Alle amiche che mi hanno sostenuto: Chiara, Ilaria & Roberta, a tutti i colleghi e ai ragazzi dello Sprar
INTRODUZIONE
1. Teorie sulla migrazione 2. Il problema dell’identità
2.1 La costruzione dell'identità nell'interazione sociale
2.2 Popoli in cammino, la difficile distinzione tra migranti economici e rifugiati. 3. Politiche migratorie e definizioni.
3.1 Modelli d’inclusione
4. La legislazione in materia: internazionale, europea e nazionale. 4.1 La situazione italiana e la Protezione Internazionale
a. Il Sistema di Accoglienza in Italia
Da Paese di emigranti a paese d’asilo: dai boat people vietnamiti agli sbarchi di Lampedusa, passando per la crisi albanese e kossovara, la guerra nei Balcani e in Somalia
5. SPRAR: Servizio per Rifugiati e Richiedenti Asilo.
6. Il metodo di ricerca utilizzato: prospettive teoriche e tecniche dell’interazionismo simbolico e della Grounded Theory.
7. Caso Studio: SPRAR INVICTUS Pesaro. Documenti umani. Il campione e le storie di vita.
INTRODUZIONE
Chi è veramente l’”altro” da noi? La definizione “l’altro”, “gli altri” può venire intesa in vari modi e usata nei più svariati significati: ad esempio per indicare una diversità di sesso, generazione, nazionalità, religione e via dicendo. Erodoto, storico greco vissuto duemilacinquecento anni fa, fu il primo a parlare degli altri nelle Grandi Storie senza disprezzo né odio: “Cerca solo di conoscerli e di capirli, consapevole com’è che per conoscere se stessi bisogna conoscere gli altri….. gli altri sono lo specchio nel quale veniamo riflessi.”1 La xenofobia non è altro che la malattia della gente spaventata, afflitta dai complessi d’inferiorità e dalla paura di vedersi riflessa nella cultura altrui.2
Da quando continuano ad arrivare barconi carichi di persone che chiedono asilo, i Paesi europei hanno cominciato a porsi una serie d’interrogativi.
Come accogliere, sfamare, dare lavoro e integrare tutte queste persone? Come gestire la diversità di culture e competenze che stanno arrivando, spinte dalle guerre in Siria, nel Corno d’Africa, nei paesi dell’Africa Subsahariana e del Medio Oriente?
Multiculturale, in realtà, il nostro pianeta lo è sempre stato. Da tempi immemorabili la gente vi ha sempre parlato lingue diverse e ha creduto in divinità differenti ma, finora la cultura e la civiltà dominante era quella europea, o occidentale. Quando dicevamo “noi” intendevamo “noi tutti” ma in realtà si trattava solo di “noi europei.” Oggi questa equazione è messa duramente in discussione dalle trasformazioni storiche in atto. Per effetto di tali trasformazioni altre e numerose culture, finora sottomesse ed emarginate, pretendono di sedersi con uguali diritti alla tavola rotonda del mondo.
1 L’altro, Ryszard Kapuscinski, Feltrinelli 2006, Milano, pag. 14 2 Ibidem
Nel 2014 più di 170 mila migranti hanno raggiunto l’Italia attraverso il Mar Mediterraneo. Secondo il rapporto della Fondazione Migrantes nel 2015 sono arrivati più di 33 mila persone, il 15 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’Unione Europea sta cercando di introdurre un nuovo sistema di quote per distribuire i richiedenti asilo tra i suoi diversi Stati in base a fattori come il tasso di disoccupazione e il PIL. Ma molti paesi si oppongono e non si riesce a trovare una soluzione condivisa. Nel mezzo delle discussioni politiche ci sono i “migranti”, persone disposte a tutto pur di scavalcare quel muro per entrare nella fortezza Europa. Nel mezzo vi sono anche l’Italia e la Grecia, i due paesi che risentono maggiormente degli sbarchi e che finora sono state lasciate sole ad affrontare il problema col rischio di collassare. Ed è sempre qui che si riflette sul significato dell’”accoglienza”. L’Italia segnata da una forte crisi socio-economica da cui fatica a rialzarsi cerca ugualmente di sostenere chi ha bisogno di aiuto. Tutto ciò però provoca tensioni sociali, stereotipi, pregiudizi, etichette e diviene strumento di manipolazione politica in vista delle imminenti elezioni da una parte e dall’altra.
