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Mizuko kuyō, o il transito della presenza

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Mizuko kuyō, o il transito della presenza

Nicola Martellozzo

Mizuko kuyō, or the transit of the presence

Abstract

Since the 80s, the Mizuko kuyō has become one of the most widespread rituals in Japan. Performed by women who, after abortion, seek to relate their-self with the vengeful spirit of the fetus, this ritual is a very recent phenomenon, nevertheless historically rooted and integrated into Japanese Buddhism. The concept of presence, developed by Ernesto de Martino, and the paradigm of embodiment allow us to reflect on Mizuko kuyō as a critical moment for motherhood and the cultural construction of the person. The first part of the article describes an overview of Japanese ritual, highlighting the relations between biopolitics and gender dynamics, along with the principal historical and religious coordinates of the Japanese society. The second part analyzes the structural and transformative link between abortion, embodied suffering, and the ritual, in which the presence of Mizuko is re-oriented. The marginal and violent presence of the fetus is addressed to a physical and symbolic simulacrum, where the mother can find a new place to rebuild the relation previously destroyed by the abortion.

Keywords: Mizuko kuyō, abortion, crisis of presence, embodied suffering, gender agency

1. Introduzione

Nascita e morte, nella loro drammaticità, sono da sempre eventi particolarmente investiti dalla creatività culturale. Lungi dall’avere una definizione univoca, o perfino dei limiti condivisi, l’inizio e la fine della vita si presentano come campi dell’esistenza instabili, imprevedibili, scandalosi1; proprio questo giustifica lo sforzo

degli uomini che nei secoli hanno provato a controllarli, orientarli, significarli in

forme di senso meno destabilizzanti. Negli anni ‘50-60 l’antropologo Ernesto de

Martino ha indagato a fondo questi momenti, che insieme alla malattia ha definito come momenti di crisi della presenza2. Avvenimenti che rompono la quotidianità,

infrangendone ogni senso e lasciando l’uomo pericolosamente in balia della Storia, privo di strumenti culturali.

In quegli stessi anni, in Giappone si assiste all’espansione di una pratica inedita, in cui alcune donne si recavano presso santuari buddhisti per officiare dei riti in memoria del proprio figlio abortito; rituale necessario anche per far cessare la persecuzione dello “spirito” del feto, rancoroso verso la madre e i familiari che gli hanno negato la nascita. Il mizuko kuyō si attesta come una performance pubblica fortemente subordinata alle dinamiche di genere e ai meccanismi bio-politici del

1 Kaufman & Morgan 2005. 2 De Martino 1975.

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Giappone, ma anche come un momento critico e riflessivo verso un evento che congiunge nascita e morte.

Questo fenomeno rituale non è una pratica solamente buddhista. Con “kuyō” s’intende ogni tipo di offerta in memoria di qualcuno o qualcosa. “Mizuko” significa invece “bambino d’acqua”, riferendosi alla forma spirituale – ma forse sarebbe meglio dire “sottile” – che assumono i feti dei bambini morti da neonati o abortiti. Il rituale contemporaneo, pienamente integrato nel buddhismo, è costituito da preghiere (eseguite dai sacerdoti) e offerte di vario genere (fatte dalla madre) per il mizuko vagabondo, onde evitare che si accanisca contro la sua famiglia.

Considerando lo spazio a disposizione e l’assenza di una vera e propria ricerca di campo, all’approccio narrativo basato su interviste e biografie è stata preferita una prospettiva storico-teorica. L’ampio accesso a fonti audiovisive, testimonianze e articoli è stato favorito dalla simbiosi tra istituzioni religiose e spazio virtuale, come le decine di siti web in cui i templi offrono agli utenti le proprie pratiche rituali3.

Fondamentale è stato il lavoro di Marianna Zanetta4, il più recente e aggiornato

contributo sul mizuko kuyō nel contesto culturale giapponese. Nella prima parte dell’articolo sono fornite alcune coordinate storiche indispensabili per contestualizzare questa pratica religiosa. Per marcare le nuove sensibilità e concezioni sull’aborto, è stato inserito un breve excursus sulle pratiche contraccettive nell’epoca Tokugawa (1603-1868) e Meiji (1868-1912). Tale riferimento tornerà utile passando alle relazioni tra mizuko kuyō e buddhismo. La seconda parte si concentra su una prospettiva più “interna”. La pratica rituale è posta in maniera dialettica alla pratica medica dell’aborto, evidenziando gli attori in gioco e soprattutto lo spazio di articolazione che si apre tra i due momenti. È proprio qui, in questa fase liminale e di transizione, che la nozione demartiniana di crisi della presenza può trovare corpo: proprio laddove il corpo (del feto) viene a mancare, ma ne permane la traccia.

