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Situazioni di emergenza e deroghe ai diritti umani nel sistema della Cedu

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Indice

Introduzione p. 4

CAPITOLO PRIMO

RESTRIZIONI, DEROGHE ED EMERGENZE

1. Premessa p. 7

2. Le deroghe nei principali strumenti in materia di diritti umani adottati a

livello internazionale p. 9

3. I requisiti delle deroghe p. 11

4. La difficile definizione di emergenza p. 13

5. La lotta al terrorismo nel Regno Unito p. 18

CAPITOLO SECONDO L’ART. 15 CEDU

1. Premessa p. 26

2. Struttura e ruolo dell’art. 15 p. 27

3: Le ipotesi di applicabilità p. 30

3.1 La guerra

3.2 Il pericolo pubblico

3.3 Le possibili origini del pericolo

4. Le condizioni di ordine procedurale p. 35

5. I singoli casi di deroga alla Convenzione p. 37 6. I limiti rispetto alla possibilità di applicare restrizioni ai diritti garantiti

(2)

CAPITOLO TERZO

IL CONTROLLO OPERATO DALLA CORTE DI STRASBURGO SULLE MISURE DI DEROGA

1. Premessa p. 41

2. Il sistema di controllo convenzionale p. 42

2.1 Il principio della doppia protezione

3. Le procedure pilota p. 48

4. I criteri interpretativi p. 50

4.1 La dottrina del “margine di apprezzamento” 4.2 Il principio di proporzionalità

5. Il principio del rispetto delle altre obbligazioni derivanti dal diritto

internazionale p. 58

6. I Protocolli 15 e 16 p. 59

7. Conclusioni sul ruolo degli Stati a seguito delle sentenze della Corte p. 61

CAPITOLO QUARTO

I DIRITTI INDEROGABILI ANCHE DURANTE LE EMERGENZE

1. Premessa p. 65

2. Il diritto alla vita p. 67

2.1 La posizione della Corte e della Commissione 2.2 La questione problematica del feto

2.3 L’estradizione: alcuni casi giurisprudenziali 2.4 Il diritto alla vita nei conflitti armati interni 2.5 L’art. 2 ed il diritto ad un ambiente salubre 2.6 Il caso della Turchia: la sentenza Timurtas 2.7 Obblighi positivi a carico degli Stati membri 2.8 Limiti al diritto alla vita

2.9 L’uso legittimo della forza letale contro i terroristi 2.10 Una sentenza significativa

(3)

3. Il divieto di tortura p. 92 3.1 Problemi interpretativi

3.2 Il criterio della soglia minima di gravità 3.3 Caratteristiche dei comportamenti vietati

4. La proibizione della schiavitù p. 100

4.1 Cenni storici

4.2 La natura cogente del divieto di schiavitù e servitù 4.3 Il divieto di lavoro forzato o obbligatorio

4.4 Il diverso grado di intensità delle fattispecie contemplate dalla norma 5. Il divieto di irretroattività della legge penale p. 107

5.1 Il principio di legalità nella prassi applicativa

Considerazioni conclusive p. 110

(4)

Introduzione

Vi sono alcune circostanze in cui gli Stati, a fronte di un pericolo grave ed eccezionale che metta a repentaglio il proprio ordine sociale se non la loro sopravvivenza, possono instaurare un regime giuridico straordinario, in base al quale si riduce il livello di tutela dei diritti fondamentali: per riferirsi a tali circostanze si usano vari termini, come ad esempio national

emergencies, states of exceptions, states of emergencies, états d’urgence, situations extraordinaires1

.

In Italia esse sono generalmente individuate come stati di emergenza, crisi interne, situazioni eccezionali, stato d’assedio, stato d’urgenza.

Tali circostanze assumono rilevanza anche nel diritto internazionale, soprattutto in virtù del regime giuridico straordinario che ad esse consegue.

È per questa ragione che i principali strumenti convenzionali a tutela dei diritti umani contengono una clausola finalizzata a consentire la sospensione di taluni obblighi da essi previsti nelle situazioni di eccezionalità sopra menzionate.

Ne sono l’esempio, l’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (infra, Patto), l’art. 27 della Convenzione Americana sui diritti dell’uomo2

, l’art. 4 della Carta araba dei diritti umani3, l’art. 15 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (infra, CEDU o Convenzione): tali norme rappresentano clausole che prevedono deroghe ai regimi istituiti dai rispettivi trattati in presenza di situazioni eccezionali.

1

Per approfondimenti v. V. EBOLI, La tutela dei diritti umani negli stati di

emergenza,Giuffré Editore, Milano 2010.

2

Cfr. In generale, Th. BOERGENTAL, R. NORRIS, D. SHELTON, Protecting Human

Rights in the Americas: Selected Problems, Kehl-Strasburg-Arlington, 1982; D. HARRIS, The inter-American system of Human Rights, Oxford, 1998.

3

Il testo originario della Convenzione, redatto nel 1994, emendato nel 2004 ed entrato in

vigore il 15 marzo 2008, è consultabile sul sito

(5)

Negli ultimi decenni le più gravi violazioni dei diritti umani sono avvenute durante stati emergenziali: in queste situazioni gli Stati, usando l’emergenza come una scusa, hanno spesso negato l’applicazione degli standard base di tutela e preso misure in deroga, eccessive ed in violazione degli strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali. Le emergenze potenzialmente rilevanti possono essere originate da fattori di carattere meramente interno, come tensioni politiche, sommosse, rivoluzioni o calamità naturali, oppure da eventi di ordine internazionale, quali conflitti armati o fenomeni di terrorismo internazionale.

Uno dei maggiori problemi della protezione internazionale dei diritti umani è l’identificazione degli standard che regolano questi diritti in situazioni di emergenza. Le emergenze pubbliche costituiscono un grave problema per gli Stati: esso consiste nel superare l’emergenza e ristabilire l’ordine nel Paese, rispettando allo stesso tempo i fondamentali diritti dell’individuo. Il presente lavoro, che sarà incentrato sul sistema della Convenzione europea, si propone di illustrare quali siano gli stati di emergenza rilevanti ai fini dell’instaurazione di un regime straordinario e derogatorio.

Verranno presi in esame i presupposti della deroga, l’applicazione che se ne è fatta nella prassi degli Stati dal 1950 ad oggi, ed il controllo che su di essa ha operato la giurisprudenza di Strasburgo.

Infine si esaminerà il c.d. “nocciolo duro” della Convenzione, ovvero quelle disposizioni che, per l’importanza dei diritti che vanno a tutelare, non possono essere derogate nemmeno con la procedura prevista dall’art. 15.

(6)

CAPITOLO PRIMO

(7)

1. Premessa

Come si è già accennato, nell’ambito dei sistemi internazionali di tutela dei diritti umani, pochi di questi ultimi godono di un’assoluta protezione.

Di conseguenza al dovere degli Stati di rispettare e far rispettare i diritti fondamentali indicati dalle varie Convenzioni, si accompagna la possibilità, prevista dalle medesime Convenzioni, di ridurre la soglia di protezione di tali diritti.

Sono due gli strumenti che le convenzioni universali volte alla tutela dei diritti umani utilizzano per farlo: le restrizioni (o limitazioni) e le deroghe. Le prime si possono definirsi “limitazioni al godimento di singoli diritti” (di solito le libertà civili e politiche appartenenti alla tradizione democratica dell’Occidente), “suscettibili di essere arrecate in presenza di determinate ragioni di interesse pubblico e nel rispetto di certe condizioni”4

.

La deroga viene invece definita come la “facoltà concessa agli Stati in alcuni strumenti internazionali di sospendere la garanzia dei diritti in essi previsti, ad eccezione di alcuni, quando ciò si dimostri necessario per far fronte a situazioni di particolare difficoltà per lo Stato” 5

.

