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Segnali dalla semisfera di Jurij Lotman [recensione a Ju. Lotman, Conversazioni sulla cultura russa, a cura di S. Burini, Bompiani, 2017]

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(1)

«Conversazioni

sulla cultura russa»,

nate per la Tv

tra il 1986 e il 1991,

ora da Bompiani

Segnalidallasemiosfera

diJurijLotman

Ettore Sottsass,

un’utopia figurativa

alla Triennale

MOZZATI E DI MAURO di RAISSA RASKINA

D

opo avere danzato con Vronskij un cotil-lon durante il quale nulla di memorabile è stato detto, Kitty aspetta la mazurca con la segreta certez- zadiascoltareleparo-le che zadiascoltareleparo-legheranno la sua vita a quella del brillante ufficiale del-la Guardia. Perché Kitty è così si-cura che la dichiarazione di Vronskijsaràaccompagnatadal-la musica delVronskijsaràaccompagnatadal-la mazurca piutto-sto che da quella del cotillon? E perché riconosce l’incedere del-la catastrofe nel momento stes-so in cui l’ufficiale rivolge a stes- sor-presa l’invito a ballare ad Anna Karenina? Altre storie, altre do-mande: era proprio necessario che Onegin e Lenskij si sfidasse-ro a duello? E l’autore delle losfidasse-ro traversie, Puškin, non avrebbe potutoevitarediesporsiallapal-lottoladi D’Anthès? Interrogati-vi come questi rendono tangibi-le la natura dinamica, mutevo-le, storica di ciò che Jurij Lot-man ha chiamato «semiosfera»: un ambiente fatto di codici cul-turali di cui ci serviamo con la stessa naturalezza con cui par-liamo la lingua materna.

Pronto soccorso culturale

Poiché i testi artistici – poemi, romanzi, dipinti – sono sempre articolazioni e varianti di una forma di vita, chi ne trascuri la grammaticasivoterebbealsiste-matico fraintendimento di quei testi. La speranza e la successiva delusione di Kitty nel romanzo di Tolstoj, in apparenza così ov- vie,rivelanounamaggiorecom-plessità di motivi psicologici a chi abbia acquisito qualche fa-miliaritàcon la tramasemiotica di quel topos della cultura otto-centesca che è il ballo.

La ricerca filologica, avendo per oggetto e campo di battaglia la semiosfera in cui viviamo, è tutto tranne che un esercizio di erudizione. Somiglia piuttosto a una attività di pronto soccorso per limitare i danni delle tante Cernobyl’ culturali (l’immagine è di Lotman), che desertificano i nostri modi di pensare e di ama-re, di godere e di patire. Per Lot-man, fondatore della scuola se-miotica di Tartu negli anni ses-santa, la filologia non accondi-scende talvolta, e a denti stretti, a «divulgare» i suoi preziosi teso-ri, ma, avendo per unico tema lo spiritodeltempoeifilichelovin-colano a precedenti forme di vi-ta, è costitutivamente divulgati-va. Detto altrimenti, non può chesvolgereunlavorodichiarifi-cazione sistematica su quel che i viventi della nostra specie fanno ediconoecredono. Peresempio, sulsignificatodiunfintoneoche le dame del tempo andato si

ap-plicavano sul labbro.

Nulla di strano, dunque, nel fatto che tra il 1986 e il 1991 la televisione dell’Unione sovieti-ca abbia trasmesso cinque cicli di lezioni in cui Lotman espone con straordinaria semplicità al-cuni capisaldi delle sue ricerche pluridecennali: sono nate così leConversazioni sulla cultura russa, pubblicate in Russia nel

2005 e ora proposte da Bompia-ni nella traduzione di Valentina Parisi, a cura di Silvia Burini (pp. 437, e 20,00).

Già nella prima conversazio-ne aleggia la domanda che farà da leitmotiv dell’intero ciclo: di cosa parliamo quando parliamo di cultura?Le risposte mai univo-che a questo interrogativo di fondo puntano però, nel loro in-sieme, a riscattare il termine da indebite ipoteche psicologiche (che riducono la cultura a una faccenda personale), nonché dallasuaesclusivaidentificazio-ne con l’ambito artistico. Come per Wittgenstein è una pura e semplice superstizione l’idea che possa esistere un

«linguag-gio privato», così per Lotman non si dà una cultura che non siaradicatanellasferapubblica, neimodidicomportarsicolletti- vi,nelladimensionesovraperso-nale,(nullaè piùstorico, etessu-to da voci anonime, di una ap-passionata lettera d’amore).

Un fenomeno culturale, mai coincidendo per intero con l’opera di qualche genio artisti-co, fa la sua comparsa ovunque vi siano segni mediante i quali comprendersi o, al limite, fraintendersi. Gli innumerevo-li sistemi di segni che formano una cultura (dalla moda alle ce-rimonie religiose, dai rituali mondani al teatro) costituisco-no un mosaico variegato, i cui tasselli differiscono e convivo-no,anzi convivono proprio per-ché differiscono.

Come accade quando si stu-dia il funzionamento di una lin-gua,ancheunaspecificacultura – quella russa, nel nostro caso – puòessereesaminatainduemo- didiversi:ofotografandonelafi-sionomia in un singolo momen-to smomen-torico, o filmandone lo

svi-luppo e la metamorfosi nel cor-so del tempo. Analisi sincronica o diacronica, per tenersi al ger-go di Saussure.

Sono numerose le lezioni di Lotman che offrono un dagher-rotipo della cultura quotidiana negli anni Dieci e Venti dell’Ot-tocento, di essa isolando gli aspetti che consentono una comprensione perspicace dei grandi testi elaborati durante la cosiddetta «età dell’oro» delle lettere russe: l’universo femmi-nile, il ballo, il viaggio, la corri-spondenza epistolare, ma an-che gli usi e i costumi delle con-sorterie letterarie e il codice comportamentale cui si attene-vano i membri delle società se- grete(ifuturidecabristi).Impos- sibilevenireacapodeigrandiro-manzi del primo Ottocento – si pensiall’EvgenijOneginpuskinia-no o a Un eroe del pensiall’EvgenijOneginpuskinia-nostro tempo di Lermontov – senza conoscere le regole del duello russo, che a lo-ro volta diventano intellegibili soltanto alla luce dei due senti-menti basilari sui quali ruota l’intera cultura del periodo: la

vergogna e l’onore.

Il grande merito della scuola di Tartu, che pure aveva assimi-lato fino in fondo la lezione del formalismo russo, è quello di aver infranto il tabù formalista secondoilqualemaisarebbesta-tolegittimo varcare i confini del testo.Nel violarequestodivieto, Lotman e i suoi collaboratori hanno spalancato nuovi oriz-zonti, reintroducendo un riferi- mentoallamutevolerealtàstori-ca. Poiché il testo artistico è a sua volta un modello di realtà, esso contribuisce a spiegare quella vita quotidiana da cui, pertantiversi,èspiegato.Secon-do Lotman, si ha a che fare con un circolo virtuoso: la realtà è, in certa misura, figlia dei suoi fi-gli chiamati poemi e romanzi.

Opere sature di ricordi

Quanto al versante filmico o al-la prospettiva diacronica, a giu-dizio di Lotman, la cultura in- trattieneunrapportoprivilegia-to con la capacità di ricordare, presentandosi anzi – scrive Sil-viaBurininellasuaintroduzione – come «l’insieme dell’informa-zione non genetica, la memoria nonereditariadell’umanità».Iri-cordi collettivi, cioè pubblici, si depositano tanto nelle opere d’arte,quantoneimodidiagiree nei valori morali. Considerata dall’angolo visuale diacronico, l’«età dell’oro» del principio dell’Ottocento è il punto d’arri-vo di un processo cominciato un secolo prima a opera di Pietro il Grande,propulsorediunadrasti-ca modernizzazione del paese e fautore, suo malgrado, della per- vasivaeinestirpabileburocratiz-zazione dello Stato russo. Molte lezioni di Lotmani sono dunquecentratesulpeculiareil- luminismodell’aristocraziarus- sa–l’unicocetodiventatodavve-ro eusa–l’unicocetodiventatodavve-ropeo – nel periodo com-preso tra l’inizio del Settecento e il 1825, l’anno cruciale che, con la disfatta del movimento decabrista, sancisce il tramonto di un’intera epoca, aprendo la strada a una intelligencija ormai schiettamente borghese.

Dalla memoria all’etica

Le lezioni di Lotman sulla me-moria storica sono anche lezio-ni di etica. Accostarsi a una cul-tura lontana dalla nostra vuol dire metterein risaltoquella di-stanza nei confronti della pro-pria vita che caratterizza in ge-nerale l’Homo sapiens: quel di-stacco che permette di osserva-re se stessi come dall’esterno. Al calare del sipario sull’epoca sovietica, nel momento di mag-giore appannamento e disgre-gazione della semiosfera in cui siabitagiornodopo giorno, Lot- manhainsegnatoquestofonda-mentale, e salvifico, esercizio di straniamento.