Nei vari reportage realizzati da giornalisti italiani e stranieri, si racconta di come lungo la frontiera europea s’innalzino muri sempre più alti, si chiudano i mari e si costruiscano spazi blindati. “Al confine tra la Turchia e la Bulgaria, tra il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla, nella francese Calais, da dove i migranti cercano di raggiungere il Regno Unito, in mezzo al mar Mediterraneo (l’eterno contenzioso con Malta, prima Mare Nostrum ora Triton) e all’aeroporto di Fiumicino, la frontiera somiglia al fronte di una guerra che l’Unione Europea combatte con strumenti ultratecnologici: sensori, telecamere termiche e droni. Ogni mezzo serve a impedire l’accesso degli intrusi, definiti irregolari. E, come ogni Guerra, anche questa ha le sue vittime: secondo
la stima dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel 2014 ci sono stati 3.419 morti sepolti in fondo al “nostro” mare.”3
Questo lavoro ha l’obiettivo di fermarsi a riflettere sui reali significati dell’accoglienza, da ambo le parti, chi viene accolto e chi accoglie per superare le immagini stereotipate e quindi realizzare un nuovo sistema in grado di rispondere ai bisogni di entrambi i” fronti” garantendo i diritti di ciascuno.
Fonte: Internazionale on line.
1. Teorie sulla migrazione
La migrazione internazionale non è mai frutto di una semplice azione isolata, per cui una persona decide di spostarsi alla ricerca di migliori opportunità, sradica le sue radici dalla regione d’origine per essere assimilato in fretta nel nuovo paese. Molto più spesso la migrazione, e il successivo radicamento, è un processo che si protrae per molto tempo e che sarà portato avanti per il resto della vita dell’emigrato incidendo sulle successive generazioni. La migrazione è dunque un “atto collettivo” che scaturisce dal cambiamento sociale e che si ripercuote sull’intera società, sia quella del paese d’origine sia quella d’accoglienza. “Il concetto di processo migratorio riassume tutta quella serie di fattori e d’interazioni complesse che concorrono alla migrazione internazionale e ne influenzano l’andamento.”4 La migrazione è un processo che coinvolge l’esistenza sociale su ogni livello e che si sviluppa secondo dinamiche proprie.
L’esperienza migratoria e la vita in una nazione straniera portano spesso a modificare i piani iniziali, per cui le intenzioni dei migranti al momento della partenza sono deboli rispetto al comportamento effettivo.5 Finora nessun governo si è veramente cimentato nell’impresa di costruire una società diversa, dal punto di vista etnico, sperando sempre che la migrazione sia solo “temporanea”, giusto il tempo per guadagnare un po’ di denaro e rientrare “vittoriosi” nel paese di origine. Al contrario, ci dobbiamo rendere conto che oggi le migrazioni sono un fenomeno strutturale che sta modificando completamente la nostra società.
La grande maggioranza della popolazione mondiale non partecipa ai processi di migrazione internazionale, però ogni comunità con i suoi stili di vita è da essi trasformata.
4 Ibidem
Entrando nello specifico delle teorie sulla migrazione possiamo notare come, durante il corso del novecento si è passati da una teoria puramente economica, quella neoclassica, che focalizzava l’attenzione solo sulla spinta economica delle migrazioni (teoria push-pull) a quelle che invece cercano di “gettare le basi per un dialogo tra le scienze sociali”.6 La teoria neoclassica affondava le sue radici nelle teorie sistematiche dell’ottocento e sosteneva che le persone tendono a spostarsi da zone a basso reddito a zone ad alto reddito, attraverso una valutazione ben ponderata di rischi e benefici, ossia fattori di espulsione (push- che spingono le persone a lasciare il loro paese) e fattori d’attrazione (pull – che richiamano i migranti in un determinato paese). Tra i primi troviamo crescita demografica, misere condizioni di vita, mancanza di opportunità economiche e repressione politica; mentre i secondi includono domanda di manodopera, disponibilità di terreno, buone opportunità economiche e libertà politica. Nonostante sia ancora molto utilizzato, soprattutto dagli economisti, si tratta di un modello individualistico e antistorico, che da importanza solo alla decisione individuale di migrare, basata su un’analisi sistemica dei costi/ benefici relativi al rimanere a casa o allo spostarsi. La teoria neoclassica presume che i migranti potenziali conoscano alla perfezione l’andamento dei salari e le opportunità d’impiego nelle regioni di destinazione e che se lasciato libero, il mercato del lavoro autoregolerà l’intero processo. Il concetto principale su cui si basa è quello di “capitale umano”: le persone investono nell’immigrazione allo stesso modo di come potrebbero investire nell’istruzione o nella formazione professionale.”7 Il presupposto è quindi che l’attore individuale sia in grade di compiere scelte razionali sulla base di una gerarchia di preferenze, basando le sue scelte su calcoli razionali di massimizzazione dell’utilità,