Deroghe e restrizioni rappresentano quindi “tecniche di bilanciamento tra la garanzia del diritto individuale e le esigenze complessive della società o di altri individui”6: rappresentano “l’insopprimibile pulsione dello Stato ad agire libero da vincoli quando, in situazioni di forza maggiore e/o di estremo pericolo, ne siano in gioco la sicurezza o addirittura l’esistenza”7

. Le clausole di deroga da un lato rispondono alla necessità di contemperare le esigenze di tutela dei diritti fondamentali e di preservazione dell’ordine costituzionale degli stati contraenti; dall’altro,

4

VIARENGO, Deroghe e restrizioni alla tutela dei diritti umani nei sistemi internazionali di

garanzia, in Rivista di diritto internazionale, 2005, vol. 88, issue 4.

5

Ibidem.

6

HIGGINS, Derogations under Human Rights Treaties, in British Year Book of Int. Law, 1976-1977, pp. 281 ss.

7

ZAGATO, L’eccezione per motivi di emergenza nel diritto internazionale dei diritti umani in “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, 5-6, 2006.

(8)

esprimono una finalità garantista, limitando, sul piano internazionale, ad un nucleo ristretto gli stati di emergenza interni rilevanti e, soprattutto, sottoponendoli a meccanismi di controllo convenzionali.

(9)

2. Le deroghe nei principali strumenti in materia di diritti umani adottati a livello internazionale

Ovviamente in un sistema che si prefigga la tutela dei singoli individui le deroghe possono apparire dissonanti ed inappropriate, ma non si può da loro prescindere allorché risultino necessarie a fronti di determinati eventi, e sempre a condizione che risultino proporzionate agli interessi da proteggere.

Questo difficilissimo contemperamento di interessi viene preso debitamente in considerazione da tutti i principali documenti internazionali che si occupano di diritti umani: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 29, par. 2), il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Le norme suddette sono tutte molto simili: la loro struttura consta infatti di un primo paragrafo, che enuncia il diritto garantito, ed un secondo paragrafo che enuncia le condizioni in presenza delle quali il diritto stesso può essere sottoposto a restrizioni.

Attraverso una comparazione tra la CEDU e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo si nota una similitudine nella definizione delle condizioni suddette, soprattutto nelle norme riguardanti la libertà religiosa, di espressione, di riunione e associazione.

In tali articoli si specifica come le restrizioni debbano essere previste dalla legge e necessarie per raggiungere gli scopi di interesse pubblico cui le norme stesse sono preordinate.

Ci sono poi casi in cui i due strumenti internazionali divergono.

In alcuni articoli il Patto ammette limitazioni alle libertà alla sola condizione che non siano arbitrarie, mentre la Convenzione è molto più specifica nell’indicare le condizioni cui subordinare l’intervento statale: un esempio è costituito dalle norme che regolano le limitazioni alla libertà personale (art.

(10)

9 Patto e art. 5 CEDU) o il diritto al rispetto della vita privata (art. 17 Patto, art. 8 CEDU).

Ulteriori divergenze tra Patto e Convenzione emergono, in alcune disposizioni, con riferimento all’aspetto quantitativo delle restrizioni ammesse, ad esempio nel caso della libertà di circolazione, per cui la CEDU ammette restrizioni maggiori rispetto al Patto: nello specifico la CEDU (Protocollo n. 4, art. 2), oltre ad autorizzare deroghe in materia ai fini del perseguimento della sicurezza nazionale, mantenimento dell’ordine pubblico, protezione della salute e della morale, tutela dei diritti e delle libertà altrui (come fa il Patto), aggiunge gli scopi della sicurezza pubblica e della prevenzione delle infrazioni penali, nonché del “pubblico interesse in una società democratica”.

Un’altra norma importante ai fini del confronto tra la Convenzione ed il Patto è quella che dispone le garanzie previste per lo straniero sottoposto a procedura di espulsione.

Mentre il Patto arriva ad escludere del tutto le garanzie offerte allo straniero per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza nazionale, la CEDU (all’art. 1 del Protocollo n. 7), pur prevedendo che lo straniero possa essere espulso prima di esercitare tale diritto allorché l’espulsione sia necessaria nell’interesse dell’ordine pubblico o sia fondata su ragioni di sicurezza nazionale, va ad incidere, più che sulle garanzie in sé e per sé, sul momento del loro esercizio8.

8

(11)

3. I requisiti delle deroghe

Alcuni articoli della Convenzione consentono agli Stati membri, al fine di tutelare dei determinati interessi pubblici, o i diritti di altri individui o soggetti, di limitare l’esercizio di alcuni diritti o libertà: ad esempio il diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8, la libertà di manifestazione della propria religione (art. 9), la libertà di espressione (art. 10), la libertà di riunione e di associazione (art. 11).

Per essere lecite, le restrizioni devono essere rispondenti a determinate condizioni formali e sostanziali:

- devono essere previste dalla legge;

- devono essere finalizzate alla protezione degli interessi di volta in volta indicati dalla norma (la sicurezza nazionale, la tutela dell’ordine pubblico, la tutela della salute o della morale, la prevenzione del crimine, la salvaguardia dei diritti e delle libertà altrui);

- devono essere “necessarie in una società democratica”. A sua volta tale requisito implica che le restrizioni:

- siano ammissibili soltanto se perseguano lo scopo di salvaguardare l’ordine democratico e la tutela dei diritti individuali, e non di reprimerli; - rispondano ad una “pressante necessità sociale”;

- siano proporzionate agli obiettivi perseguiti9.

La giurisprudenza di Strasburgo, pur riservando alla Corte europea un controllo in ultima istanza sul rispetto, da parte dello Stato

interessato, delle suddette condizioni, riconosce allo Stato parte un certo margine di apprezzamento autonomo in merito alla necessità di adottare misure restrittive, nonché alla scelta di queste ultime.

Si presume infatti che le autorità nazionali possano effettuare una valutazione più adeguata al caso specifico.

9

Cfr. Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 26 aprile 1979, relativa ad una limitazione della libertà di stampa imposta a salvaguardia dell’autorità del potere giudiziario.

(12)

La dottrina del margine di apprezzamento è stata oggetto di numerose critiche per la discrezionalità eccessiva che finisce per concedere agli Stati, rischiando di abbassare gli standard di tutela fissati dalla Convenzione.

D’altro canto, come è stato giustamente osservato10, “tale margine di apprezzamento trova tanto più spazio quanto più la Corte ravvisi l’esistenza di diversità di fondo tra le concezioni etiche e giuridiche esistenti nei vari Stati parti”, il che rende il margine di valutazione ampiamente variabile, sempre e comunque sottoposto, non si dimentichi, al controllo della Corte.

Oltre alle clausole di cui si parlava (le quali possono addirittura comportare l’imposizione di restrizioni permanenti della portata di certi diritti), la Convenzione contiene una clausola generale che consente agli Stati parte di derogare ai diritti garantiti in situazioni di emergenza: si tratta dell’art. 15, cui sarà dedicato il prossimo capitolo.

Prima di proseguire nella trattazione è necessario in primis chiarire il concetto di emergenza.

10

PEDRAZZI, La Convenzione europea sui diritti umani e il suo sistema di controllo, in PINESCHI, a cura di, La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi., Giuffrè Editore, Milano, 2006, pp. 280 ss.

(13)

4. La difficile definizione di emergenza

Il concetto di emergenza è un concetto opaco, pieno di sfaccettature: si può dire che ogni Paese del mondo, con la sua differente storia e le sue differenti peculiarità sociali, politiche e geografiche, abbia una propria concezione dello stato emergenziale11.

Esso può essere preliminarmente definito, in via generale, come “una deviazione dalla regolare operatività del sistema normativo”12

.

Altri la definisce una “situazione nella quale le norme giuridiche vigenti si rivelano inadeguate a rimediare alle lesioni o ai pericoli di lesione grave ai principi fondamentali dell’ordinamento, che provengono da accadimenti naturali o da comportamenti umani imprevisti o imprevedibili”13

(categoria aperta che comprende la guerra in tutte le sue forme e manifestazioni, le crisi economiche, le calamità naturali e le catastrofi ambientali, il terrorismo).