2. L’eredità culturale di spiriti senza storia

Quando si parla di aborto o infanticidio c’è spesso la tendenza a riconoscervi una pratica d’emergenza, legata a stupri, guerre e carestie, cioè quando esiste una giustificazione morale “sufficiente”. Invece sono moltissime le circostanze storiche e culturali in cui l’aborto non è una misura disperata, bensì una pratica consapevole e finalizzata. Il Giappone è uno di questi casi. Aborto e infanticidio rientrano nelle strategie per il controllo demografico fin dall’era Tokugawa come pratiche popolari diffuse5. In quell’epoca, lo status ontologico del neonato era piuttosto ambiguo, al

punto che fino ai sette anni si riteneva «appartenesse ai kami», cioè al mondo degli

3 Yamada & Shupe 2013. 4 Zanetta 2018.

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spiriti e delle divinità. L’aborto poteva perciò venire concepito come un «ritorno (ai

kami)»6, di cui si occupavano delle figure esperte prevalentemente femminili. Quelle

stesse donne assistevano la madre durante la gravidanza, una delle caratteristiche che rendeva la maternità un momento fortemente sociale7.

La preservazione delle linee di sangue (nelle classi aristocratiche) o dello standard di vita (nelle classi popolari) sono motivi che hanno giustificato a lungo l’aborto fino all’era Meiji. La riflessione culturale non si è per questo arrestata, e nel corso del tempo sono cambiate sia la concezione del feto, sia il suo immaginario post-mortem, se così si può dire. Prima di proseguire è imprescindibile considerare la nozione di “persona”, sostanzialmente diversa rispetto a quella occidentale. In Giappone la nascita biologica non implica automaticamente la piena appartenenza all’umanità, bensì una tappa di un processo continuo che comincia prima del concepimento e prosegue dopo la morte. LaFleur lo definisce una “densificazione” progressiva8, in cui l’esperienza e gli eventi danno consistenza alla persona. In altre

parole, l’uomo è concepito come un’entità storicamente disomogenea, che solo un processo culturale continuo può rendere “concreto” al punto giusto. Non si tratta di una visione unicamente giapponese, anzi: sono molti i contesti culturali in cui il feto ha una connotazione ambigua e dove esiste una processualità sociale del “diventare persona”9. Cina e Taiwan sono sicuramente due macro-contesti che condividono

parzialmente l’idea di densificazione del feto. Dopo la morte, al contrario, la persona diventa sempre più “rarefatta”. Le sue relazioni sociali scompaiono, il suo corpo si disgrega, i suoi ricordi pian piano svaniscono fino a entrare nella schiera degli antenati.

Questa condizione evanescente e collettiva ha il suo corrispettivo speculare nei feti. I mizuko, bambini d’acqua, sono esseri fluidi ed evanescenti; durante il periodo Tokugawa li si immaginava come una schiera anonima10, ma già nell’era

Meiji e agli inizi dell’era Shōwa (1926-1989) lo sfondo cambia. I feti sono immersi in una condizione esistenziale di solitudine e tristezza, da cui non possono uscire se non rinascendo. Come vedremo, il buddhismo intercetterà proprio questo immaginario, proponendo una figura di guida e salvazione. Nel frattempo, gli eventi storici portano nuovamente il mizuko a cambiare condizione, questa volta più inquietante e pericolosa.

Nel secondo dopoguerra il Giappone si ricostituì come un nuovo stato, e la politica demografica fu uno dei campi dove la cesura fu più forte. Durante il primo ventennio dell’era Shōwa, la retorica della famiglia come valore fondate della patria si accompagnò al paternalismo dello Stato, nella figura dell’Imperatore. Una

6 Harrison 1999, p. 779. 7 Hardacre 2006. 8 LaFleur 1992, p. 33. 9 James 2000. 10 Rufino 2010, p. 57.

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crescente militarizzazione caratterizzò l’etnocentrismo nipponico, manifestatosi durante la Seconda guerra mondiale come vero e proprio «furore antropo-poietico»11.