11

GIOVANNI AGOSTI

Due anime inglesi,

David Lodge

e Julian Barnes

2

Memorie romane;

le nuove poesie

5

Il Colosseo, passato

ingombrante

per la politica di oggi

Greta Garbo e Fredric March sul set di «Anna Karenina», diretto da Clarence Brown nel 1935; sotto, una statua di Jurij Michajlovic Lotman

Il ballo, il duello, il viaggio, l’importanza di un finto neo:

dalle lezioni del grande semiologo, un dagherrotipo dell’età

dell’oro nella letteratura russa, stretta fra vergogna e onore

MARIA MANUELA LEONI

12

Ritratto privato

del giurista milanese

GUIDO ROSSI

PAPETTI, BORRELLI

Felici giustapposizioni

di poesia e prosa

in Guido Mazzoni

STEFANO COLANGELO

4

7

MAURIZIO GIUFRÈ

PECORA, PARIS

Inserto settimanale

de "il manifesto"

8 ottobre 2017

anno VII - N° 39

(2)

Geoff Dyer a disagio su una portaerei:

l’importanteè«nonabituarsi»

LODGE

di SIVIA ALBERTAZZI

L

a poetica di Geoff Dyer, eclettico scrit-tore inglese celebre per la riluttanza dei suoi lavori a lasciarsi incasellare in qualsi- vogliagenerelettera-rio, si potrebbe rias-sumere in una frase contenuta nella sua ultima opera, Sabbie

bianche: «Ciòche all’inizio èuna

cosa può diventare qualcos’al-tro senza cambiare niente». Ognuno dei lavori saggistici di Dyer parte proponendo un ar-gomento – una critica su D. H

Lawrence,unresocontodiviag-gi, uno studio fotografico – e, senza abbandonare l’assunto di base, strada facendo se ne scosta, si allarga a infinite di-gressioni, diventa altro – medi- tazioneidiosincraticasullepro-prie ubbie, narrativizzazione di scatti famosi, auto-fiction molto autoironica.

Così, anche quando affronta argomenti lontani dagli inte-ressi di chi legge, Dyer riesce a catturarne l’attenzione: l’im-portante è essere consapevoli che la «cosa» promessa dal tito-lo (e magari anche ribadita dal sottotitolo) diventerà altro nel

corso della lettura, senza che sia radicalmente cambiato nes-sun altro elemento: non l’argo-mentodi base, non lo stile della narrazione, né sia venuta me-no la qualità della scrittura.

Lo stesso accade per quanto riguardaUn’altra formidabi-

legiornatapermare(traduzio-ne di GiovannaGranato, Einau-di Stile Libero, pp. 214, e 18,00) che reca il sottotitolo Cronaca

da una portaerei, ed è il

resocon-to di due settimane trascorse dall’autore nel novembre 2011 abordodellaportaereiamerica-na USS George Bush. Primo di unaserie di soggiorni di

scritto-ri e fotoreporter in importanti istituzioni contemporanee, or-ganizzati dall’associazione Writers in Residence, il cui sco-po è sostenere la saggistica e il fotogiornalismo, il periodo tra-scorso da Dyer sul colosso della marina militare americana è il coronamento di un sogno in-fantile, passibile di trasformar-si, anche a causa della schizzi-nositàdell’autore,inunincubo lungo quindici giorni.

Da un lato, c’è il ricordo di un’infanzia del dopoguerra, spesa a costruire modellini Air-fix e imparare le caratteristi-che di tutti gli aerei da guerra americani; dall’altra, c’è quel-lo stesso bambino che, rag-giunta e superata la mezza età, scopre che realizzare il suo so-gno significa dover dividere una cabina con sconosciuti, mangiare cibo impossibile, ac-cettare che una serie di rigide

norme regolino la sua giorna-ta, dalla sveglia scandita all’al-toparlante dalla voce trionfali-sticadelcapitano (allecui paro-lefariferimento iltitolo delvo-lume) alla preghiera della se-ra,diffusa prima didare labuo-nanotte ai cinquemila indivi-dui di stanza nella portaerei.

Senza un bar dove passare i tempi morti, senza alcolici, troppo alto per non essere sem-pre a rischio di battere la testa nei suoi spostamenti e troppo vecchio rispetto all’età media, Dyer vive questo viaggio con la goffagginediunneofitaspaesa-to e, enfatizzando la propria in-congruità, e trasforma il reso- contosaggisticoinunacomme-dia il cui protagonista si trova coinvolto in una situazione a lui del tutto estranea che non riesce a gestire.

«L’essenza del mio carattere sta proprio nell’incapacità di

abituarmi alle cose», riflette quando l’alfiere Newell, sua scorta,glifaosservarechesiabi-tuerà al rimbombo notturno dei jet in decollo. «Appena sen-to che bisogna abituarsi a una certacosasochenonnesaròca- pace;inuncertosensomiimpe-gno a non abituarmici».

Come già in Sabbie bianche, lo schifiltoso Geoff, malgrado si autodefinisca «una striscia ma-laticciadivirilitàsenzaspallela cuiunicasalvezzaèquelladioc-cupare poco spazio», invade il primo piano inghiottendo lo scenario dell’enorme portae-rei. Le sue interviste ai membri dell’equipaggio sono capolavo-ri di humour involontacapolavo-rio; l’in-contro con la consulente per problemi di droga, per esem- pio,èimpagabile.Allesueinfor-mazioni sul «bong budellare», ovvero lo sballo procurato snif-fando escrementi, Dyer

repli-ca: «Chissà i postumi … Sono tante le droghe che ti fanno sentire di merda il giorno do-po». Ma non basta: giocando con l’espressionegergaleusata dalla donna per «sballare», ov-vero, «Git the high», ripetuta più e più volte, Dyer crea un im-maginario pezzo dance, «di-sponibile in vari remix, tutti culminanti a più riprese … crescendo verso l’ammonizio-ne tipo inno venato di gospel:

G…G…G…Git-the…Git-the… Git the high!».

Anchelefrasifatte,leespres-sioni colloquiali, per Dyer sono «cose» che diventano «altro» senza cambiare nulla. Basta ri-peterle fino a ridurle a vuoto suono; esagerarle, trasformar-le in ritornelli, esercizi di stitrasformar-le, invenzioni semantiche. Un mondo di persone che si espri-mono attraverso acronimi e tecnicismi è, ovviamente, una

palestra linguistica ecceziona-le. Così come il comandante della portaerei sollecita la cu-riosità della compagnia per-ché sappia «esattamente quale versione dell’eccellenza fosse stata realizzata e messa in atto in un particolare giorno», ripe-tendo ogni mattina la stessa idea con leggere varianti, così chi legge Dyer è ipnotizzato dalla sua bravura nel «permea-re di una sua specificità», fosse pur e grottesca o ironica, qual-siasi situazione.

E tuttavia, Un’altra

formidabi-le giornata per mare non è

sol- tantounanarrazioneumoristi-ca. L’intero volume, scritto po-co dopo la morte dei genitori, è percorso dall’idea dell’invec- chiamentoedellafine:nelcon-fronto con il personale della portaerei, molto giovane e molto religioso, l’ateo Dyer si trova a rimettere in

discussio-ne «la vita corsa da un costante sentore di morte». Non a caso, illibrosichiudesulsuo doman-darsi che cosa significhi prega-re. «La preghiera è un bisogno e un’abitudine che è sparita, si è atrofizzata», riflette, «a meno che non significhi qualcosa di molto semplice, come pensare alle persone, pensarle con af-fetto, desiderare il meglio per loro, sperare che non gli acca-da niente di brutto».

Tornato sulla terraferma, Geoff Dyer si sente soltanto «un espatriato scheletrico, l’avanzo di un romanzo che Graham Greene non aveva vo-luto scrivere» – un inglese per- dutoinunavisionewithmania-na dell’America. Non stupisce che nel 2014, pochi mesi pri-ma dell’uscita di Un’altra

formi-dabile giornata per mare, Dyer si

sia trasferito in California, do-ve tuttora risiede.

«UN’ALTRA FORMIDABILE GIORNATA PER MARE», DA STILE LIBERO

BARNES

di VIOLA PAPETTI

«E’

tempodichiu-sura nei giar-dini d’Occi-dente e d’ora in poi un arti-sta sarà giudicato solo per la ri-sonanza della sua solitudine o per la qualità della sua dispera-zione» – scriveva Cyril Connol-ly nell’ultimo numero di

Hori-zon del 1950. La generazione

precedente alla seconda guer-ra mondiale, i guer-raffinati cultori della bella scrittura, della rêve-rie, dell’io melanconico, mal si adattavaalnuovoclimadell’In-ghilterra laburista. I barbari eranoalleporteeirrompevano in gruppi, disordinati ma deci-si a dare battaglia contro la vec-chia élite di età e di censo. Look

back in anger, titolo del dramma

diungiovanesconosciutoJohn Osborne, che debuttò al Royal Court Theatre nel 1956, fu il primo squillo di tromba per i «giovani arrabbiati», nati pro-digiosamente, come i denti del drago, dalle riforme che il governo di Attlee aveva intro-dotto nel 1945: servizio sanita-rio nazionale, assegni familia-ri, istruzione superiore e uni-versitaria gratuita.