E ancora, lo stato di emergenza (o eccezione) “consiste nella sospensione a vario titolo del normale funzionamento delle garanzie costituzionali vigenti all’interno dello Stato (persona giuridica), cui corrisponde un comportamento elettivo dello Stato ente di fatto (nel diritto internazionale)14.”

Il fatto emergenziale non è necessariamente un fatto nuovo, ma è comunque foriero di uno stato di crisi per l’ordinamento giuridico (quale sistema di norme destinate a regolare in futuro un numero indeterminato di fattispecie concrete15) poiché, non essendo previsto dal diritto vigente,

11

F. FRANCIONI, a cura di, Access to Justice as a Human Right, Oxford University Press, New York, 2007.

12

P. FOUNDETHAKIS, State of Emergency in Democracy: the Case of Greece, in Revue

hellénique de droit international, 2004, vol 57, issue 1, pp. 85-101.

13

BONETTI, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, IL MULINO, Bologna 2006.

14

ZAGATO, A proposito dello stato di eccezione. Contributo critico di un internazionalista

intorno alla monografia di Agamben, in “DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista

telematica di studi sulla memoria femminile”, 7/2007, pp. 269 ss.

15

(14)

quest’ultimo potrebbe non riuscire a prevenire o reagire adeguatamente alle lesioni ai diritti che di cui l’emergenza risulta foriera.

Il fatto emergenziale quindi, a prescindere da come si voglia definirlo, costituisce a livello giuridico un presupposto per l’attivazione di determinati strumenti, giuridici, previsti per quella determinata situazione.

In alcuni ordinamenti ciò è appannaggio del Governo o del Capo dello Stato, ed in altri ancora questi organi, assieme al Parlamento, sono autorizzati dalla Costituzione a derogare temporaneamente ad alcune sue norme, sospendendone l’efficacia per essere sostituite da apposite normative derogatorie consentite dall’instaurazione di uno “stato di eccezione”, finalizzato alla tutela dell’ordinamento ed al ripristino dello

status quo ante.

Le corti internazionali preposte alla tutela dei diritti umani hanno impiegato una considerevole dose di lavoro ed energia per integrare, anche a livello giurisprudenziale, il concetto di emergenza.

Per esempio, nella sentenza Lawless c. Irlanda la maggioranza dei giudici definì la pubblica emergenza, nell’ottica dell’art. 15 CEDU, come “una situazione di pericolo o di crisi eccezionale ed imminente che affligge la generalità degli individui, non anzi gruppi particolari di persone, e che costituisce un pericolo per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato coinvolto”. Nel c.d. caso greco16 vennero invece individuate le

16

Il caso è sorto a seguito di un ricorso presentato alla Commissione, il 20 settembre 1967, da parte di Danimarca, Norvegia e Svezia contro la Grecia.

Lo Stato di emergenza rappresenta una consuetudine per la Grecia, connessa a sconvolgimenti politico-istituzionali, dittature e rivoluzioni.

Nel XIX secolo, in un periodo in cui le altre Costituzioni europee già regolavano questo fenomeno, lo stato di emergenza o lo stato di guerra erano sconosciuti in Grecia, con qualche eccezione riguardante i tribunali militari straordinari durante il regno del re Otto. Fu per la prima volta la Costituzione del 1911, all’art. 91, a prevedere che una legge speciale avrebbe regolato lo stato di guerra o la generale mobilitazione dovuta ad una minaccia esterna (si badi, non anche interna): in questi casi si consentiva dunque la sospensione di alcune previsioni costituzionali.

Lo stato di emergenza doveva essere dichiarato da un decreto reale con il consenso del Parlamento.

Dopo l’entrata in vigore di queste nuove norme, lo stato di guerra fu dichiarato nella guerra dei Balcani del 1912-13, nel 1917 in occasione della Prima Guerra Mondiale e durante la mobilitazione in Asia Minore: in tutti questi casi, non vi furono deroghe al regime costituzionale.

(15)

quattro caratteristiche dello stato emergenziale ex art. 15 CEDU: l’emergenza deve essere attuale o comunque imminente; i suoi effetti

In seguito, tuttavia, l’istituzione venne travolta dal vortice dei regimi autoritari.

Nel 1923 il governo Gonatas dichiarò lo stato di emergenza per reprimere più facilmente i suoi avversari politici, e altrettanto fece il governo Tsaldaris nel 1935.

Nel 1925 e nel 1935 Pangalos e Kondylis rispettivamente dichiararono lo stato di emergenza semplicemente per contrastare un colpo di stato, la qual cosa era ben lungi dal costituire il necessario presupposto del pericolo esterno (senza contare che non era stata rispettata nemmeno l’ulteriore condizione prevista dalla Carta Costituzionale, ovvero il consenso del Parlamento).

La revisione costituzionale del 1927 non mutò il quadro costituzionale dello stato di emergenza, nonostante le violazioni palesi intervenute negli anni passati.

A seguito della liberazione del Paese dopo l’occupazione tedesca nel 1944 e la vittoria del governo legittimo di Atene sul movimento di resistenza di EAM-ELAS dopo gli scontri armati del dicembre dello stesso anno, lo stato di emergenza venne dichiarato nel febbraio del 1945.

A giugno il quarto Parlamento Revisionario adottò una risoluzione con cui furono istituiti dei tribunali straordinari.

Ma i più grandi sconvolgimenti in merito alla regolazione dello stato di emergenza si ebbero con la Costituzione del 1952: una manifesta minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza da pericoli interni venne considerata la base sufficiente per dichiarare lo stato di emergenza; inoltre il consenso preventivo del Parlamento fu abolito16.

L’uso anticostituzionale dell’istituto dello stato di emergenza fu il mantello sotto la cui pretesa legalità si celò il colpo di stato dell’aprile del 1967: lo stato di emergenza fu dichiarato con un decreto reale (che però ben poco aveva di reale, dato che non era stato firmato dal sovrano) che sospendeva delle previsioni costituzionali fondamentali. Il Parlamento non ebbe mai occasione di esaminarlo.

Ancora una volta, lo stato di emergenza veniva usato per offrire una sottilissima patina di legittimità ai rovesciamenti del governo.

I “testi costituzionali” del 1968 e del 1973 si occuparono della normativizzazione dello stato di emergenza in casi di minaccia interna ed esterna.

Secondo la prima di queste leggi lo stato emergenziale doveva essere dichiarato con decreto reale su proposta del governo e con la partecipazione del cosiddetto “Consiglio della Nazione”, un organo oligarchico (assimilabile al Consiglio di Sicurezza Nazionale turco).

In caso di disaccordo in seno al Consiglio si sarebbe ricorso ad una decisione del Parlamento (che all’epoca non esisteva).

La legge del 1973, disponeva che per la dichiarazione dello stato di emergenza sarebbe stato sufficiente un decreto del Presidente della Repubblica: a questa legge si ebbe modo di ricorrere già nel novembre dello stesso anno per sopprimere le manifestazioni di massa contro la dittatura al Politecnico di Atene.

Dopo il crollo della dittatura, la Costituzione del 1975 non si allontanò molto dalla precedente: essa ripristinò la minaccia interna come giusta causa per la dichiarazione dello stato di emergenza; fornì inoltre al Presidente della Repubblica poteri abnormi in modo che potesse prendere ogni tipo di decisione da lui ritenuta opportuna (ovviamente nei limiti sanciti dalla Costituzione stessa).

È stato sostenuto16 che “l’obiettivo della Costituzione era permettere l’instaurazione di una temporanea dittatura presidenziale che avrebbe aperto la strada alla possibilità di renderla permanente su base quasi legale”.

La revisione costituzionale del 1986 fu caratterizzata da maggiore stabilità, dovuta in gran parte dall’ingresso della Grecia nella Comunità Europea, avvenuta nel 1980.

L’art. 48 della Costituzione ha introdotto le previsioni emergenziali che sono in vigore ancor oggi.

(16)

devono coinvolgere l’intera nazione; il proseguimento della vita organizzata della comunità deve risultare in pericolo; la crisi o il pericolo devono essere eccezionali, tanto da far apparire chiaramente inadeguate le normali misure restrittive concesse dalla Convenzione per il mantenimento della pubblica sicurezza, la salute pubblica e l’ordine pubblico.