Come in Italia e Germania, la maternità fu idealizzata, proposta e imposta come valore fondante della donna. Il controllo statale della riproduzione fu solo uno dei meccanismi bio-politici attraverso cui il genere venne naturalizzato, in un’ottica di espansione territoriale e razziale. L’aborto fu di conseguenza vietato per legge, e perseguito penalmente come un crimine verso lo Stato e l’Imperatore.

Tutto questo cambiò radicalmente dopo la guerra. Il bilancio demografico presentava una popolazione stremata dall’espansione coloniale e dalle perdite militari e civili. Subentrò allora una nuova strategia: la preservazione dell’etnia. L’Eugenetics

Protection Law del 1948 segue questa logica, permettendo alle donne di abortire in

caso di gravi malattie genetiche o malformazioni del feto, e successivamente qualora la gravidanza minacciasse fisicamente o economicamente la madre12. In realtà, anche

questo servizio sanitario continuava a reiterare la naturalizzazione della maternità, facendo dell’aborto una questione prettamente femminile. Questo non significa che l’aborto fosse una pratica riservata alle donne, come accadeva in passato13, ma che

esisteva (ed esiste) una precisa concezione culturale della femminilità che viene reificata nel corpo delle donne attraverso certe pratiche terapeutiche. Le dinamiche di genere in Giappone sono a questo punto delle coordinate fondamentali, tanto che una studiosa come Helen Hardacre ne fa la chiave interpretativa per il mizuko kuyō14.

Prima di parlarne, occorre dire che nella società giapponese le posizioni sull’aborto sono tutt’altro che concordi15. In particolare, tra gli anni ‘60 e ‘70 sono

nati una serie di movimenti religiosi che, ovviamente, propongono una visione ben precisa della società e dei suoi mali. La lotta contro l’aborto è al centro dell’organizzazione Shiunsō16. Nonostante raggiunga il successo negli anni ‘60, la sua

origine è degli anni ‘30, e il suo programma sociale risente molto di quelle influenze. Il suo fondatore, Hashimoto Tetsuma, ha una parte importante nelle origini del

mizuko kuyō nella ricostruzione proposta da Elizabeth Harrison. Infatti, nel 1971

Hashimoto apre lo Shiunzan Jizōji, uno dei più grandi templi non-buddhisti dedicato al rito dei mizuko.

La connessione tra mizuko e aborto non è immediata, bensì il frutto di un lungo processo che ha coinvolto ospedali, templi buddhisti, testate giornalistiche e il carisma di Hashimoto. Nel 1967 il giornale Shūkan Sankei pubblica un articolo su una compagnia di smaltimento dei rifiuti sanitari, legata al reparto di ostetricia di un ospedale di Tokyo. La materia organica del feto era incenerita insieme con altro

11 Remotti 2013. 12 Burch 1955. 13 Hardacre 2006. 14 Hardacre 1997.

15 Wilson 2009; Green 1999; LaFleur 1990. 16 Kisala 2006.

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materiale inorganico, ma alcuni lavoratori cominciano a chiedere ai sacerdoti buddhisti di seppellire le ceneri nel terreno sacro del tempio. La stampa nazionale da risonanza alla notizia, con una lunga serie di articoli su giornali e riviste, specie quelle femminili. Non solo: i reportage cominciano a occuparsi di pratiche ed esperienze d’aborto, dando un’ampia eco ai toni più compassionevoli e toccanti17. Se

agli inizi i termini utilizzati per riferirsi ai resti organici sono vari e generici, come “feto”, “bambino”, “buddha”, nel tempo s’impose la definizione di mizuko. L’azione sociale di Hashimoto e la grande risonanza mediatica fecero si che dal 1975 il termine diventasse di uso comune per riferirsi nello specifico ai feti abortiti.

