVI.
34 A tal proposito è interessante notare come il riferimento al cielo sia presente sia all’inizio che alla
fine del romanzo, svolgendo quasi la funzione di cornice. Tuttavia, i riferimenti che l’autore compie sono opposti, poiché, mentre il cielo dell’incipit unifica la città divisa, quello della fine si unisce alle altre voci dell’India per dividere i due amici.