Nel suo commento generale n. 5/13 all’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disciplinante la clausola di deroga di fronte ad un pericolo pubblico, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha sottolineato che un’emergenza può giustificare la deroga di cui all’articolo in commento solo se le circostanze abbiano natura eccezionale e temporanea17.

I principi suddetti sono stati rielaborati ed ampliati nel Commento Generale n. 29.

Tale atteggiamento è riecheggiato nella giurisprudenza sia della Commissione interamericana sui diritti umani sia della Corte interamericana dei diritti umani.

Ciò porta a due considerazioni: prima di tutto, il diritto internazionale dei diritti umani in genere segue un modello di sistemazione giuridica per quanto riguarda l'esperienza della crisi da parte degli Stati18; questo significa che la regolazione della crisi rientra nella legge e non costituisce un buco nero in cui il dominio del diritto internazionale non si estende19. In secondo luogo il privilegio di deroga è permeato da vari requisiti procedurali, che richiedono che gli stati adempiano seriamente agli obblighi di notifica, resoconto, necessità, proporzionalità quando ricorrono a misure legali che innescano la deroga alle norme internazionali sui diritti umani.

17 “Report of the Human Rights Committee”, UN GAOR Human Rights Commission, 36th

Session, Annex VII, General Comment 5/13, at 110, UN Doc A/36/40 (1981).

18

GROSS, NÌ AOLÀIN, Law in Times of Crisis, Emergency Powers in Theory and

Practice, Cambridge University Press, 2006.

19

NÌ AOLÀIN, The emergence of Diversity: Differences in Human Rights Jurisprudence, 1995.

(17)

In terzo luogo, l’obiettivo del diritto internazionale dei diritti umani è proteggere i diritti individuali e la dignità della persona: ciò significa che ogni valutazione del successo della legge nel campo dell’emergenza debba essere misurato in rapporto all’esperienza individuale nel microlivello20.

20

NÌ AOLÀIN, The Individual Right of Access to Justice in Times of Crisis: Emergencies,

Armed Conflict and Terrorism, in Access to Justice as a Human Right, a cura di F.

(18)

5. La lotta al terrorismo nel Regno Unito

La maggior parte degli autori è concorde nell’individuare nel Regno Unito la soluzione istituzionale più antica dell’emergenza21

, soprattutto per la peculiarità dello sviluppo storico del diritto e della prassi costituzionale britannica.

Il primo strumento di gestione istituzionale dell’emergenza nel contesto britannico è la martial law, la quale si è delineata a partire dal XIII secolo. La common law attribuisce, a titolo di prerogativa regia, il comando delle forze armate alla Corona e ai suoi funzionari.

Basandosi sul richiamo all’istituto della royal prerogative è più agevole comprendere per quale motivo il modello britannico di gestione dell’emergenza venga spesso definito come di “deferenza” nei confronti del sistema giudiziario.

Le facoltà esercitate a titolo di prerogativa regia sfuggono infatti al controllo delle Corti.

Resta il potere del Parlamento di decidere sull’esercizio della legge marziale e sugli atti governativi: questi sono sempre sottoposti al vaglio del sistema giudiziario nel caso superino i limiti imposti dalla common law oppure della legge del Parlamento.

La peculiarità del modello inglese non risiede tanto nella necessità del controllo giurisdizionale, quanto nel momento del controllo: esso viene infatti posticipato rispetto alla gestione dell’emergenza da parte dell’Esecutivo.

Laddove l’azione del governo durane l’emergenza necessiti di essere convalidata perché lesiva di diritti individuali, tale convalida avverrà attraverso un Bill of Indemnity, che esonera il Governo dalla responsabilità politica per gli atti compiuti durante l’emergenza, la quale sarà gestita

21

FROSINI-PENNICINO, La lotta al terrorismo nella patria dell’habeas corpus. Evidenze

del dinamismo costituzionale britannico, in Lotta al terrorismo e tutela dei diritti costituzionali, cit.

(19)

secondo le regole della politica e non del diritto; questo interverrà solo in seguito, ed in via eventuale, per regolare eventi sproporzionati.

Le Corti devono vagliare la sussistenza delle condizioni di fatto che costituiscono le premesse per l’applicazione della martial law.

Essa, in ogni caso, non registra applicazioni a partire dal 1920 in poi, cioè dalla rivolta irlandese; in seguito infatti furono approvate una serie di leggi che disciplinano preventivamente ipotesi di eccezione specifiche.

Questi statutes regolano nel dettaglio i poteri derogatori concessi al Governo e le condizioni sulla base delle quali essi possono essere esercitati.

Una delle ipotesi più comuni in quest’ultima tipologia è la legislazione antiterrorismo.

Il Regno Unito si è trovato a dover fronteggiare il fenomeno terroristico innanzitutto sul fronte interno, in conseguenza dell’attività dei gruppi indipendentisti repubblicani nordirlandesi (IRA).

Nel 1922 IL Parlamento nordirlandese approvò il Civil Authorities (Special

Powers) Act (Northern Ireland) al fine di autorizzare determinati organi del

Governo nordirlandese a prendere determinati provvedimenti per garantire la pace e mantenere l’ordine.

La legge istituiva ad esempio delle corti speciali (Summary Jurisdiction) competenti a giudicare delle violazioni delle norme introdotte.

Tale normativa, che nei progetti iniziali avrebbe dovuto restare in vigore solo per un anno, perdurò invece per tutta la durata dell’esistenza del Parlamento nordirlandese.

Dagli anni Trenta in poi la legislazione antiterrorismo fu soggetta ad ulteriori modifiche ed arricchimenti: nel 1939, ad esempio, venne approvato dal Parlamento inglese il Prevention of Violence Act

(Temporary provisions), il quale fu rinnovato con modifiche nel 1974.

A partire dalla metà del secolo scorso l’IRA si divise in due fazioni: quella ufficiale e quella autodefinitasi Provisional, di matrice marxista: fu

(20)

quest’ultima fazione a rendersi responsabile degli attacchi terroristici che flagellarono il Regno Unito a partire dal 1969 fino al 1997.

Nel 1971 furono perciò riattivati i tradizionali strumenti di lotta al terrorismo (quelli che si rifanno alla legge del 1922), come ad esempio l’arresto, il fermo senza convalida e la detenzione a tempo indeterminato senza formulazione di accusa.

A partire dal 1972 vennero poi introdotte le cc.dd. Corti Diplock22 in Irlanda del Nord, per fronteggiare il problema delle intimidazioni ai componenti delle giurie popolari coinvolte nei processi relativi ad atti di terrorismo (trattavasi infatti di giudici monocratici).

Nel 1973 il Regno Unito, per la quinta volta in tre anni, dichiarò lo stato di emergenza.

Per via dell’intensificazione del fenomeno terroristico il Parlamento inglese, nel 1974, approvò il Prevention of Terrorism (Temporary

Provisions) Act, che costituisce ancora oggi la base della normativa

antiterrorismo britannica.

Una nuova ed innovativa risposta alla lotta contro il terrorismo arrivò nel 2000, con l’approvazione del Terrorism Act (TA 2000).

Gli strumenti di lotta al terrorismo fino a quel momento si identificano essenzialmente:

- nel potere del Ministro degli Interni di stilare una lista delle organizzazioni vietate e dei crimini connessi;

- nella previsione di una serie di crimini specificamente legati al terrorismo;

- nell’introduzione di speciali poteri di polizia.

Furono però gli ormai tristemente noti attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a provocare una svolta decisiva nella legislazione antiterrorismo del Regno Unito, che si concretizzò nell’approvazione dell’Anti-Terrorism,

Crime and Security Act del 2001.

22

(21)

Le previsioni più controverse di questa legge erano contenute nella parte IV, dedicata alla procedura di certificazione contro le persone sospette di essere terroristi internazionali.