Siamo nel pieno di quello che LaFleur definisce, sulla scorta di Lévi-Strauss, un bricolage morale18, che utilizza gli eterogenei strumenti della tradizione per

produrre un risultato inedito. Qui possiamo solo limitarci a indicare l’intenso fenomeno creativo che ha avuto come esito il mizuko kuyō. Ancora negli anni ‘70, l’idea di mizuko era vicina alla fisicità del feto, e i servizi rituali proposti si occupavano della manipolazione e del trattamento funerario del corpo. È solo negli anni ‘80 che il concetto di mizuko comincia a declinarsi nel senso contemporaneo, come un’entità sottile ed evanescente, inquietante e vendicativa. Le dinamiche di genere, insieme a quelle economiche, spostano di nuovo la sensibilità dell’arena pubblica. Giornali e riviste non sono più interessate all’atto pietoso del seppellimento, alla gestione della corporeità del feto, bensì alla condizione post-aborto della donna.

Le storie sono diverse, ma condividono numerosi elementi in comune. L’aborto è vissuto come un «male necessario», un atto giustificato dalle circostanze ma moralmente riprovevole19. Le donne, uniche protagoniste dello spazio narrativo,

provano un misto di sensazioni spiacevoli: dispiacere, ansia, depressione, colpa, bad

feelings20. Le organizzazioni come Shiunsō condannano l’aborto come una corruzione

dei costumi, un sintomo malato della modernità21. In questa visione, l’emancipazione

femminile (in particolare il lavoro) è incompatibile con la paideia materna; i figli, abbandonati a se stessi, diventano criminali. Simmetricamente anche i bambini mai nati, i mizuko, cominciano ad assumere dei tratti negativi, sempre in virtù di questa maternità mutilata.

Le narrazioni assumono le tinte fosche della paura, un campo semantico dove troviamo termini come urami (rimorso), sawari (vendetta), osore (paura) e soprattutto

tatari, per indicare l’attaccamento rancoroso del feto22. Le donne diventano a loro

volta vittime come contro-reazione dell’aborto, ma coinvolgendo tutta una serie di attori che finora erano rimasti in ombra. Primo fra tutti il compagno maschile, che

17 Harrison 1998. 18 LaFleur 1992, p. 12.

19 Green, 1999; Csordas 1996, p. 237. 20 Brooks 1981, p. 133.

21 Komatsu 2003, p. 260.

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Harrison (1999: 793) indica come il grande assente in tutto questo fenomeno. Malattie, litigi, incidenti e tradimenti diventano segni dell’azione vendicativa sui due coniugi, estendendosi spesso a parenti e amici.

Il mizuko kuyō ha ormai tutti i caratteri del fenomeno contemporaneo, presentandosi come un rituale religioso per placare il feto e rispondere alle sensazioni spiacevoli della donna. È un vero e proprio servizio - non importa se offerto da buddhisti o organizzazioni apposite - e come tale è inserito in un’ottica di mercato.

Brochure, pacchetti omaggio, statuine in plastica, sono solo alcuni degli elementi

commerciali di questa pratica. Hardacre è probabilmente la più critica nei confronti di questi tratti economici, che per lei e Rosaria Rufino23 sono uno sfruttamento indotto

del trauma dell’aborto, lungo dinamiche di genere oppressive che reiterano costantemente il dolore e il senso di colpa.

Non si può negare che gli aspetti commerciali siano ormai imprescindibili. Curiosamente, il dibattito contemporaneo sull’aborto si è spostato dalla questione morale in sé per concentrarsi sulla moralità del rituale, sugli introiti dei templi, ecc.24.

Tuttavia, Harrison ci mette in guardia da una visione troppo subordinata della donna, che al contrario in questa pratica riesce a trovare spazio per sé e la sua agentività. Come vedremo più avanti, la forte personalizzazione del mizuko kuyō lascia dei margini entro cui controllare e orientare la propria esperienza, che può essere letta come un rituale per ri-produrre la propria maternità25. In quest’ottica l’aborto non

rompe del tutto il legame con il feto, ma ne mantiene intatto un canale, per quanto problematico e pericoloso. Il mizuko kuyō diventa una pratica per avvicinare il feto in maniera controllata, instaurando un nuovo rapporto materno. Il trauma è superato o alleggerito per mezzo di una relazione sostitutiva che vale come pratica di cura (healing practice).

Prima di passare alla parte centrale, qualche parola sul buddhismo va spesa. La sua introduzione ha colmato, secondo Fosco Maraini26, una lacuna fondamentale

in Giappone: l’inquietudine verso la morte. In ogni caso, è indubbio che i rituali funebri sono una specialità del clero buddhista; il caso del senzo kuyō, rito memoriale per gli antenati, ne è un esempio.