Arrabbiati senza classe

I giovani del proletariato e del-la piccodel-la media borghesia che riuscivano ad emergere nel complesso sistema educativo pubblico, divennero gli uomi-ni «nuovi», gli intellettuali e gli artisti che tanta parte ebbero nella creazione del decennio più inglese del secolo, gli anni sessanta della «swinging Lon-don». Imperversava una cultu-ragiovanile comune, permissi-va, progressista che scavalcava le tradizionali divisioni di clas-se. I poeti di New Lines (del 1956) eNewPoems(del1957)eranodo-centi nelle nuove università o bibliotecari.Manganellinepar-lò alla radio: «… questi poeti sanno scrivere, sanno maneg-giare versi e parole, hanno una certa eleganza dimessa e segre-ta, sono colmi di sincero pa-thos morale, usano metafore caute, talora allegorizzano. Questa maniera sommessa è capace di raggiungere risultati assai alti»: era il caso di Larkin, Hughes, Jennings. Ma le pole- micheeleaccusenonmancaro-no. Il nostro anglista più illu-stre, Mario Praz, nella sua

Sto-ria della letteratura inglese, sparò

a zero: «… una banda di arrab-biati, mancanti di ogni riguar-do,hadinuovo spalancatolefi- nestreehacominciatoafarpio-vere giù tutti i mobili di casa … Sono usciti dall’università co-me da un sogno e, lungi dall’as-similarsi o dal sentire ricono-scenza per la società che li ha così favoriti, son divenuti degli spostati».

I precoci romanzieri a volte esibivanounlinguaggiovoluta-mente demotico, irrispettoso, un atteggiamento implicita-mente aggressivo. Un caso esemplareè Colin Wilson, ope-raio autodidatta, giovane auto-rediun librodi

successoL’outsi-der; un altro caso interessante

è l’appena uscita autobiografia del suo coetaneo, David Lodge,

classe 1935,Un buon momen-to per nascere (traduzione di

Mary Gislon e Rosetta Palazzi Bompiani pp. 494, € 29,00).

Lodge è già conosciuto da noi soprattutto per il suo mali-zioso romanzo, Il professore va al

congresso, pubblicato nel 1990

da Bompiani come anche il re-sto della sua opera, tutta nel se-gno dello humour inglese della scuola di Jerome e Wodhouse, ma giocato a spese della nuova realtà sociale. La sua autobio-grafia non è divertente come ci si aspetterebbe, ma apre uno spiraglio sul misterioso codice che regola le differenze di

clas- seeleconseguentisceltepoliti-che, cancellate sulle carte ma vive nelle coscienze, inafferra-bili per i non inglesi ma sem-pre in vigore nei confronti di tutti coloro che calcano, anche se per poco, il suolo di questi isolani permalosi.

La famiglia di Lodge era po-vera, ma di aspirazioni borghe-si; lui, figlio unico, nel nuovo ordine scolastico avanza im- perterritoperisuoimeriti;fini-ta l’università torna all’univer-sità come docente nel diparti-mento di inglese, e vi resterà per tutta la vita. È parsimonio-

so,cattolico,casto,intimamen-te conservatore. L’osservanza del rituale cattolico nei paesi protestanti è un forte segno identitariochedàsicurezza,sti-le moraidentitariochedàsicurezza,sti-le, e una cerchia di ami-ci solidali: di questo il giovane Lodge è consapevole e se ne av-vale. Ci interessa poco quel che racconta di sé, ma molto la sua formazione intellettuale, i luo- ghidoveècresciuto:l’anticasa-la di lettura del British Mu-seum, il dipartimento di lette-ratura inglese di cui gli anglisti stranieri spesso non conosco-no la curiosa storia.

Vera materia romanzesca è il come e il quando i libri degli

scrittori inglesi diventarono materia di studio. Per secoli fu-rono ignorati anche dalle due grandi università, Oxford e Cambridge (Oxcam), e le loro opere lasciate alla lettura inge-nua di lettori e lettrici, alle bi-bliotechecircolanti,alleprime case editrici che inventarono romanzi in tre o sei volumi. Benché l’interesse fosse vivo, era considerata materia trop-po familiare, indegna di entra-re negli studi umanistici alla pariconletteraturagrecaelati- na.Solonel1917Cambridgeof-frì una laurea in letteratura

in-glese, iniziando con Chaucer e corsi specifici per teatro e criti-ca allo scopo di arricchire la pratica semplicistica della let-tura tradizionale. Lodge che si era iscritto all’UCL di Londra, «l’università dei miscredenti» come era soprannominata poi-ché accoglieva gli studenti non di fede anglicana ai quali era proibito l’accesso a Oxcam, si trovò ad affrontare anche la letteratura anglosassone, la paleografia, lo studio storico della scrittura, la bibliografia, lastampa e larilegatura. La let-teratura inglese moderna fu aggiunta più tardi su richiesta degli studenti. Gliesami erano difficili e male organizzati, ma li superò brillantemente. I suoi autori preferiti erano Newman, Graham Green, Joyce … e frequentava il teatro dei nuovi «arrabbiati».

Da studente a insegnante

Negli anni sessanta cominciò a scrivere romanzi che ottenne-ro un discreto successo. Più tar-di si convertì allo strutturali-smo, e sempre alla sua manie-ra cauta, cominciò a scrivere di teoria del romanzo. Insegnava nel dipartimento di inglese a Birmingham, quando irruppe-ro i Cultural Studies per inizia-tiva di Richard Hoggart e Stuart Hall, un energico contri-buto innovativo alla critica del testoche inItaliaconoscemmo per la mediazione di Fernando Ferraradell’UniversitàOrienta-le di Napoli. Il professor Lodge ne salutò con sollievo la fase di-scendente, e volò a Berkeley per uno scambio tra colleghi.

Il caso vuole che a scrivere una lunga recensione alla sua autobiografiasiastatounironi-co autobiografiasiastatounironi-collaboratore del Guardian (16 gennaio 2015), DJ Taylor, esperto di analisi culturale, cheelencaconevidentediverti-mento i tanti passi falsi dell’au-tore – da dimenticare ma non perdonare,e conclude:«Gli Uo-mini Nuovi, naturalmente, di-ventano uomini vecchi, e in quanto reportage dell’ultimo quartodelventesimosecoloin-glese, questa autobiografia è il paradiso di un sociologo».

di FRANCESCA BORRELLI

S

i direbbe che Julian Barnes abbia esordito al romanzo dando forma a giovani personaggi ricalcati sul- lesueambizioniesullapresaingi-ro di alcuni suoi snobismi franco- fili,perpoiindividuarenelledisfu-zioni matrimoniali il serbatorio ideale della sua verve e l’habitat naturalediquegliscambidi opinioniebat-tibecchiche hannoreso i suoidialoghitra i più sofisticati della narrativa inglese. Nel primoromanzo, Metroland, avevamessoin scena due ragazzi, Christopher e Toni, che si divertivano a cogliere i segni della stupi-dità nelle espressioni dei comuni avvento-ri di una esposizione artistica, mentre fa-cendo sfoggio di sopraccigli alzati interro- gavanoillorofuturo,immaginandosidica-sa nella letteratura francese e nell’arte, che un destino inequivocabile faceva coin-cidere con le loro stesse esistenze.

Ma già dal secondo libro,Prima di me,

un romanzo dell’82 ora ben tradotto per laprima volta da Daniela Fargione (Einau-di, (pp. 193, e 18.50), Barnes scelse di ad-dentrarsi tra le quinte domestiche: l’inci-pit coglie Graham Hendrick agli sgoccioli del suo matrimonio con Barbara, dalla quale ha avuto una figlia preadolescente e, negli ultimi anni, ripetute manifesta-zioni di cattivo umore, quanto basta a cre-are di lì a breve il terreno ideale per l’ini-zio della relal’ini-zione con una giovane attri-cetta di B-movies, presentataglidal comu-ne amico Jack Lupton. Costui è di quelli che usano accogliere le persone in casa conunapaccasulsedere esclamando«vec-chia baldracca, vieni dentro», mentre aprelaportadalla qualeè presumibilmen-te appena uscita la moglie dell’amico, che viene a implorare consiglio e sostegno per i propri guai matrimoniali.

Un giorno, al cinema

Accade più volte che Graham si rivolga al presunto amico Jack per confidargli le proprie ambasce, sebbene per la verità il suo secondo matrimonio abbia tutte le carte in regola per funzionare, e Ann sia una compagna amorevole, tollerante e in grado di gratificare, con partecipata sod-disfazione,i desideri sessualidel suo ama-to mariama-to. Ma un giorno Barbara, la prima moglie, inventando un pretesto che si ri-velerà infondato, intima a Graham di por-tare la loro figlia a vedere un film, nelle cui sequenze di minor peso si vedrà com-parireAnn nel ruolo di una donna volgare e di disinvolti costumi, con il risultato di guadagnare alla ragazzina la convinzione che il padre se ne sia andato con «una sgualdrina»,e di attivare in luiuna gelosia retroattiva per quel che la sua attuale mo-glie ha fatto sulla scena, o prima e dopo le riprese con quegli attori di terza catego-ria che l’hanno accompagnata nelle sue fallimentari performances recitative.