L’art. 21, in particolare, autorizzava il Ministro degli Interni a “certificare” gli stranieri che egli ritenesse sospetti terroristi, in presenza di ragionevoli motivi di credere che:

- la sola presenza del soggetto sul territorio del Regno costituisse una minaccia per la sicurezza nazionale;

- il soggetto fosse un terrorista.

Il secondo comma si occupava di definire “terrorista” come:

- il soggetto che sia stato coinvolto nella commissione, preparazione, o istigazione ad atti terroristici internazionali;

- il soggetto affiliato ad un gruppo terroristico; - il soggetto collegato a gruppi terroristici.

Un’altra disposizione controversa era l’art. 23, che disciplinava il regime detentivo, potenzialmente indefinito, a carico degli individui sospettati di terrorismo.

Sempre nel 2001 venne approvato lo Human Rights Act 1998 (Designated

Derogation) Order 2001, che invocava la facoltà di deroga rispetto alla

compatibilità delle misure antiterrorismo britanniche con l’art. 15 CEDU. L’art. 30 affidava alla Special Immigration Appeals Commission (SIAC) la competenza a decidere sui ricorsi che insistevano sulla deroga all’art. 5, comma 1 CEDU.

Prima del 1998, la Corte EDU si era già pronunciata varie volte sulle misure di lotta al terrorismo interno previste dal Regno Unito.

A partire dallo Human Rights Act, con il quale il Regno Unito dava attuazione alla CEDU, la acquisita vincolatività della giurisprudenza di Strasburgo nel sistema delle fonti britannico ha fatto sì che essa avesse un maggior peso presso i giudici inglesi.

(22)

Ne costituisce una dimostrazione l’importantissima sentenza della Camera dei Lord A. and Others c. Secretary of State for the Home Department, del 2004.

I ricorrenti erano nove stranieri detenuti per essere sospettati di terrorismo, in attesa di espulsione.

I motivi del ricorso presentato erano due.

Il primo riguardava l’ingiustificatezza del Derogation Order ex art. 15 CEDU del Governo britannico, mentre il secondo sosteneva l’incompatibilità degli artt. 21 e 23 del ATCSA 2001 con gli artt. 5 e 14 CEDU.

In merito al primo motivo i Law Lords si concentrarono sulla effettiva sussistenza delle condizioni di pericolo pubblico alla base della deroga del Governo britannico.

I giudici della Camera dei Lord si basarono, per risolvere la questione, sulla precedente giurisprudenza di Strasburgo, in particolare: Lawless v.

Ireland, Ireland v. United Kingdom, Brannigan and Mc Bride v. United Kingdom e Aksoy v. Turkey.

Essi confermarono la sussistenza della situazione di emergenza rigettando la motivazione dei ricorrenti, ma accogliendo al contrario la loro richiesta di annullamento sulla base del test di proporzionalità, ovvero del fatto che questa misura fosse strettamente necessaria.

A loro avviso l’art. 23 ATCSA non superava a sua volta il test di proporzionalità, in quanto la scelta di affrontare il problema delle minacce alla sicurezza con misure in materia di immigrazione è stata inevitabilmente fallimentare.

Infatti tale norma permette ai sospetti terroristi non inglesi di lasciare il Paese impuniti, mentre quelli di cittadinanza britannica vengono lasciati liberi di circolare; inoltre impone la detenzione a tempo indeterminato ad individui che, seppur sospettate di avere legami con Al-Quaeda, potrebbero non avere intenzioni ostili nei confronti del Regno Unito23.

23

(23)

Per quanto riguarda la questione della compatibilità dell’art. 21 ATCSA con l’art. 14 CEDU, ii giudici inglese sottolinearono come il Derogation

Order non chiedesse la sospensione della validità dell’art. 14 CEDU; di

conseguenza, laddove qualsiasi misura discriminatoria condizionasse una minoranza, non è possibile giustificarla come misura strettamente necessitata dalla situazione.

I giudici inglesi annullarono quindi lo Human Rights Act del 1998 ed emanarono una dichiarazione di incompatibilità dell’art. 23 ATCSA con gli artt. 5 e 14 CEDU, poiché tale art. 23 prevedeva la detenzione di sospetti terroristi internazionali discriminando sulla base della cittadinanza o dello status di immigrato.

Preso atto di questa sentenza, il Parlamento di Westminster intervenne con il Prevention of Terrorism Act del 2005 (PTCA), che emendava la parte V della precedente legge cercando di aderire ai requisiti di proporzionalità e non discriminazione richiesti nella succitata sentenza del “caso A”.

Il PTCA introdusse due tipologie di control orders, distinguendo tra i c.d.

derogating control orders e i non-derogating control orders.

I primi imponevano obblighi al destinatario derogatori rispetto all’art. 5 CEDU, mentre i secondi non implicavano una deroga.

In entrambi i casi doveva esserci un controllo giudiziario, che si esplicava in maniera differente: nel primo caso il giudice doveva accertarsi:

- che ci sia materiale sufficiente a provare il coinvolgimento dell’individuo in attività terroristiche,

- che ci siano ragionevoli motivi per credere che gli obblighi imposti al destinatario del provvedimento siano necessari per la protezione della pubblica sicurezza;

- che il rischio sia associabile con un pericolo pubblico che soddisfi le condizioni per derogare anche in parte all’art. 5 CEDU;

- che gli obblighi imposti al destinatario siano posti in relazione con le finalità cui mira il provvedimento di deroga.

(24)

Nel caso dei non-derogating orders invece il giudice doveva valutare solo se la decisione del Ministro competente ad emanarli fosse “evidentemente viziata”.

Questa fase prevedeva la possibilità per le Corti di modificare eventuali illegittimità del provvedimento.

I parametri che i giudici dovevano verificare nel caso dei derogating orders erano:

- il coinvolgimento diretto o indiretto del destinatario del provvedimento in attività terroristiche;

- la stretta necessità degli obblighi imposti di proteggere il pubblico dal rischio di attacchi terroristici;

- la connessione del rischio terroristico ad un’emergenza pubblica in relazione alla quale sia prevista una deroga all’art. 5 CEDU;

- la descrizione, nel provvedimento, degli obblighi in deroga e della loro relazione con gli scopi del provvedimento medesimo.

In caso di non derogating orders il giudice doveva decidere, sulla base dei principi applicabili al normale judicial review, se una delle decisioni prese dal Ministro degli Interni sul provvedimento fosse viziata.

Il 7 luglio 2005 avvennero degli attacchi terroristici nella città di Londra, a seguito della quale venne approvato il Terrorism Act 2006 (TA 2006), che si prefiggeva di risolvere il problema connesso alla possibilità di trattenere un sospettato, in seguito a convalida giudiziaria, fino a 28 giorni a meri fini investigativi (cioè senza formale incriminazione).

Attualmente la legge in vigore è il Counter Terrorism Act del 2008, che non prevede il dilatamento dei termini di detenzione ma, al contempo, crea una banca dati genetica degli indagati per attività terroristiche.

La procedura è sottoposta ad un codice di condotta composto da una serie di principi guida emanati su consiglio della Camera dei Lord.

(25)

CAPITOLO TERZO

(26)

1. Premessa

Le situazioni emergenziali di cui si parlava nel precedente capitolo portano due conseguenze principali: la prima è il ricorso alle deroghe rispetto agli standard ordinari di tutela dei diritti; la seconda è l’alterazione della distribuzione dei poteri tra gli organi statali.

Per questo, come si diceva, il fenomeno emergenziale trova uno spazio in ogni costituzione democratica.

Laddove tale normazione si riveli lacunosa, se non assente (un esempio è costituito dalla Costituzione italiana, che non prevede una norma del genere), è opinione diffusa che la base giuridica di riferimento per l’adozione di misure straordinarie sia costituita dal principio generale dello stato di necessità24, meno che non sia applicabile una disposizione internazionale riguardante le deroghe negli stati di emergenza.

Come si è già cominciato ad accennare nei capitoli precedenti, i principali trattati internazionali sui diritti umani prevedono una clausola di deroga che disciplini l’esercizio, da parte degli organi statali, del potere di sospensione dei diritti dei consociati.

In questo capitolo si analizzerà l’art. 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che costituisce il modello per tutte le altre disposizioni analoghe.