La devozione popolare ha trovato nel buddhismo giapponese una figura di riferimento: Jizō. Specie dall’epoca Meiji, questo bodhisattva si trova ad avere la funzione di psicopompo e guardiano dei bambini morti. I bodhisattva sono figure mitiche del buddhismo caratterizzate dalla compassione e dalla pietà verso il mondo. Hanno scelto di non entrare nel nirvāṇa per aiutare tutti gli uomini a liberarsi dalla sofferenza della rinascita. Spesso hanno funzioni soteriologiche, e sono al centro di culti devozionali di gruppi sociali specifici. La trasformazione del canone statuario di

23 Rufino 2010, p. 63; Hardacre 1997. 24 Wilson 2009; Green 1999.

25 Picone 1998, pp. 48-50; Harrison 1996; 1998 26 Maraini 1966, p. 620.

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Jizō è sintomatica di come pian piano la funzione di protettore dei feti diventi predominante, fino alle forme commercializzate odierne. Rufino27 e Dykstra28

ricostruiscono le varie tappe di questo percorso. Durante l’epoca Heian (794-1185) il bodhisattva era raffigurato come un sacerdote con un bastone e un gioiello in mano. Fin dall’epoca Tokugawa, le madri affidavano a Jizō la sorte dei mizuko, perché li proteggesse. La sua connessione con i giovani e i bambini lo rende un guardiano, un protettore di coloro che sono morti prima di ascoltare la dottrina buddhista. Successivamente, l’epoca Meiji porta alla sua fusione con il kami delle strade e dei crocicchi, Dōsojin. Le sue caratteristiche di divinità della fortuna e della fertilità sono assorbite da Jizō, che adesso viene simbolicamente qualificato come psicopompo. Le raffigurazioni statuarie, sorte lungo i sentieri o agli incroci, sono indice di come inizialmente questa sintesi rafforzi le capacità del bodhisattva di guidare e sorvegliare i feti, lenendo la solitudine della loro condizione.

Le cose cambiano nel periodo militare, quando gli aspetti della fertilità diventano strumentali alla condanna dell’aborto. Jizō diventa il protettore della maternità e dei bambini in attesa di nascere29, indice di un discorso religioso che

condanna l’aborto. La statuaria odierna mostra un nuovo cambiamento: il bodhisattva ha il volto di un bambino. Il salvatore e il salvato si sono identificati, il protettore buddhista ricopre simbolicamente e visivamente il feto30. La schiera dei mizuko esce

in questo modo dall’anonimato, assumendo un’identità riconoscibile che permette di superare l’evanescenza dei feti, relazionandosi tramite preghiere e rituali buddhisti. Di fatto, Jizō è un’interfaccia che permette il rito di memoria31, un operatore

simbolico necessario alla rete di relazioni del mizuko kuyō.

3. Plasmare il disordine

Definito - seppur a grandi linee - il quadro d’insieme, affronteremo ora il mizuko kuyō con un focus più interno. Il carattere liminale del rito è forse il tratto più evidente. Il saggio di Hertz sulla rappresentazione collettiva della morte fornisce delle coordinate indispensabili per il nostro argomento32. Hertz sottolinea in particolare come la morte

del corpo fisico non si traduca automaticamente nella scomparsa della persona33. Una

parte sottile, spirito o fantasma, permane nel piano dei viventi, visitandoli e a volte tormentandoli. Occorrono precise pratiche rituali per garantire il suo passaggio

27 Rufino 2010, pp. 59-63. 28 Dykstra 1978, pp. 180-86. 29 Rufino 2010, p. 59. 30 LaFleur 1992, p. 6.

31 Per un esempio di preghiera rituale: Smith 2013, pp. 283-286. 32 Hertz 1960, pp. 27-86.

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nell’aldilà, occorre una seconda morte culturale. Bisogna essere «procuratori di morte nel seno stesso del biologico morire»34. Si tratta di una fase delicata, critica e perfino

violenta, che Agamben chiama «zona di non-distinzione»35. È in questa faglia tra

politiche della vita e della morte che il defunto si manifesta nel modo più violento e terrifico. Egli è marginale all’ordine sociale, in uno stato permanente di

communitas36. Si potrebbero portare decine di esempi - lo stesso Hertz ne fornisce

diversi – ma basta sottolineare come l’azione violenta e incontrollata del defunto sia presente in diversi contesti37. Quello giapponese, anche per la stretta connessione tra

morte, vita e maternità, ha elaborato un dispositivo rituale interessante sotto molti aspetti.