Tutto il romanzo, impeccabile quanto a

scrittura e costruzione sebbene avviato verso un finale repentino e non molto co-erente con il carattere del personaggio chelo agisce, èben lontanodal raggiunge-re sia l’ironia sia l’effervescenza linguisti-ca, sia la fulmineità dei dialoghi che ren-deranno inconfondibile la voce di Bar-nes, sempre empaticamente sintonizza-ta con i turbamenti psichici dei suoi gio-vani protagonisti. E anche quella capaci-tà di avvitare più volte la trama fino a far-le sprigionare sorprese insospettabili, co-me accade soprattutto in uno dei suoi mi-gliori romanzi, Il senso della fine, qui non trova energia sufficiente, e l’epilogo del-la vicenda non sembrerebbe promettere all’autore quella carriera brillante che ne avrebbe fatto, invece, uno tra i migliori

della sua generazione.

Un embrione di relazione triangolare viene abbozzata qui, per la prima volta da Barnes, che dopo avere ripetutamente in-dirizzato il suo protagonista al cinema per vedere tutti i film nei quali la sua attuale moglie ha recitato, onde congetturare sul-le avventure collaterali da sul-lei consumate con i diversi attori che l’hanno affiancata, lo spedisce dall’amico Jack, confidente dei due coniugi l’uno all’insaputa dell’altro; finchénon si scoprirà che per quanto poco passionale e per nulla esclusiva, la storica relazione di Ann con Jack non è mai finita. Ungiorno,nelcorsodiunafestaorganiz- zataproprioperdistendereeravvivarel’at-mosferadeidueconiugi,ilpoveroGraham vede all’opera le mani sgraziate

dell’ami-co sulla di lui moglie. Invece di guardarsi alle spalle e interrogarsi sugli uomini che hanno avuto a che fare con Ann, «prima che lei mi incontrasse», come suona il tito-lo originale, meglio avrebbe fatto Graham a guardare al presente, e all’amico con il quale si ostina a confidarsi.

L’epilogo tragico non riscatta, anzi ag-grava, la banalità della trama, ma questa nonè che una tappa iniziale della dedizio-ne di Julian Bardedizio-nes ai triangoli amorosi, quella dedizione che troverà in

Parliamo-ne, e nella ripresa dei suoi personaggi in Amore. Dieci anni dopo, il vertice della

gra-zia e dell’ironia dell’autore, uniti all’idea di presentare i personaggi uno alla volta, nell’atto di contendersi la scena per offri-re al lettooffri-re il loro punto di vista su quan-to sta accadendo.

Uno studio per triangoli futuri

All’epoca incui uscìParliamone, era il1991, i destini dei tre personaggi messi in scena da Barnes – il brillante e verboso Oliver, il suo timido amico Stuart e la restauratrice Gillian –avevano cosìappassionato i lettori datradursiinuna inondazionediletterein-terrogative all’autore, che dieci anni dopo siconvinseariprenderequeipersonaggiea ribaltarne il destino. Allora, appropriando-sidiuna fraselettainunlibro,Gillian aveva dichiarato: «…ogni relazione contiene al propriointernoifantasmioleombreditut- tociòchenonèstata.Tuttelealternativeab-bandonate, le scelte dimenticate, le vite che avresti potuto avere e che non hai avu-to». Proprio questo è infatti il terreno eletti-vo delle speculazioni romanzesche di Bar-nes, alternate alle considerazioni derivate dalla sua vocazione letteraria, che trovaro-nonelPappagallodiFlaubert,del1986,illoro momentopiùsofisticatoeforse anchelalo-ro singolarità più marcata.

Come accade a quasi tutti gli scrittori, anche di prima grandezza, la carriera di Barnes è passata per tappe qualitativa-mente assai distanti tra loro, ma tutte sor-rette da una scrittura senza ombra di ca-dute, e da un tallonamento dei personag-gi insistentemente convincente, se non sempre seduttivo.Va dunque letto come uno «studio» su situazioni più tardi ripre-se e meglio sviluppate questo ripre-secondo ro-manzo, Prima di me, dedicato ai paradossi dellagelosia, che si esercita su improbabi-li fatti del passato trascurando il presen-te, finché l’evidenza – anch’essa male in-tepretata – non trasforma il tranquillo e forse un po’ noioso Graham Hendrick in un uomo d’azione, proprio quando me-glio sarebbe stato per tutti che fermasse la sua mente e la sua mano.

Parsimonioso, cattolico, casto,

intimamente conservatore, David Lodge

individua nell’anno in cui venne al mondo,

il 1935, «Un buon momento per nascere»:

la sua autobiografia, da Bompiani

Ilprofessoresièfattovecchioeparladisé

Farsadellagelosia

conepilogotragico

scrittori

inglesi

Sposato con una ex attrice di B-movie,

il protagonista del secondo romanzo

di Julian Barnes, «Prima di me»,

è specializzato in sospetti infondati:

tradotto ora per la prima volta da Einaudi

Martin Parr,

«Clare College May Ball», Cambridge 2005

l’Inghilterra

degli arrabbiati

Anthony Caro, «Orangerie», 1969

(3)

Geoff Dyer a disagio su una portaerei:

l’importanteè«nonabituarsi»

LODGE

di SIVIA ALBERTAZZI

L

a poetica di Geoff Dyer, eclettico scrit-tore inglese celebre per la riluttanza dei suoi lavori a lasciarsi incasellare in qualsi- vogliagenerelettera-rio, si potrebbe rias-sumere in una frase contenuta nella sua ultima opera, Sabbie

bianche: «Ciòche all’inizio èuna

cosa può diventare qualcos’al-tro senza cambiare niente». Ognuno dei lavori saggistici di Dyer parte proponendo un ar-gomento – una critica su D. H

Lawrence,unresocontodiviag-gi, uno studio fotografico – e, senza abbandonare l’assunto di base, strada facendo se ne scosta, si allarga a infinite di-gressioni, diventa altro – medi- tazioneidiosincraticasullepro-prie ubbie, narrativizzazione di scatti famosi, auto-fiction molto autoironica.

Così, anche quando affronta argomenti lontani dagli inte-ressi di chi legge, Dyer riesce a catturarne l’attenzione: l’im-portante è essere consapevoli che la «cosa» promessa dal tito-lo (e magari anche ribadita dal sottotitolo) diventerà altro nel

corso della lettura, senza che sia radicalmente cambiato nes-sun altro elemento: non l’argo-mentodi base, non lo stile della narrazione, né sia venuta me-no la qualità della scrittura.

Lo stesso accade per quanto riguardaUn’altra formidabi-

legiornatapermare(traduzio-ne di GiovannaGranato, Einau-di Stile Libero, pp. 214, e 18,00) che reca il sottotitolo Cronaca

da una portaerei, ed è il

resocon-to di due settimane trascorse dall’autore nel novembre 2011 abordodellaportaereiamerica-na USS George Bush. Primo di unaserie di soggiorni di

scritto-ri e fotoreporter in importanti istituzioni contemporanee, or-ganizzati dall’associazione Writers in Residence, il cui sco-po è sostenere la saggistica e il fotogiornalismo, il periodo tra-scorso da Dyer sul colosso della marina militare americana è il coronamento di un sogno in-fantile, passibile di trasformar-si, anche a causa della schizzi-nositàdell’autore,inunincubo lungo quindici giorni.

Da un lato, c’è il ricordo di un’infanzia del dopoguerra, spesa a costruire modellini Air-fix e imparare le caratteristi-che di tutti gli aerei da guerra americani; dall’altra, c’è quel-lo stesso bambino che, rag-giunta e superata la mezza età, scopre che realizzare il suo so-gno significa dover dividere una cabina con sconosciuti, mangiare cibo impossibile, ac-cettare che una serie di rigide

norme regolino la sua giorna-ta, dalla sveglia scandita all’al-toparlante dalla voce trionfali-sticadelcapitano (allecui paro-lefariferimento iltitolo delvo-lume) alla preghiera della se-ra,diffusa prima didare labuo-nanotte ai cinquemila indivi-dui di stanza nella portaerei.

Senza un bar dove passare i tempi morti, senza alcolici, troppo alto per non essere sem-pre a rischio di battere la testa nei suoi spostamenti e troppo vecchio rispetto all’età media, Dyer vive questo viaggio con la goffagginediunneofitaspaesa-to e, enfatizzando la propria in-congruità, e trasforma il reso- contosaggisticoinunacomme-dia il cui protagonista si trova coinvolto in una situazione a lui del tutto estranea che non riesce a gestire.

«L’essenza del mio carattere sta proprio nell’incapacità di

abituarmi alle cose», riflette quando l’alfiere Newell, sua scorta,glifaosservarechesiabi-tuerà al rimbombo notturno dei jet in decollo. «Appena sen-to che bisogna abituarsi a una certacosasochenonnesaròca- pace;inuncertosensomiimpe-gno a non abituarmici».