La Convenzione distingue le restrizioni ad alcuni diritti fondamentali (possibili in caso di pericolo per l’ordine pubblico o per la sicurezza) dalla situazione normata dall’art. 15 la quale, per la gravità eccezionale che la caratterizza, autorizza non solo delle restrizioni ma addirittura delle deroghe alle disposizioni poste a tutela dei diritti fondamentali.

24

CATALDI, Le deroghe ai diritti umani in stato di emergenza, in La tutela internazionale dei diritti umani, cit.

(27)

2. Struttura e ruolo dell’art. 15

L’art. 15 della Convenzione prevede che, in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Stato può adottare misure che deroghino ad alcuni obblighi previsti dalla Convenzione stessa, purché la situazione richieda effettivamente l’adozione dei provvedimenti in questione, che non dovranno comunque essere in contrasto con le altre obbligazioni derivanti dal diritto internazionale.

Il secondo paragrafo dell’art. 15 precisa che non è in ogni caso consentita alcuna deroga all’art. 2 (che tutela il diritto alla vita), nonché agli artt. 3 (proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti), 4 par. 1 (proibizione della schiavitù) e 7 (principio nulla poena sine lege).

Il terzo ed ultimo paragrafo dell’art. 15 prevede un dovere informativo a carico dell’Alta Parte Contraente che decida di adottare le misure derogatorie, il quale sarà tenuto ad informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della natura e della causa dei provvedimenti adottati, nonché della data in cui essi cesseranno di essere in vigore, tornando a lasciare spazio alla piena operatività delle norme convenzionali.

In dottrina vi è stato chi ha ritenuto di basare la natura giuridica di questa disposizione sulla teoria dello stato di necessità25.

C’è tuttavia da precisare, come è stato attentamente sottolineato26

, che se ci si basasse su tale principio, il potere di sciogliersi dai propri impegni in materia di diritti dell’uomo sarebbe concesso agli Stati entro margini più ampi di quelli delineati dall’art.15: il margine delle possibilità di deroghe alla Convenzione risulterebbe indefinito, in assenza della limitazione di cui al paragrafo 2; per non citare il fatto che verrebbe anche a mancare il

25

Tra tutti v. HARTMAN, Derogations from Human Rights Treaties in Public Emergencies, in Harvard International Law Journal, 1981, p. 12.

26

CATALDI, Art. 15. Deroga in caso di stato d’urgenza, in BARTOLE, CONFORTI e RAIMONDI, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e

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meccanismo di controllo da parte degli organi della Convenzione previsto al terzo paragrafo dell’art. 15, concernente l’obbligo di informazione.

Risulta quindi evidente come lo scopo dell’art. 15 sia di evitare che agli Stati basti invocare genericamente lo stato di necessità per sottrarsi ai loro obblighi internazionali ogni qualvolta si trovino in una situazione di “guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”.

Un esempio pratico è costituito dal caso della Grecia.

All’epoca del regime dei colonnelli, il governo greco pretese di avvalersi della deroga per sospendere le garanzie costituzionali adducendo l’esistenza di uno stato d’emergenza.

La Commissione e gli organi dell’ ILO, la prima facendo leva sull’art. 15 della CEDU ed i secondi alla luce del diritto internazionale generale, furono concordi nel ritenere che nel 1967 nessuno stato di emergenza vi era in Grecia che non fosse conseguenza dello stesso comportamento antidemocratico del governo, e dunque il mancato rispetto degli impegni internazionali assunti nell’ambito delle due diverse organizzazioni non potesse trovare una giustificazione normativa.

Al fine di evitare che il potere di sospensione possa essere utilizzato in maniera impropria, magari per minare le fondamenta della democrazia con il pretesto di difenderla contro un presunto pericolo pubblico, occorre che l’art. 15 sia correttamente applicato e che le sue condizioni non siano interpretate estensivamente.

Ma la portata della norma va anche oltre l’intento di evitare la sospensione della Convenzione entro limiti troppo ampi.

Essa tende a far sì che gli Stati non possano invocare il sopravvenire di una situazione di “guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” quale motivo legittimo per ritirarsi dalla Convenzione.

Per citare Cataldi, “è da ritenere che la clausola derogatoria generale costituita dall’art. 15 copra tutto lo spazio operativo della clausola rebus sic

stantibus, rendendo illegittimo un eventuale richiamo a quest’ultima

(29)

inderogabili le clausole istituzionali della convenzione che regolano il meccanismo di controllo che fa capo alla Corte”27

.

Questa disposizione si pone pertanto come una norma chiave del sistema di protezione dei diritti umani istituito dalla Convenzione di Roma.

Per questa ragione essa non può essere oggetto di riserve da parte degli Stati; le riserve finora intervenute sono dunque incompatibili con l’art. 57 della Convenzione, che vieta le riserve di carattere generale.

Ci si riferisce soprattutto alla riserva della Francia, apposta il 3 maggio 1974, all’atto della ratifica della Convenzione, al fine di salvaguardare i poteri eccezionali del Presidente della Repubblica previsti, per le situazioni di emergenza, dall’art. 16 della costituzione del 1958; alla riserva della Turchia, che prevedeva che le circostanze e le condizioni di deroga siano interpretate alla luce della costituzione turca; in questo caso specifico fu la stessa Commissione europea per i diritti dell’uomo ad opporsi alla riserva formulata dal governo di Andorra, ai sensi della quale l’art. 15 andrebbe interpretato nei limiti dell’art. 42 della Costituzione del Principato, norma che consente in termini più ampi di quelli previsti dalla convenzione la sospensione del godimento dei diritti in quest’ultima garantiti.

Sia il Patto internazionali sui diritti civili e politici del 1966, all’art. 4, sia la convenzione interamericana dei diritti umani del 1969, all’art. 27, contengono una disposizione del tutto analoga.

Una clausola idi deroga manca invece nella Carta Africana dei diritti dell’uomo del 1981.

I principi e le regole fatte proprie nell’art. 15 si trovano più di recente, infine, ribaditi nei documenti dell’ OSCE relativi ai diritti umani, in particolare nell’atto finale della Conferenza di Copenaghen del 1990 sulla “Dimensione umana”.

27

CATALDI, La clausola di deroga della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in

(30)

3. Le ipotesi di applicabilità

3.1 La guerra

Le ipotesi di applicabilità dell’art. 15 sono i casi della guerra e del “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”.

Sebbene la lettera della norma possa prestarsi ad essere interpretata nel senso che sia solo il pericolo pubblico a dover costituire una minaccia per la vita della nazione, è stato rilevato28 che le deroghe alla Convenzione siano legittime solo se lo stato di guerra sia tale da minacciare la vita della nazione.

La guerra di cui all’art. 15 è intesa in tutte le sue forme; non solo, quindi, le ostilità precedute da una dichiarazione formale di guerra, ma anche i conflitti che si svolgano senza che alcuna dichiarazione li abbia preceduti o nei quali, addirittura, le parti neghino l’esistenza di uno stato di guerra. Solo in un caso gli organi della Convenzione si sono pronunciati sulla sospensione dei diritti in caso di guerra, affermando che una misura restrittiva della libertà di espressione adottata in tempo di guerra non poteva protrarsi in tempo di pace29.

Nelle ipotesi di applicabilità dell’ art. 15 sono ricomprese pertanto anche le guerre civili: esse potrebbero essere configurate sia come situazione di guerra (e rientrare quindi nella prima condizione prevista dall’art. 15 nel caso in cui si tratti di un conflitto armato di rilievo internazionale), sia come situazione di pericolo pubblico.

Secondo Cataldi30, “qualora la disposizione dell’art. 15 fosse formulata oggi, essa o non menzionerebbe esplicitamente la guerra, in analogia con il testo dell’ art. 4 del Patto (che parla solo di pericolo pubblico

28

GURADZE, Die Europäische Menschenrechts-Konvention, Berlin und Frankfurt a. M. , 1968, pp. 195 ss.