La donna38 è, insieme al feto, il fulcro di dinamiche processuali che legano

strutturalmente il mizuko kuyō alla pratica abortiva. Con uno sguardo retrospettivo, possiamo articolare il vissuto della donna in tre fasi distinte: l’esperienza dell’aborto, l’esperienza di disagio e tatari, ed infine l’esperienza del mizuko kuyō. Ognuna di esse coinvolge una diversa rete di attori, che esplica modalità e relazioni differenti.

La prima di queste reti è quella tra la donna, il feto e i medici. L’aborto consiste in una trasformazione della corporeità della donna, del feto e della loro relazione, da parte di operatori sanitari che intervengono attivamente su dei soggetti passivi. L’intervento terapeutico consiste nell’interruzione della gravidanza o, su un piano più ampio, un blocco della maternità. Il feto perde ovviamente il suo corpo che, come abbiamo visto, in questo contesto corrisponde ad un’interruzione della densificazione personale. Sia questa sia la maternità sono processi, mentre l’unione tra madre e figlio è una modalità relazionale. Con l’intervento medico questa relazione viene rotta, separando le due corporeità. Non è l’aborto in sé che produce questi effetti, ma sono i processi culturali sottotraccia che finiscono con l’abbinare la pratica al trauma. Detto in altre parole, l’esperienza dell’aborto è immaginata, vissuta e controllata in modo che questi traumi siano incorporati dalla donna39, secondo

quelle dinamiche storiche e sociali che ho illustrato nella parte precedente. Per riassumere (figura 1), l’aborto si configura come un intervento su due corporeità vincolate, soggetti passivi di operatori sanitari attivi. Il risultato sono tre distinte interruzioni, tre traumi secondo l’etimo greco di “ferita”, non in senso peggiorativo.

34 De Martino 1975, p. 19. 35 Agamben 1998. 36 Vd. Turner 1974. 37 Klass 2015; Dean 2004.

38 In questa parte impiego il termine “donna” per riferirmi genericamente a tutte coloro che accedono

al servizio medico dell’aborto e alla pratica rituale del kuyō. Si tratta di una scelta consapevole delle implicazioni culturali e di genere, coerente con il contesto giapponese ma che, ovviamente, non significa un’adesione a tale prospettiva. Nel corso dell’articolo, la questione delle dinamiche di genere è stata sollevata più volte.

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Propongo di interpretare tutto ciò come una perdita della presenza, a partire dalla nozione demartiniana.

La presenza è un tema costante delle riflessioni intorno al lutto e al pianto rituale di de Martino, intesa come la volontà di agire storicamente nel mondo. Entra in crisi al momento della morte o della malattia, ma non è solo l’essere-presente del corpo che dà problema: anche la sua scomparsa lo fa. Il cadavere è la testimonianza di una presenza passata, traccia di una volontà altrui che ormai rimane solo come epifenomeno passivo. La morte è probabilmente l’evento più drammatico, dove il problema maggiore è che «invece di far passare ciò che passa, noi rischiamo di passare con ciò che passa»40, ossia di uscire dal tempo storico e dalle forme culturali

che ci determinano come uomini. Il cadavere allora esemplifica per eccellenza ciò che passa senza e contro di noi, e il cordoglio può assumere espressioni violente. Occorre tuttavia ri-articolare questo discorso per il contesto giapponese, in cui la densificazione (o l’assottigliamento) della persona è una costruzione sociale della corporeità che esclude cesure nette. La maternità è un momento critico di questo processo, in cui la madre contribuisce a formare l’individuo prima dentro e poi fuori di sé, un esempio perfetto e quasi letterale di esperienza incorporata41. La scomparsa

del corpo non implica necessariamente la scomparsa totale della presenza, anzi. In un contesto dove le dinamiche di genere e i meccanismi bio-politici tendono a negare quella perdita42, il mizuko si muove in una dimensione sottile e sfuggente. Subentra

una nuova modalità di percezione del reale, in cui la stessa presenza del feto è ri-significata in un nuovo modo di essere-persona.