Come già in Sabbie bianche, lo schifiltoso Geoff, malgrado si autodefinisca «una striscia ma-laticciadivirilitàsenzaspallela cuiunicasalvezzaèquelladioc-cupare poco spazio», invade il primo piano inghiottendo lo scenario dell’enorme portae-rei. Le sue interviste ai membri dell’equipaggio sono capolavo-ri di humour involontacapolavo-rio; l’in-contro con la consulente per problemi di droga, per esem- pio,èimpagabile.Allesueinfor-mazioni sul «bong budellare», ovvero lo sballo procurato snif-fando escrementi, Dyer

repli-ca: «Chissà i postumi … Sono tante le droghe che ti fanno sentire di merda il giorno do-po». Ma non basta: giocando con l’espressionegergaleusata dalla donna per «sballare», ov-vero, «Git the high», ripetuta più e più volte, Dyer crea un im-maginario pezzo dance, «di-sponibile in vari remix, tutti culminanti a più riprese … crescendo verso l’ammonizio-ne tipo inno venato di gospel:

G…G…G…Git-the…Git-the… Git the high!».

Anchelefrasifatte,leespres-sioni colloquiali, per Dyer sono «cose» che diventano «altro» senza cambiare nulla. Basta ri-peterle fino a ridurle a vuoto suono; esagerarle, trasformar-le in ritornelli, esercizi di stitrasformar-le, invenzioni semantiche. Un mondo di persone che si espri-mono attraverso acronimi e tecnicismi è, ovviamente, una

palestra linguistica ecceziona-le. Così come il comandante della portaerei sollecita la cu-riosità della compagnia per-ché sappia «esattamente quale versione dell’eccellenza fosse stata realizzata e messa in atto in un particolare giorno», ripe-tendo ogni mattina la stessa idea con leggere varianti, così chi legge Dyer è ipnotizzato dalla sua bravura nel «permea-re di una sua specificità», fosse pur e grottesca o ironica, qual-siasi situazione.

E tuttavia, Un’altra

formidabi-le giornata per mare non è

sol- tantounanarrazioneumoristi-ca. L’intero volume, scritto po-co dopo la morte dei genitori, è percorso dall’idea dell’invec- chiamentoedellafine:nelcon-fronto con il personale della portaerei, molto giovane e molto religioso, l’ateo Dyer si trova a rimettere in

discussio-ne «la vita corsa da un costante sentore di morte». Non a caso, illibrosichiudesulsuo doman-darsi che cosa significhi prega-re. «La preghiera è un bisogno e un’abitudine che è sparita, si è atrofizzata», riflette, «a meno che non significhi qualcosa di molto semplice, come pensare alle persone, pensarle con af-fetto, desiderare il meglio per loro, sperare che non gli acca-da niente di brutto».

Tornato sulla terraferma, Geoff Dyer si sente soltanto «un espatriato scheletrico, l’avanzo di un romanzo che Graham Greene non aveva vo-luto scrivere» – un inglese per- dutoinunavisionewithmania-na dell’America. Non stupisce che nel 2014, pochi mesi pri-ma dell’uscita di Un’altra

formi-dabile giornata per mare, Dyer si

sia trasferito in California, do-ve tuttora risiede.

«UN’ALTRA FORMIDABILE GIORNATA PER MARE», DA STILE LIBERO

BARNES

di VIOLA PAPETTI

«E’

tempodichiu-sura nei giar-dini d’Occi-dente e d’ora in poi un arti-sta sarà giudicato solo per la ri-sonanza della sua solitudine o per la qualità della sua dispera-zione» – scriveva Cyril Connol-ly nell’ultimo numero di

Hori-zon del 1950. La generazione

precedente alla seconda guer-ra mondiale, i guer-raffinati cultori della bella scrittura, della rêve-rie, dell’io melanconico, mal si adattavaalnuovoclimadell’In-ghilterra laburista. I barbari eranoalleporteeirrompevano in gruppi, disordinati ma deci-si a dare battaglia contro la vec-chia élite di età e di censo. Look

back in anger, titolo del dramma

diungiovanesconosciutoJohn Osborne, che debuttò al Royal Court Theatre nel 1956, fu il primo squillo di tromba per i «giovani arrabbiati», nati pro-digiosamente, come i denti del drago, dalle riforme che il governo di Attlee aveva intro-dotto nel 1945: servizio sanita-rio nazionale, assegni familia-ri, istruzione superiore e uni-versitaria gratuita.

Arrabbiati senza classe

I giovani del proletariato e del-la piccodel-la media borghesia che riuscivano ad emergere nel complesso sistema educativo pubblico, divennero gli uomi-ni «nuovi», gli intellettuali e gli artisti che tanta parte ebbero nella creazione del decennio più inglese del secolo, gli anni sessanta della «swinging Lon-don». Imperversava una cultu-ragiovanile comune, permissi-va, progressista che scavalcava le tradizionali divisioni di clas-se. I poeti di New Lines (del 1956) eNewPoems(del1957)eranodo-centi nelle nuove università o bibliotecari.Manganellinepar-lò alla radio: «… questi poeti sanno scrivere, sanno maneg-giare versi e parole, hanno una certa eleganza dimessa e segre-ta, sono colmi di sincero pa-thos morale, usano metafore caute, talora allegorizzano. Questa maniera sommessa è capace di raggiungere risultati assai alti»: era il caso di Larkin, Hughes, Jennings. Ma le pole- micheeleaccusenonmancaro-no. Il nostro anglista più illu-stre, Mario Praz, nella sua

Sto-ria della letteratura inglese, sparò

a zero: «… una banda di arrab-biati, mancanti di ogni riguar-do,hadinuovo spalancatolefi- nestreehacominciatoafarpio-vere giù tutti i mobili di casa … Sono usciti dall’università co-me da un sogno e, lungi dall’as-similarsi o dal sentire ricono-scenza per la società che li ha così favoriti, son divenuti degli spostati».

I precoci romanzieri a volte esibivanounlinguaggiovoluta-mente demotico, irrispettoso, un atteggiamento implicita-mente aggressivo. Un caso esemplareè Colin Wilson, ope-raio autodidatta, giovane auto-rediun librodi

successoL’outsi-der; un altro caso interessante

è l’appena uscita autobiografia del suo coetaneo, David Lodge,

classe 1935,Un buon momen-to per nascere (traduzione di

Mary Gislon e Rosetta Palazzi Bompiani pp. 494, € 29,00).

Lodge è già conosciuto da noi soprattutto per il suo mali-zioso romanzo, Il professore va al

congresso, pubblicato nel 1990

da Bompiani come anche il re-sto della sua opera, tutta nel se-gno dello humour inglese della scuola di Jerome e Wodhouse, ma giocato a spese della nuova realtà sociale. La sua autobio-grafia non è divertente come ci si aspetterebbe, ma apre uno spiraglio sul misterioso codice che regola le differenze di

clas- seeleconseguentisceltepoliti-che, cancellate sulle carte ma vive nelle coscienze, inafferra-bili per i non inglesi ma sem-pre in vigore nei confronti di tutti coloro che calcano, anche se per poco, il suolo di questi isolani permalosi.

La famiglia di Lodge era po-vera, ma di aspirazioni borghe-si; lui, figlio unico, nel nuovo ordine scolastico avanza im- perterritoperisuoimeriti;fini-ta l’università torna all’univer-sità come docente nel diparti-mento di inglese, e vi resterà per tutta la vita. È parsimonio-

so,cattolico,casto,intimamen-te conservatore. L’osservanza del rituale cattolico nei paesi protestanti è un forte segno identitariochedàsicurezza,sti-le moraidentitariochedàsicurezza,sti-le, e una cerchia di ami-ci solidali: di questo il giovane Lodge è consapevole e se ne av-vale. Ci interessa poco quel che racconta di sé, ma molto la sua formazione intellettuale, i luo- ghidoveècresciuto:l’anticasa-la di lettura del British Mu-seum, il dipartimento di lette-ratura inglese di cui gli anglisti stranieri spesso non conosco-no la curiosa storia.

Vera materia romanzesca è il come e il quando i libri degli

scrittori inglesi diventarono materia di studio. Per secoli fu-rono ignorati anche dalle due grandi università, Oxford e Cambridge (Oxcam), e le loro opere lasciate alla lettura inge-nua di lettori e lettrici, alle bi-bliotechecircolanti,alleprime case editrici che inventarono romanzi in tre o sei volumi. Benché l’interesse fosse vivo, era considerata materia trop-po familiare, indegna di entra-re negli studi umanistici alla pariconletteraturagrecaelati- na.Solonel1917Cambridgeof-frì una laurea in letteratura

in-glese, iniziando con Chaucer e corsi specifici per teatro e criti-ca allo scopo di arricchire la pratica semplicistica della let-tura tradizionale. Lodge che si era iscritto all’UCL di Londra, «l’università dei miscredenti» come era soprannominata poi-ché accoglieva gli studenti non di fede anglicana ai quali era proibito l’accesso a Oxcam, si trovò ad affrontare anche la letteratura anglosassone, la paleografia, lo studio storico della scrittura, la bibliografia, lastampa e larilegatura. La let-teratura inglese moderna fu aggiunta più tardi su richiesta degli studenti. Gliesami erano difficili e male organizzati, ma li superò brillantemente. I suoi autori preferiti erano Newman, Graham Green, Joyce … e frequentava il teatro dei nuovi «arrabbiati».