29

Ricorso De Becker c. Belgio, Commissione, rapp.8 gennaio 1960, Serie B., n.2, 1962; Corte, 27 marzo 1962, Serie A, 1962, n. 4.

30 Deroga in caso di stato d’urgenza, in Commentario alla Convenzione europea per la

tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di S. BARTOLE, B. CONFORTI, G.

(31)

eccezionale), oppure sostituirebbe l’espressione conflitto armato a quella di guerra”.

Al caso di guerra di affianca, nella norma di cui si sta parlando, quello di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”, un concetto ben più complesso che abbisognerà di più specifiche riflessioni.

(32)

3.2 Il pericolo pubblico

Il concetto di “pericolo” si presta alle più svariate interpretazioni e definizioni, il che impone necessariamente una sua interpretazione restrittiva alla luce del carattere eccezionale dell’art. 15.

Nel primo caso in cui gli organi della Convenzione si occuparono dell’art. 15, la Commissione in esame ritenne che l’espressione in esame designerebbe una “situazione di pericolo o di crisi eccezionale ed imminente che affligge non certamente gruppi particolari, ma piuttosto l’insieme della popolazione, e che costituisce una minaccia per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato in questione31”.

Questa definizione ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva degli organi di Strasburgo e ha ricevuto anche l’avallo della dottrina32

. Da essa si deduce che un provvedimento di deroga non può avere una finalità preventiva.

Antonopulos33 ha osservato, partendo dalla parola “altro” immediatamente precedente a “pericolo”, che quest’ultimo deve rivestire una eccezionalità ed essere di una gravità pari ad una situazione di guerra.

Il pericolo deve essere, se non attuale, veramente imminente e concreto, ed essere tale da minacciare l’insieme della popolazione.

Ciò viene evidenziato perché, nell’ipotesi in cui invece non sia la totalità della popolazione ad essere interessata dalla minaccia, ma magari una porzione territoriale, essa e solo essa dovrà essere oggetto del provvedimento, in maniera circoscritta.

Nel caso Sakik e altri c. Turchia34 la Corte, all’unanimità, considerò la deroga alla quale il Governo resistente faceva riferimento inapplicabile

31

Commissione, Rapp. 19 dicembre 1959, Lawless c. Irlanda, Serie B, n. 1, p.90; la sentenza della Corte confermò questa impostazione: Corte, 1 luglio 1961, Lawless c. Irlanda, Serie A, n. 3.

32

ERGEC, Le droits de l’homme à l’epreuve des circostances exceptionelles, Bruxelles,

1987, p. 170; ORAA, Human Rights in States of Emergency in International Law, Oxford, 1992, pp. 27 ss.

33

La jurisprudence des organes de la Convention Européenne des droits de l’homme, Leyden, 1967.

(33)

ratione loci ai fatti in causa, poiché l’arresto e la detenzione dei ricorrenti

era avvenuto ad Ankara e non nelle province in cui era stato dichiarato lo stato di emergenza.

Nel caso Brannigan e Mc Bride c. Regno Unito35, sentenza 26 maggio

1993, Serie A, n. 258-B, il giudice Walsh ritenne che la situazione dell’ordine pubblico in Irlanda del Nord non poteva essere ritenuta una minaccia alla vita dell’intero Regno Unito ma solo di quella specifica regione.

C’è da dire che però la maggioranza della Corte decise in senso contrario36.

Il fatto poi che l’art. 15 parli di “altro” pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, lascia intendere che esso debba essere eccezionale e grave al pari di una situazione di guerra37.

34

Corte, 26 novembre 1997, in Raccolta, 1997-VII, p. 2609.

35

Sentenza 26 maggio 1993, Serie A., n. 258-B.

36

Per maggiori approfondimenti v. CRYSLER, Brannigan and Mc Bride v. U.K.: A new Direction on Article 15 Derogations under the European Convention on Human Rights?, in RBDI, 1994, pp. 603 ss.

37

ANTONOPULOS, La jurispredence des organes de la convention européenne des

(34)

3.3 Le possibili origini del pericolo

L’art. 15 non pone condizioni in merito alla causa o l’origine del pericolo pubblico che giustifichi la deroga.

Il fatto che statisticamente le deroghe ai diritti fondamentali siano state richieste e adottate per far fronte essenzialmente a fenomeni di matrice terroristica, non esclude che sarebbe ammissibile l’adozione di misure eccezionali anche in seguito, ad esempio, di una calamità naturale o di una grave crisi economica.

Ipotesi che ora non sarebbe da escludere aprioristicamente (in considerazione dell’adesione alla Convenzione di molti Paesi la cui economia non è ancora del tutto solida), ma che quando fu redatta la Convenzione non era stata apertamente presa in considerazione: non dobbiamo infatti dimenticare che la disposizione dell’art. 15 è stata prevista per Stati che godono di un clima sociale, economico e politico piuttosto stabile, in cui quindi le situazioni di emergenza si presentano come residuali.

Ci sono tuttavia dei Paesi parte della Convenzione in cui l’emergenza non costituisce un’eccezione, ma un elemento a dir poco costante: ciò ha portato, e porta tuttora, sia ad un abnorme ricorso alla clausola di deroga che alla sua completa inutilizzazione.

Nella prima ipotesi ripetute notifiche ex art. 15 CEDU comportano la sospensione di efficacia della Convenzione per periodi anche piuttosto lunghi.

Nel 1985, in particolare, cinque Stati (Francia, Norvegia, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi) presentarono un ricorso alla Commissione contro la Turchia per il continuo utilizzo della clausola di deroga (all’epoca la frequenza arrivava ad essere mensile). La questione fu poi risolta con un regolamento amichevole38.

38

(35)

4. Le condizioni di ordine procedurale

Il paragrafo 3 dell’art. 15 obbliga gli Stati contraenti a tenere pienamente informato il Segretario Generale del Consiglio d’Europa non solo delle misure che essi abbiano adottato e dei motivi per cui lo abbiano fatto, ma anche della data in cui le stesse avranno cessato di essere in vigore tornando a lasciare posto alle norme convenzionali.

Tale sistema procedurale è ovviamente configurato a fini garantistici, di modo che la situazione sia quanto più monitorabile possibile da parte degli organi della Convenzione ed, altresì, gli altri Stati contraenti.

Per quanto riguarda più specificamente la portata degli obblighi procedurali, si comincerà con l’esporre quanto previsto in materia di comunicazione al Segretario Generale: essa non deve rivestire alcuna forma specifica, purché contenga tutte le informazioni necessarie a garantire il monitoraggio, cui si è appena fatto cenno, a livello internazionale39.

Per quanto in passato la Commissione40 avesse ventilato la possibilità di omettere la comunicazione in situazioni di conflitto armato già note agli Stati parte, si è ritenuto comunque, in ultima analisi, che la comunicazione della deroga sia un requisito fondamentale, alla luce dell’impossibilità di ricavare, all’interno dell’art. 15, una gerarchia tra le situazioni eccezionali tale da poter giustificare una omissione delle formalità previste: la definitiva conferma è arrivata con la sentenza del caso Brogan, del 29 novembre 1988, quando la Corte escluse categoricamente un’applicazione implicita dell’art. 15, basando la sua decisione sulla circostanza che il Regno Unito aveva ritirato la deroga prima dei fatti di causa.

39

La Commissione e la Corte ebbero modo di chiarirlo nel già citato caso Lawless c.

Irlanda.

40

Nello specifico la proposta fu avanzata dai Commissari Sperduti e Trechsel nonché dal Governo turco nel caso Cipro c. Turchia, senza trovare riscontro. Per approfondimenti v. COHEN-JONATHAN e JACQUÉ, Activité de la Commission européenne des droits de

(36)

Ciò che invece è da ritenersi implicito è l’esigenza che sia la comunicazione di deroga, sia quelle riguardanti le vicende a qualsiasi titolo modificative o estintive della situazione di emergenza, siano quanto più celeri possibile.