Lo stato di disagio che segue all’aborto è focalizzato lungo l’asse del trauma relazionale; le interruzioni processuali definiscono solamente l’impossibilità di un rapporto “corretto”, un’incompatibilità tra una non-madre viva e un figlio non-vivo. Questa simmetria diventa contrastiva quando la perdita del feto lascia dietro di sé

40 De Martino 1975, p. 19. 41 Csordas 1990.

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delle tracce. Sono queste che, venendo incorporate sotto forma di emozioni, rappresentazioni e immaginari, pongono sottili legami tra la donna e il feto. La nuova sensibilità al reale deve fare i conti con l’incompatibilità tra i due soggetti, aprendo una crisi: ciò che de Martino chiama il «ritorno irrelato del morto»43. Tali legami

irrelati, cioè incontrollati, disordinati, magari perfino inconsapevoli, permettono al

mizuko di “aderire” ancora alla donna. Non già come corpo, giacché l’ha perso, ma

come entità evanescente, come appunto una presenza sottile che rimane bloccata nel suo transito verso la vita.

L’esperienza dell’aborto viene reiterata nella vita quotidiana, che viene ri-significata. Il mizuko agisce sulla vita della donna, muovendosi lungo le reti sociali di quella per colpire parenti, familiari, amici. Gli avvenimenti spiacevoli trovano un senso, per quanto indiretto, come contropartita per l’azione moralmente scorretta. Malattie e litigi perdono la loro autonomia evenemenziale per diventare segni del

mizuko, secondo una logica vendicativa che, colpendo la fertilità, la sessualità e la

salute della donna, implica una trasformazione disordinata e pericolosa della corporeità, di nuovo secondo dinamiche passive, di nuovo lungo quei traumi legati all’aborto

In questa fase (figura 2) avviene un’inversione molto importante: la sofferenza della donna, il disagio per la sua maternità interrotta, viene traslata sul

mizuko e tradotta come tatari. Solo che adesso è il feto che passa al ruolo attivo,

togliendo anche quel poco di agentività che la donna conservava nell’aborto, almeno come soggetto decisionale. Nella persecuzione del mizuko la passività è accresciuta da quest’aspetto incontrollabile e ingestibile, come se si tentasse di accostare due poli magnetici di segno uguale. Il rischio di questa crisi è che «invece di far passare ciò che passa, noi rischiamo di passare con ciò che passa»44.

Il mizuko kuyō acquista adesso un valore e un ruolo che prima non era emerso. La nozione di presenza è il termine su cui si fonda la relazione tra aborto, disagio e rito. Proprio la modalità rituale del fenomeno illumina alcuni suoi aspetti funzionali.

43 De Martino 1975, p. 97. 44 Ivi, p. 21.

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Per Lévi-Strauss la differenza tra gioco e rito sta proprio nel valore congiuntivo di quest’ultimo45. Il rituale ha la funzione di compensare gli scarti differenziali tra due

parti, tramite una «partita privilegiata» con regole fisse. Il mizuko kuyō è un vero e proprio servizio rituale, prima che religioso, in cui i sacerdoti o gli specialisti del rito non sono degli operatori veri e propri, ma dei mediatori. La loro funzione è per l’appunto mediare - sulla scorta di un preciso immaginario simbolico e valoriale - la condizione disgiuntiva della donna, per introdurre una nuova relazionalità. Tale immaginario attinge non solo al buddhismo, ma anche allo shintoismo e al cristianesimo46. Non è un caso che ciò avvenga quasi sempre in un contesto religioso:

lo scopo principale di ogni religione è proprio mettere in contatto livelli diversi del reale, stabilendo delle connessioni privilegiate47. In questo modo la disomogeneità

esistenziale tra madre e feto può essere momentaneamente superata.