Da studente a insegnante

Negli anni sessanta cominciò a scrivere romanzi che ottenne-ro un discreto successo. Più tar-di si convertì allo strutturali-smo, e sempre alla sua manie-ra cauta, cominciò a scrivere di teoria del romanzo. Insegnava nel dipartimento di inglese a Birmingham, quando irruppe-ro i Cultural Studies per inizia-tiva di Richard Hoggart e Stuart Hall, un energico contri-buto innovativo alla critica del testoche inItaliaconoscemmo per la mediazione di Fernando Ferraradell’UniversitàOrienta-le di Napoli. Il professor Lodge ne salutò con sollievo la fase di-scendente, e volò a Berkeley per uno scambio tra colleghi.

Il caso vuole che a scrivere una lunga recensione alla sua autobiografiasiastatounironi-co autobiografiasiastatounironi-collaboratore del Guardian (16 gennaio 2015), DJ Taylor, esperto di analisi culturale, cheelencaconevidentediverti-mento i tanti passi falsi dell’au-tore – da dimenticare ma non perdonare,e conclude:«Gli Uo-mini Nuovi, naturalmente, di-ventano uomini vecchi, e in quanto reportage dell’ultimo quartodelventesimosecoloin-glese, questa autobiografia è il paradiso di un sociologo».

di FRANCESCA BORRELLI

S

i direbbe che Julian Barnes abbia esordito al romanzo dando forma a giovani personaggi ricalcati sul- lesueambizioniesullapresaingi-ro di alcuni suoi snobismi franco- fili,perpoiindividuarenelledisfu-zioni matrimoniali il serbatorio ideale della sua verve e l’habitat naturalediquegliscambidi opinioniebat-tibecchiche hannoreso i suoidialoghitra i più sofisticati della narrativa inglese. Nel primoromanzo, Metroland, avevamessoin scena due ragazzi, Christopher e Toni, che si divertivano a cogliere i segni della stupi-dità nelle espressioni dei comuni avvento-ri di una esposizione artistica, mentre fa-cendo sfoggio di sopraccigli alzati interro- gavanoillorofuturo,immaginandosidica-sa nella letteratura francese e nell’arte, che un destino inequivocabile faceva coin-cidere con le loro stesse esistenze.

Ma già dal secondo libro,Prima di me,

un romanzo dell’82 ora ben tradotto per laprima volta da Daniela Fargione (Einau-di, (pp. 193, e 18.50), Barnes scelse di ad-dentrarsi tra le quinte domestiche: l’inci-pit coglie Graham Hendrick agli sgoccioli del suo matrimonio con Barbara, dalla quale ha avuto una figlia preadolescente e, negli ultimi anni, ripetute manifesta-zioni di cattivo umore, quanto basta a cre-are di lì a breve il terreno ideale per l’ini-zio della relal’ini-zione con una giovane attri-cetta di B-movies, presentataglidal comu-ne amico Jack Lupton. Costui è di quelli che usano accogliere le persone in casa conunapaccasulsedere esclamando«vec-chia baldracca, vieni dentro», mentre aprelaportadalla qualeè presumibilmen-te appena uscita la moglie dell’amico, che viene a implorare consiglio e sostegno per i propri guai matrimoniali.

Un giorno, al cinema

Accade più volte che Graham si rivolga al presunto amico Jack per confidargli le proprie ambasce, sebbene per la verità il suo secondo matrimonio abbia tutte le carte in regola per funzionare, e Ann sia una compagna amorevole, tollerante e in grado di gratificare, con partecipata sod-disfazione,i desideri sessualidel suo ama-to mariama-to. Ma un giorno Barbara, la prima moglie, inventando un pretesto che si ri-velerà infondato, intima a Graham di por-tare la loro figlia a vedere un film, nelle cui sequenze di minor peso si vedrà com-parireAnn nel ruolo di una donna volgare e di disinvolti costumi, con il risultato di guadagnare alla ragazzina la convinzione che il padre se ne sia andato con «una sgualdrina»,e di attivare in luiuna gelosia retroattiva per quel che la sua attuale mo-glie ha fatto sulla scena, o prima e dopo le riprese con quegli attori di terza catego-ria che l’hanno accompagnata nelle sue fallimentari performances recitative.

Tutto il romanzo, impeccabile quanto a

scrittura e costruzione sebbene avviato verso un finale repentino e non molto co-erente con il carattere del personaggio chelo agisce, èben lontanodal raggiunge-re sia l’ironia sia l’effervescenza linguisti-ca, sia la fulmineità dei dialoghi che ren-deranno inconfondibile la voce di Bar-nes, sempre empaticamente sintonizza-ta con i turbamenti psichici dei suoi gio-vani protagonisti. E anche quella capaci-tà di avvitare più volte la trama fino a far-le sprigionare sorprese insospettabili, co-me accade soprattutto in uno dei suoi mi-gliori romanzi, Il senso della fine, qui non trova energia sufficiente, e l’epilogo del-la vicenda non sembrerebbe promettere all’autore quella carriera brillante che ne avrebbe fatto, invece, uno tra i migliori

della sua generazione.

Un embrione di relazione triangolare viene abbozzata qui, per la prima volta da Barnes, che dopo avere ripetutamente in-dirizzato il suo protagonista al cinema per vedere tutti i film nei quali la sua attuale moglie ha recitato, onde congetturare sul-le avventure collaterali da sul-lei consumate con i diversi attori che l’hanno affiancata, lo spedisce dall’amico Jack, confidente dei due coniugi l’uno all’insaputa dell’altro; finchénon si scoprirà che per quanto poco passionale e per nulla esclusiva, la storica relazione di Ann con Jack non è mai finita. Ungiorno,nelcorsodiunafestaorganiz- zataproprioperdistendereeravvivarel’at-mosferadeidueconiugi,ilpoveroGraham vede all’opera le mani sgraziate

dell’ami-co sulla di lui moglie. Invece di guardarsi alle spalle e interrogarsi sugli uomini che hanno avuto a che fare con Ann, «prima che lei mi incontrasse», come suona il tito-lo originale, meglio avrebbe fatto Graham a guardare al presente, e all’amico con il quale si ostina a confidarsi.

L’epilogo tragico non riscatta, anzi ag-grava, la banalità della trama, ma questa nonè che una tappa iniziale della dedizio-ne di Julian Bardedizio-nes ai triangoli amorosi, quella dedizione che troverà in

Parliamo-ne, e nella ripresa dei suoi personaggi in Amore. Dieci anni dopo, il vertice della

gra-zia e dell’ironia dell’autore, uniti all’idea di presentare i personaggi uno alla volta, nell’atto di contendersi la scena per offri-re al lettooffri-re il loro punto di vista su quan-to sta accadendo.

Uno studio per triangoli futuri

All’epoca incui uscìParliamone, era il1991, i destini dei tre personaggi messi in scena da Barnes – il brillante e verboso Oliver, il suo timido amico Stuart e la restauratrice Gillian –avevano cosìappassionato i lettori datradursiinuna inondazionediletterein-terrogative all’autore, che dieci anni dopo siconvinseariprenderequeipersonaggiea ribaltarne il destino. Allora, appropriando-sidiuna fraselettainunlibro,Gillian aveva dichiarato: «…ogni relazione contiene al propriointernoifantasmioleombreditut- tociòchenonèstata.Tuttelealternativeab-bandonate, le scelte dimenticate, le vite che avresti potuto avere e che non hai avu-to». Proprio questo è infatti il terreno eletti-vo delle speculazioni romanzesche di Bar-nes, alternate alle considerazioni derivate dalla sua vocazione letteraria, che trovaro-nonelPappagallodiFlaubert,del1986,illoro momentopiùsofisticatoeforse anchelalo-ro singolarità più marcata.

Come accade a quasi tutti gli scrittori, anche di prima grandezza, la carriera di Barnes è passata per tappe qualitativa-mente assai distanti tra loro, ma tutte sor-rette da una scrittura senza ombra di ca-dute, e da un tallonamento dei personag-gi insistentemente convincente, se non sempre seduttivo.Va dunque letto come uno «studio» su situazioni più tardi ripre-se e meglio sviluppate questo ripre-secondo ro-manzo, Prima di me, dedicato ai paradossi dellagelosia, che si esercita su improbabi-li fatti del passato trascurando il presen-te, finché l’evidenza – anch’essa male in-tepretata – non trasforma il tranquillo e forse un po’ noioso Graham Hendrick in un uomo d’azione, proprio quando me-glio sarebbe stato per tutti che fermasse la sua mente e la sua mano.