6 Ibidem 7 Ibidem
ossia sul confronto tra la situazione in cui si trova e il guadagno atteso del trasferimento.8
Con la Nuova economia del mercato del lavoro e in seguito con la teoria dei Sistemi e delle Reti migratorie, o teorie dei network, emerge che le decisioni migratorie non sono prese da individui isolati ma da nuclei familiari o persino da intere comunità. I network migratori sono definiti come “complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine”.9 Il principio di base dei sistemi migratori è che ciascun movimento di migranti può essere conseguenza di micro e macrostrutture che interagiscono tra di loro. Le macrostrutture fanno riferimento a fattori istituzionali su vasta scala, mentre le microstrutture comprendono reti, usanze e credenze degli stessi migranti. Questi due livelli sono messi in relazione da numerosi meccanismi intermedi, conosciuti col nome di “mesostrutture” (individui, gruppi o istituzioni si assumono la responsabilità di fare da mediatori tra i migranti e le istituzioni politico-economiche creando una vera e propria “industria della migrazione”). L’accento viene messo sul capitale culturale (informazioni, conoscenza di altri paesi, capacità di organizzazione del viaggio, ricerca del lavoro e adattamento a un nuovo ambiente), il quale influenza la decisione di partire. Le reti informali sono risorse essenziali per individui e gruppi, come capitale sociale, che comprende i rapporti personali, i modelli familiari e abitativi, i legami tra amici e all’interno della comunità, oltre al sostegno in materia economica e sociale. Di conseguenza la famiglia e la comunità hanno un ruolo determinante nella decisione di partire come dimostrano le interviste realizzate. Le scelte migratorie sono considerate non più come decisioni individuali, bensì come opzioni familiari, orientate non soltanto alla massimizzazione dei redditi bensì alla
8 Sociologia delle migrazioni, M.Ambrosini, Il MUlino, 2005 9 Ibidem
diversificazione dei rischi.10 Di fondamentale importanza è il “mandato familiare”: spesso è la famiglia che sceglie tra i suoi membri colui che si dovrà “sacrificare” per il bene comune, intraprendendo il viaggio verso l’Occidente per garantire una vita migliore a tutta la famiglia. Macro, meso e micro s’intrecciano nel processo migratorio senza un confine netto.
Infine, nell’ultima decade del novecento è nato un nuovo corpo di teorie sul transnazionalismo e le comunità transnazionali, anticamente definito “diaspora”. Questo concetto risale all’antica Grecia e significa “dispersione”, riferendosi alla prassi di colonizzazione delle città-stato greche. Il termine diaspora è spesso usato per descrivere l’allontanamento o la dispersione forzata di persone (ad esempio gli Ebrei, gli Armeni … etc). Molti ricercatori sostengono che la causa principale della rapida diffusione delle comunità transazionali sia la globalizzazione. Una delle caratteristiche della globalizzazione è, infatti, il rapido miglioramento delle tecnologie nel campo dei trasporti e soprattutto delle comunicazioni, cosa che rende sempre più facile per i migrati rimanere a stretto contatto col proprio paese d’origine. Queste teorie pongono tutte l’accento sulla necessità di capire che la migrazione è uno degli elementi che formano rapporti molto più ampi tra le società. La globalizzazione non ha a che fare solo con l’economia, il libero e veloce spostamento di merci e capitali, ma è anche un processo politico concepito in termini normativi e ideologici che va a influire sul sistema-mondo. Come sostiene Bauman “la mobilità è diventata il più potente e il più ambito elemento di stratificazione”. Oltre alle merci anche le persone si muovono liberamente oltre i confini e questo diritto dovrebbe essere garantito a ogni essere umano. Ciò ovviamente implica un cambiamento profondo dell’organizzazione della società “accogliente” che deve essere pronta e preparata per “accogliere” e “integrare” persone provenienti da differenti paesi. I migranti affrontano molte avversità per fuggire
dalla povertà, dalla disperazione, da persecuzioni politiche, etniche o religiose ma preferiscono rischiare la vita piuttosto che restare nel paese di origine. Spesso però le condizioni di accoglienza che trovano nel paese di arrivo non rispondono alle loro aspettative soprattutto per quello che riguarda le condizioni lavorative e abitative. I sostenitori delle politiche basate sulla paura, sul conflitto fra due mondi, Occidente e Oriente, sostengono e promuovono politiche basate sul controllo, sulla separazione, perché sostengono che “Noi” e “Loro” siamo troppo diversi. La sfida invece è riuscire a dialogare sulla base di significati comuni e condivisi, riconoscendosi reciprocamente come soggetti di uguali diritti.