Nella costruzione della relazione, a dispetto delle critiche sull’anonimato del rituale, l’agency individuale ha una parte fondamentale. Se le preghiere e i sūtra vengono recitati dai sacerdoti, la donna ha il controllo su diversi oggetti rituali. Molti tra questi sono presi in prestito dal culto degli antenati, per esempio le tavolette ihai e

kaimyō; si tratta di supporti lignei in cui normalmente vengono scritti i nomi degli

antenati, ma che nel caso dei mizuko hanno nomi fittizi ben auguranti o in relazione con i disagi del tatari48. Anche il tōba, barra di legno intagliata a forma di stūpa, è

abbastanza diffuso come modo per favorire la condizione spirituale del feto. Ricordiamo inoltre gli ema, messaggi che le donne dedicano al mizuko, appesi in bacheche pubbliche. Il loro contenuto esprime rimorso, colpa o pentimento, espresso sotto forma di suppliche e promesse49. Le stesse statue di Jizō, modelli standard

prefabbricati in plastica o pietra, sono personalizzati con indumenti e accessori per bambini.

Tutti questi gesti, tutte queste pratiche, concorrono a personalizzare la sofferenza e ricostituire almeno una parte di quei processi interrotti. Come ha sostenuto Harrison, la maternità viene recuperata in una nuova forma, prendendosi cura del feto. Non più una ricettività dolorosa, ma un’azione materna che pone la donna su un piano attivo, seppur in stretta collaborazione con i mediatori religiosi. Il

mizuko, d’altra parte, diventa oggetto di cure, ricevendo tramite esse un nome,

un’identità formale, una fissazione minima che continua la densificazione della sua persona50. La nuova relazione congiunge madre e figlio attraverso un forte controllo

della presenza evanescente, che passa da irrelata a riferita. Possiamo dire che il

mizuko kuyō è, nella sua funzione trasformativa (figura 3), simmetrico all’aborto,

45 Lévi-Strauss 1998, p. 45. 46 LaFleur 1992, p. 149. 47 Csordas 1990, p. 16. 48 Brooks 1981, p. 125.

49 Rufino 2010, p. 62; LaFleur 1992, p. 153; Brooks 1981, p. 122. 50 Oaks 1994.

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dando una forma alle tracce di una presenza evanescente. In questo senso la presenza è anzitutto una «volontà di forma»51 che si innesta nel morire biologico.

In Giappone si è ormai stabilito uno stretto legame tra il servizio medico statale e il servizio religioso buddhista, al punto che in alcuni ospedali lo si presenta come una terapia “extra” per le pazienti52. In tutto questo, il marito e i parenti

rientrano marginalmente, come figure “assistenti” e mai pienamente partecipanti. Eppure possiamo notare che anche in questo caso, laddove l’ospedalizzazione dell’aborto esclude il marito dalla sala operatoria e il tatari lo rende una vittima, il rituale buddhista lascia uno spazio per manifestarsi. Alcuni ema riportano dediche maschili, scuse e preghiere di padri mancati53. La loro rimane però una presenza

contingente, mentre quella delle donne è imprescindibile.

Lo schema che abbiamo tracciato finora non è mai un copione fisso, ma presenta grossi margini di variazione. Per esempio, la presenza degli uomini (che non siano medici o sacerdoti) è un elemento in controtendenza alla marginalità riservata al ruolo paterno. Anche la passività della donna nell’esperienza dell’aborto non è così scontata: la decisione di sottoporsi all’intervento, come altre scelte simili riguardo alla gestione della maternità, indica una forte consapevolezza, legata anche ai movimenti sociali54 e femministi giapponesi55. Viceversa, la commercializzazione e il

discorso pubblico del mizuko kuyō continuano a riprodurre forti squilibri di genere, plasmando l’esperienza di disagio e sofferenza della donna in modo che venga reiterata costantemente nel tempo. Se l’aborto è un evento puntuale, il rito per il

mizuko non completa la disgiunzione tra donna e feto, ma avvicina i due termini in

maniera controllata.

Per concludere, il mizuko kuyō è una pratica rituale che permette alle donne giapponesi di gestire la crisi della presenza causata dall’aborto. La dimensione irrelata e pericolosa del tatari, prodotta e vissuta nella corporeità della donna, è

51 De Martino 1975, p. 20. 52 Brooks 1981, p. 121. 53 Ivi, pp. 122-124. 54 Wilson 2009, p. 17.

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ridefinita sulla scorta di un immaginario pubblico fortemente orientato secondo il genere. L’esperienza di disagio e sofferenza viene plasmata tramite operatori simbolici e atti che permettono d’interfacciarsi con la dimensione sottile del mizuko, con il quale si instaura una relazione che è al tempo stesso riproduzione della maternità mancata e densificazione formale del feto.

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