Parsimonioso, cattolico, casto,

intimamente conservatore, David Lodge

individua nell’anno in cui venne al mondo,

il 1935, «Un buon momento per nascere»:

la sua autobiografia, da Bompiani

Ilprofessoresièfattovecchioeparladisé

Farsadellagelosia

conepilogotragico

scrittori

inglesi

Sposato con una ex attrice di B-movie,

il protagonista del secondo romanzo

di Julian Barnes, «Prima di me»,

è specializzato in sospetti infondati:

tradotto ora per la prima volta da Einaudi

Martin Parr,

«Clare College May Ball», Cambridge 2005

l’Inghilterra

degli arrabbiati

Anthony Caro, «Orangerie», 1969

(4)

Lecosechearrivano,

senzaprotezioni

di ENZO DI MAURO

C

onIl mattino di domani (Elliot,

pp. 142, e 16,50) Renzo Paris fissa un’ulteriore tappa del suo ormai lungo viaggio in versi – un viaggio o, se si preferisce, un cammino che prese avvio nel 1980 con

Al-bumdifamiglia(visiraccoglievanoi

testi di circa un ventennio) per poi proseguire, nel 2013, con Il fumo bianco. Ef-fettivamente si tratta, come sceglie di defi-nirlo l’autore medesimo, di un vero e pro- priocanzonierelacuicompattezzadirespi-ro, oggi meglio di ieri, possiamo misurare con una certa dose di sicurezza, laddove i fili tematici, le figure, le situazioni, il pae- saggio,ivaloritimbricitornano,siinseguo-no, si precisasaggio,ivaloritimbricitornano,siinseguo-no, si fanno persistenti al pari di un assillo. Il tempo trascorre e si consu-ma, le care presenze diventano in molti ca- sidoloroseassenze;pure,l’impulsoe,sipo-trebbeaddiritturadire, lacoazioneallagio-ventù e alla vitalità restano intatte, così co-me gli affetti, i legami, i debiti e le fedeltà non arretrano di un passo, non declinano mai. Paris (e qui si intende l’opera, dalla po-esia ai romanzi e alla memorialistica) è in-scindibile dalla sua comunità e dai compa- gnidistradadellagenerazionecuiappartie-ne. Anzi ne è il cantore, il testimone e, non- dimeno,laminavagante,lascheggiaimpa- zienteeimpazzita.Fedeleappuntoe,quan-do il caso lo consente o lo impone, zienteeimpazzita.Fedeleappuntoe,quan-dolente fedifrago e impunito, ferito ragazzaccio.

Qui,findaltitolo,nonsiconcepisceaffat- toun’ideaprecariadisperanza.Cos’èalfon-do il mattino di toun’ideaprecariadisperanza.Cos’èalfon-domani? Quale significato esprimesenonquellodiunavolontàirridu-cibiledifuturo–ediunfuturoil cuidestino si mostra inseparabile dalla poesia e dallo stuporedi unascoperta (di unamore passa-to o tutpassa-tora vivo o possibile, del riaffiorare di un ricordo) che si rinnova come se ogni giorno fosse il primo e non certo l’ultimo.

QuellodiParisèun«iosenzaetà»,unio«pie-no di desideri e senza desiderio», un «io in fiamme» pronto «a dragare le sterminate eternità». C’è, in questo nuovo libro suddi-viso in quattro sezioni e ognuna delle quali intitolataaunastagione dell’anno,unacal-ma antica, un risolvere in dell’anno,unacal-maniera epicu-rea le tensioni e i desideri e i lutti: «I miei amicipoeti sono in gran parte defunti, // mi godo quest’arietta primaverile / ricordan-do la loro poesia ironica, civile». Oppure, in altre terzine: «Cara vita, che ho respirato / appena, sappi che ti ho molto amato, rac-colto // dentro una stanza con un libro in mano / e il gatto sul mio collo acciambella-to». Gli amici, allora, e poi gli animali (ne «Il merlo equilibrista», come in altre poesie, appareAmeliaRosselli,mapoi,ancora,Va-lentino Zeichen e Dario Bellezza), le belle passanti, le vie e le piazze di Roma (San Lo-renzo, il quartiere Esquilino…), gli ogget-ti, i colori del giorno, l’infanzia in Abruzzo («Il corpo», ad esempio, o «Primo maggio») e poi il nuovo, tumultuoso presente, con i migranti(«sonogliunici//apisciaresuimu-ri come i ragazzi di una volta», versi che sa-rebbero piaciuti a Pasolini, tra l’altro evo-cato in un verso di «Coste» con «che madri avete avuto»; così come, in «Pasquetta», gli operai di Sandro Penna lasciano il posto al proletariato di oggi: «Ma le bambine mu-sulmane, /non son

forse belle?». Ma,altempostes-so, non si riesce a immaginarequesta poesia come non consustanziale alla luce di Roma o co-me non filtrata at-traverso di essa. Sic-come tuttavia lo spazio stringe, e da-to che Paris è anche unvalente

francesi-sta, sarà assai utile citare un meraviglioso e celebre passo della Prigioniera. Scrive Proust:«Quandoabbiamosuperatounacer-ta età, l’anima del ragazzino che siamo sProust:«Quandoabbiamosuperatounacer-ta- sta-ti e l’anima dei morsta-ti da cui veniamo ven-gono a gettarci a manciate le loro ricchez-ze e le loro sventure, chiedendo di coope-rare ai nuovi sentimenti che proviamo e neiquali,cancellando laloroantica imma-gine,torniamoa fonderliin unanuovacre-azione. Da un certo momento in poi dob-biamoaccoglieretutti inostriparentigiun-ti da così lontano e radunainostriparentigiun-tisi intorno a noi». È questo medesimo movimento che ha accompagnato e sostenuto Renzo Paris nel comporre Il mattino di domani.

di STEFANO COLANGELO

D

a un lato le parole che sono capaci di tracciare un significato, una traiettoria di segnali; dall’altro quelle che invadono e ammorbi- discono,finoasoffocarlo,ilrespi-ro della realtà: «Le padiscono,finoasoffocarlo,ilrespi-role / come segni e come feltri». Così appaio-no, scrutate, esposte, pesate, le parole di Essere con gli altri, una poesia del se-condo, bellissimo libro di versi di Guido Mazzoni,La pura superficie, appena

pub-blicato da Donzelli (pp. 80, e 13,00), sei anni dopo il primo, I mondi.

DueepigrafitrattedaidiaridiKafka,apro-no questa raccolta: la seconda suona così, «da tutte le cose mi separa uno spazio cavo che non mi affretto a delimitare». E subito, il librosiriempiedisegnichiari,radentiespie-tati; ma appare, al tempo stesso, come un percorso felicemente ibrido, una composi-zione di ritmature differenti: verso, prosa, trasfusione di altri versi.

Passeggeri dell’esistenza

Più indizi portano poi a leggerlo come un vi-vo registratore di scosse, dalle quali io, tu, lei, noi, come personaggi e come lettori, sia- mochiamatiognivoltaariaverci,ariprende-re coscienza. Ci siamo dentro, come peripe- ziedipronomi,dipersonefungibili,diosser-vatori e di vittime: passeggeri là dove ci con-duce e ci fa sostare l’esistenza, persi in tutti quegli eventi che pure guardiamo, ammini-striamo, addomestichiamo e dissipiamo, con le dita che scivolano sugli schermi. Que-gli eventi che finiscono per diventare vitti-me anch’essi, per scivolare via dalla vitti- memo-ria, persi in una superficie che non ha appi-gli né spazi cavi.

Per quanto si espone, e per quanto rima-ne al tempo stesso coraggiosamente lucido,

La pura superficie prende in sé i caratteri del

libro che vede l’orizzonte del proprio

tem-po:prima di tutto nel suo nonpermettere al-le paroal-le di gonfiarsi, o di fabbricare dall’esperienza castelli di retorica. Qui, ognuno vive in un’equivalenza decisiva tra l’esposto e l’intimo; ognuno è destinato a perdersi, mentre prova a chiudere la cernie-ra della sua «vita impropria», come scrive Mazzoni: «cose casuali», «pezzi d’infanzia», tentativi di appartenere a ciò che si è. Ed è da qui, forse, che Mazzoni opera la sua grande ricucitura,l’ascoltodiunavoce,cheètraica-ratteri più notevoli dell’ibridità del libro. La voce è quella di Stevens, Wallace Stevens, che diventatitolo e pernodi tuttelesezioni della

Purasuperficie.Mazzonilotraduce,èvero,ma

lotrasfonde,anche;sembralavorarnelama-teria con le mani. Riallaccia i contatti tra i te-sti di The Rock e di Opus posthumous, li richia-ma a funzioni. Pure, mere, plain: tutti aggetti-vi stevensiani che definiscono gli oggetti, le superfici, le cose. Ognuno sconfina nell’al-tro, con il suo carico di segni e di fratture.

«La grande sorgente della poesia non è al-tra poesia ma la prosa: la realtà. Tuttavia ci

vuole un poeta per percepire la poesia nella realtà». Così aveva scritto Stevens, e forse per questa ragione Mazzoni sceglie ora di ri-portarlo qui, come una stazione-radio lonta-na, come una rete di coordinate per ridise- gnareitracciati.ComeFortinifacevaconBre-cht, come Zanzotto con Hölderlin.

Così, quell’aggettivo del titolo, pura, con-serva in sé tutto il carico di significato che il vocabolario di Stevens le ha lasciato. Una qualità che non tende a nulla, è solo lì dove vuoleesistere, anchenel momento incui sta irrimediabilmente scivolando via. Pura, me-ra, piana superficie. Torna alla mente, ma è solo un attimo, il Sereni del Diario d’Algeria: lesuecittàvisteappenadalletradottenottur-ne,unnome,unlampo.Qui invece,perMaz-zoni, è il paesaggio umano a incarnare una sorta di resistenza della visione: una sorta di condannanonamorire,maarestare–nonsi sa come, né perché – vivi.