Ovviamente l’adeguatezza o meno di tali tempistiche è ricavabile solo giurisprudenzialmente: ad esempio nel caso Lawless i dodici giorni di intervallo tra l’adozione delle misure di deroga e la notifica furono ritenuti adeguati; ciò che invece non accadde per il c.d. “caso greco”, dove i quattro mesi di intervallo furono giudicati eccessivi dalla Commissione41. Sebbene in questo paragrafo si sia segnalata l’imprescindibilità della comunicazione al Segretario Generale, il par. 3 dell’art. 15 nessun cenno fa alle conseguenze di una sua mancanza.

Ancora una volta esse sono però deducibili dal sistema: poiché se manca la notifica manca anche il diritto di avvalersi della facoltà di deroga, un’omessa comunicazione provocherà la responsabilità dello Stato colpevole nei confronti della Convenzione e degli altri Paesi parte della stessa.

41

(37)

5. I singoli casi di deroga alla Convenzione

L’uso che si è fatto finora del potere di deroga da parte degli Stati Contraenti può dirsi moderato in fin dei conti.

La Francia dal gennaio al giugno 1985 ha comunicato l’instaurazione dell’état d’urgence nel territorio della Nuova Caledonia: si tratta dell’unico caso in merito al quale la Corte Europea non ha avuto modo di pronunciarsi.

La Turchia ha presentato periodicamente richieste di deroga con riferimento alle misure adottate contro i separatisti curdi, dando un gran da fare alla Corte di Strasburgo.

La Grecia dopo l’instaurazione militare dello stato di eccezione nel 1967 da parte del regime dei colonnelli tentò di legittimarlo con la presentazione tardiva della dichiarazione ex art. 15 CEDU, ma il tentativo fu rigettato. L’Irlanda comunicò nel 1976 (18 ottobre) l’approvazione di un Emergency

Powers Act che avrebbe potuto comportare l’applicazione di norme in

deroga alla CEDU, ma il 20 ottobre 1977 ritirò la denuncia ex art. 15 CEDU perché il suo governo ritenne che le misure concretamente adottabili in virtù di quella legge non avrebbero comunque superato i limiti consentiti alla legge nazionale in via ordinaria dalle altre norme della Convenzione stessa.

Il Regno Unito in molte occasioni ha presentato dettagliate comunicazioni in merito all’applicazione di deroghe ex art. 15, con riferimento alla legislazione antiterrorismo in Irlanda del Nord.

Proprio rifacendosi all’art. 15 CEDU, l’art. 1, comma 2 dello Human Rights

Act del 1998 prevede che i diritti previsti dalla Convenzione siano soggetti

a designated derogations, e cioè che deroghe alle norme della Convenzionepossano essere poste da un’ordinanza del Segretario di Stato che ne decreti la necessità e l’urgenza.

Dopo i fatti del settembre 2001 il Regno Unito fu il solo ad avvalersi della facoltà di denunciare la deroga ai sensi dell’art. 15 con riferimento alla

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estensione dei termini e condizioni di arresto e di detenzione degli stranieri sospettati di atti di terrorismo in applicazione dell’ Anti-Terrorism, Crime

and Security Act 2001, ma il 16 marzo 2005 la dichiarazione di deroga è

stata ritirata perché due giorni prima quelle disposizione legislative hanno cessato la loro applicazione che fin dall’origine era stata qualificata dalla legge come temporanea.

L’art. 15 della Convenzione è poi servito da modello agli strumenti convenzionali in materia di diritti umani entrati in vigore successivamente.

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6. I limiti rispetto alla possibilità di applicare restrizioni ai diritti garantiti dalla CEDU

Si ritiene, per pure ragioni di completezza, l’art. 18 CEDU, per la sua funzione, come si vedrà, di norma di chiusura.

L’art. 18 stabilisce che “Le restrizioni che, in base alla presente

Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste”.

La previsione di cui all’art. 18 ha, secondo la pressoché unanime dottrina42 nonché alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, un carattere supplementare, non autonomo.

Esso infatti non è in grado, da solo, di proteggere diritto o libertà, ma rinvia alle restrizioni apportate a diritti o libertà definiti in altre apposite disposizioni convenzionali.

Non per questo risulta avere un carattere meno incisivo, vista la sua intrinseca potenzialità di modificare, o aiutare ad interpretare, le disposizioni convenzionali invece mirate alla tutela dei vari diritti.

L’art. 18 si configura quindi come norma di chiusura, che completa il sistema dei diritti e delle libertà (più che contribuire a costituirlo); inoltre dovrebbe avere, a detta di alcuni autori43, una funzione normogenetica, introducendo, nella disciplina delle libertà e dei diritti, ulteriori regole che non traggano altrove il proprio fondamento

42

Cfr. GOMIEN, HARRIS, ZWAAK, Law and practice of the European Convention on

human rights and the European social charter, Strasburgo, 1996.

43

Cfr. BARTOLE, Principi generali del diritto (diritto costituzionale), in Enciclopedia del

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CAPITOLO QUARTO

Il controllo operato dalla Corte di Strasburgo sulle misure

di deroga

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1. Premessa

La Corte europea è diventata fondamentale per assicurare il rispetto dei diritti umani da parte dei membri del Consiglio d’Europa.

Prova ne è l’aumento vertiginoso dei ricorsi, che al contempo è causa di problemi di gestione, cui si è cercato di porre rimedio con i correttivi previsti dagli ultimi tre Protocolli alla Convenzione (il n. 14 nel 2004, il 15 ed il 16 negli ultimi mesi di quest’anno; v. infra, pag. 55).

Il ruolo della Corte non è solo quello di garante del rispetto dei diritti umani a livello europeo, ma anche di creare uniformità tra il diritto dei vari Paesi europei, un nucleo comune nonostante le diversità storiche, politiche ed economiche che inevitabilmente li separano.

La Convenzione statuisce, all’art. 46 comma 1, che le sentenze della Corte obbligano lo Stato condannato ad “osservare la sentenza”.

In più, se il diritto interno dello Stato interessato “consente solo una parziale riparazione la Corte, se necessario, accorda un’equa soddisfazione alla parte lesa”: il compito di verificare che la sentenza sia effettivamente eseguita è affidato, ai sensi del secondo comma dell’art. 46 CEDU, al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

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2. Il sistema di controllo convenzionale

2.1 Il principio della doppia protezione

Il sistema di garanzia della CEDU è fondato sul principio della doppia protezione.

La previsione sostanziale dei diritti non si sostituisce, ma si aggiunge, al sistema di protezione già fornita dagli Stati, che possono quindi integrarla. Il controllo internazionale ha funzione sussidiaria: è infatti agli Stati che, in prima istanza, sono demandate la prevenzione e la repressione delle violazioni dei diritti, nonché la predisposizione del sistema risarcitorio conseguente alle violazioni medesime.

L’art. 13 CEDU riconosce il diritto, per qualunque persona che abbia subito una violazione di un proprio diritto o libertà, di fare ricorso di fronte ad un’autorità nazionale44

, e ciò anche nel caso in cui a commettere la violazione siano state persone esercenti funzioni ufficiali: la qual cosa implica, a contrario, che lo Stato debba prevedere rimedi effettivi anche di fronte a violazioni commesse da persone che non ricoprono alcuna funzione ufficiale45.

Perché il ricorso sia effettivo è necessario che l’autorità investita di esso assicuri le garanzie di indipendenza ed imparzialità, e che sia in grado di produrre effetti sospensivi della violazione o, nel caso in cui sia troppo tardi per intervenire in tal senso, risarcire in maniera adeguata la vittima. I ricorsi al giudice (o istanza) nazionale di cui si parlava al precedente paragrafo potrebbero non risultare efficienti per l’individuo che assuma una violazione di un proprio diritto: è solo in questo caso che gli strumenti internazionali di garanzia predisposti dalla Convenzione (i quali hanno, per l’appunto, natura sussidiaria) trovano spazio e applicazione.

44

Si noti, non necessariamente davanti ad un giudice: il ricorso davanti al giudice è invece espressamente previsto dagli artt. 5.3, 5.4 e 6.1 CEDU.

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PEDRAZZI, La Convenzione europea sui diritti umani e il suo sistema di controllo, in La

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