Solo un esempio, scorrendo rapidamente traitesti.Nellaquartasezione,Cinquecerchie: le persone che significano moltissimo,

quel-le che lo fanno solo per un certo tempo, quelle che servono, quelle che passano e scompaiono,quellechesiformano solonel-la mente. Poi, nelsolonel-la quinta sezione, Quattro

superfici:l’essereesposti,lapercezione,illin-guaggio, l’immagine interna degli altri. So-noleduepoesie nellequalisidisegnaunim-pressionante pentagramma ammutolito, scavato da pochi, precisissimi segni. Forse in questo pentagramma sussiste il piano di percezione di tutto il libro: le poesie, le pro-se, gli inserti da Stevens. L’insieme delle sue superfici di lavoro. E qui, in un grande equilibrio generale, sta anche la ragione della prima epigrafe kafkiana, un appunto del 2 agosto 1914, che recita: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia / Nel pome-riggio scuola di nuoto».

Eccoli, tutti in un istante, i piani di realtà coniqualil’ioentrainlotta.Pervasivitàdella violenza, nudità della materia verbale, as-senza di relazione tra i livelli. Così, ad esem-pio,Uscire,primapoesiadellaprimasezione: «da qualche anno le cose mi vengono addos- sosenzaprotezioni./Insognovedodentirot-ti, punti di sutura, / topi tagliati in due, tra l’orecchioe lamascella,che discutonofra lo-ro. / Spesso, quando parlate, io non vi ascol- to,/miinteressanodipiùlepausetraleparo- le,/cileggoundisagiocheoltrepassalapsico-logia,qualcosa di primario».Così tornafuori – se non è solo una impressione, una empa- tiaimpropria–uninsertogenerazionale,fat-to di personaggi che sono testimoni, vittime e campi di forza. Una «mamma come tante», che spinge avanti il passeggino nell’attrito della ghiaia del parco, mentre la vita le è an-data via; una generale «precarietà entrata nellamente»,neisognidiricerca;unquaran-tennechetornadisfattoinmetropolitanada unariunionedilavoro,disancoratoereplica-to nelle facce dei suoi compagni di viaggio; un altro che si affanna verso un fazzoletto di carta, al termine di un video barely legal. Gen-tepresa inmezzo, rinchiusanellacolonia di-gitale, anestetizzata, aneddotizzata; con i volti nascosti dietro le bottiglie dismesse, in unacupa,oscenariunionetravecchicompa-gni di scuola.

Gli «eventi illeggibili»

Infine, è la prosa (la realtà, nel senso di Ste-vens) a sviluppare con grande efficacia i pia-ni kafkiapia-ni evocati nelle due epigrafi. Dop-piogenerediprosa,comepare,distinguibile per spazio, tempo e funzione. Da un lato le trascrizioni di sogni (quasi rincorsi, registra-ti a malapena, come nella segretezza di un nastro), e i loro segni sull’angoscia del risve-glio. D’altro canto, le dense prese dirette de-glieventidel2001(l’11settembre,neiDestini

generali, e le cariche di Genova, in una

conci-tazione che ricorda i cortei di Cesarano, di Fortini, di Raboni; gli anni della presa di pa-rola, gli anni lasciati andare dall’odierno, compassato schifo). Lì è iniziata la storia che non è iniziata mai: quelli di Genova «prove-ranno odio, per qualche settimana si senti-ranno parte di un movimento immenso, un mese dopo si dissolveranno, dieci anni dopo saranno soli e incomprensibili». Saranno, cioè,le«purevittime»,gli«eventiilleggibili», diventati ora spazi cavi di angoscia che nes-suna parola potrà permettersi di riempire, invadere, ammorbidire.

di TOMMASO MOZZATI

E

lio Pecora è un intel- lettualeeunoscritto-re prolifico: poeta pervocazionedaipri-mi documenti degli annisettanta;roman-ziere anti-naturali-sta,affezionatoad at-mosfere stilizzate, all’indagine di sottili intermittenze del cuo-re attraverso un’esperienza che fa da ponte fra le revisioni dei Fratelli d’Italia arbasiniani e ilnuovointimismocaroagliOt- tanta;padredicopioniperiltea- troediprogrammiperlatelevi-sione con impegno analogo a quellodialtrisuoicontempora-nei. Commentatore attento, ha offerto la penna al servizio di «cronache di lettura», affidate alla stampa o apparse in raccol-ta, le più recenti delle quali – per sua stessa ammissione – giacciono in «cassetti» stipati di carte; una risposta al «rumore in cui si affonda» in un mondo segnatopiuttosto dallafrattura colpassato chedallacontinuità con ciò che si è visto e vissuto.

Di fronte alla sua produzio-ne di oltre un quarantennio, è allora significativo cheper l’au-tore si possa parlare di un gene-roso momento editoriale. Non solo si susseguono i titoli attua-li, ormai stabilita la fortuna di riuscite come la biografia di Sandro Penna (1984): tornano anchedisponibili le prove della sua giovane maturità fra cui l’esordio, La chiave di vetro (’70).

In un simile frangente, man-ca ancora all’appello il secondo romanzo(oterzo,sesipensaan-che a I triambuli, concluso nel

bel mezzo dei Settanta ma pub-blicato con gran ritardo), e cioè

Estate (1981) circolante in rare

vendite online, un Carrà pieno di sole grigio in copertina; ed è unpeccato,perchénelmosaico affollatodiunaRomacrepusco-lare, nell’indugio sulla città «inabitabile», sulle fughe im-possibili verso la campagna,c’è l’affrescodiun’epoca,laCapita-ledopo il ’75 el’assassinio diPa-solini con quanto esso compor-tò per il milieu letterario e per la comunità, più segreta ma non meno in fermento, della scena omosessuale. È un resoconto in presa diretta quello impigliato nelle pagine di Pecora; e si trat-ta ovviamente di una narrazio-ne «a chiave» assonante con gli esperimenti che Dario Bellezza andava componendo sul mede-simo universo culturale, ad esempio in Turbamento del 1984. Sentenzia uno dei perso-naggi: «Potevo raccontare solo quelchesapevo,chem’eracapi-tato. Il pettegolezzo giova alla conoscenza»; e attorno a un ininterrottocicaleccioè costru-ita la scrittura, la conversazio-ne come ritmo, unità di durata, prossimità e condanna.

Tanto più appare del resto opportuna una riproposta del romanzo di fronte all’odierno catalogo di Pecora, in particola-re al puzzle di memorie compo-sto per Neri Pozza,Il libro de-

gliamici(titolocherimandaal-le cortesie mondane di una cor-dialità salottiera, sul generedel QuestionariodiProust)(«Biblio-teca», pp. 144, e 15,00). Si tratta di un volume di materiali editi e inediti, in cui profili d’amici (laMorante,laRosselli,Penna o

la De Giorgi) si accompagnano a fotografie di convegni o even-ti, sequenze di illuminazioni brevi, in cui le rimembranze non effimere, cesellate piutto-sto nella pratica coltivata del rammemorare, si coagulano in istantanee a colori, che – giu-stapposte – illuminano un inte-ro ambiente, popolato di sodali fra familiarità e consuetudine. Unoper tutti, ilsouvenir diFabio Mauri: «Lo incontro spesso nel-la Roma delle mostre d’arte: ne sono lampanti la docilità e la grazia».

La comunione fra le due ope-re, Estate e il Libro, non risiede d’altronde esclusivamente nel fattochel’ultimo offrespesso il codice comprovato per decifra-rele presenzedell’altro roman-zo. È semmai in profondità che esse dialogano proficuamente, lavorando all’unisono sul tema del tempo, della sua persisten-za. Lo denuncia lo scrittore, nel ricordo affettuoso di Juan Ro-dolfo Wilcock: «Di quella gior-nata ho scritto più di trent’anni fa nel mio romanzo Estate. Ri-scrivo sul filo della memoria». La città del Libro degli amici, la sua popolazione si ricompone dunque oggi, da una distanza calcolabile in giorni e mesi; e con la stessa precisione quella mappadiunmomentodatodel-la cultura italiana si struttura, quasi perfezionata dal correre deglianni.LaRomadellanostal-gia non è per forza più vera, di quella rumorosa e gremita di untempo: maè decantata, sele-zionata, divenendo quasi em- blema–popolatodiaraldichefi-gure – dell’opera erosiva, del dolce lavorio della vita.

Istantaneeromane

MAZZONI

PECORA E PARIS

Alessandra Spranzi, «Nello stesso preciso

momento», 2012

Gli amici (Zeichen,

Bellezza), gli animali,

le passanti, l’Abruzzo

dell’infanzia, le piazze

e strade della Capitale

«IL MATTINO DI DOMANI», ELLIOT

dagli anni ’70

a oggi

Elio Pecora ha montato «Il libro degli amici»

per Neri Pozza: profili e materiali sul filo

della memoria, da Fabio Mauri alla Morante

Un io in fiamme

inseparabile dalla luce

di Roma e dai compagni

dell’intera vita:

Renzo Paris, i nuovi versi

poesia

italiana

Un percorso felicemente ibrido, fatto di poesie, prose, trasfusioni

di altri versi traslati da Wallace Stevens, evocato sulla pagina

come una stazione-radio lontana: «La pura superficie», da Donzelli

Fabio Mauri, Luna, 1968, foto di Ugo Mulas

Riferimenti

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