2. Identità e riconoscimento
Società complesse, globalizzate, plurali, sono alcuni dei termini che oggi si adottano per spiegare una realtà e un ordine sociale continuamente in ridefinizione. E’ con l’avvio della modernizzazione che le società occidentali iniziano un intenso sviluppo economico-produttivo e politico-culturale: da società feudali a industriali, da industriali a post-industriali. Le parti di un sistema sociale acquisiscono gradatamente identità distinte rispetto alla funzione, all'attività, alla cultura, al potere e alle altre caratteristiche socialmente significative e rilevanti (Gorge Simmel, 1982). Si rompe il modello societario del passato e si avvia una lunga fase di mutamento: l’idea di un ordine sociale precostituito e immutabile si spezza definitivamente e diviene sempre più difficile definire una cultura comune fatta di valori, idee e norme altamente condivise. La realtà diviene complessa perché più ricca di opportunità, di alternative, di compiti e di ruoli. Questo dinamismo va a incidere sia sugli individui sia sulle loro scelte. 11
Essere moderni dunque indica l’attitudine a vivere in un ambiente societario in cui c’è una forte “spinta sociale all’individualizzazione” che comporta la difficoltà oggettiva di dovere continuamente scegliere tra diverse opzioni d’identificazione all’interno di differenti aggregati sociali e culturali: si è più autonomi ma insieme anche meno protetti.
I vincoli tradizionali lasciano il posto alle agenzie e alle istituzioni secondarie che plasmano l’individuo rendendolo sempre più dipendente dalla moda, dalle relazioni sociali, dalle congiunture economiche e dai mercati. Viene così esplicitata una contraddizione tipica della società post-moderna: “più cresce il bisogno di identificarsi
con dei valori e di riconoscersi in un gruppo di appartenenza, più il singolo viene enfatizzato e diventano difficili tali meccanismi di riconoscimento.”12 Il lungo processo di modernizzazione delle società occidentali si è quindi caratterizzato per una crescita sempre più rilevante delle differenze e delle alternative di ruolo e l’avvento delle migrazioni, insieme alla scoperta della dimensione globale delle società, non hanno fatto altro che rendere tale dato come evidente.
All’interno di questi profondi cambiamenti si evolve anche il concetto d’identità, il quale viene affrontato da diversi approcci teorici tra cui i più rilevanti riguardano, lo struttural-funzionalismo di Talcott Parsons, l’interazionismo simbolico di Blumer e altri contributi di orientamenti diversi tra cui Habermas, Giddens, Taylor e Touraine. Il primo attribuisce all’identità una funzione determinante ai fini dell’integrazione nel “sistema sociale” in cui l’individuo nasce e cresce, poiché essa garantisce mantenimento e stabilità. Il secondo, che poi è quello che a noi interessa maggiormente nel lavoro di ricerca, sostiene che l’identità si costruisce nell’interazione con gli altri. Attraverso di essa si produce un processo di comunicazione simbolica che influenza la capacità di guardare a se stessi sia dal punto di vista dell'altro che dal punto di vista del sé. Essa non è più finita e stabile ma rappresenta un esito sempre incompiuto in cui conta sia il processo d’interiorizzazione delle norme e dei valori ma anche quello di costruzione simbolica collettiva dei mondi cognitivi di riferimento. Secondo gli interazionisti il processo di costruzione dell’identità da parte dell'attore non può essere che sociale; questa, infatti, si trasforma e assume forme molteplici all'interno dei quotidiani contesti d’interazione. Si tratta di una formazione, trasformazione e manipolazione continua. E’ nel riconoscimento di questa complessità e vulnerabilità che risiede, a mio avviso, il grande contributo dato dall’interazionismo simbolico per una nuova lettura dell’identità.
La nostra società, caratterizzata da un pluralismo culturale sempre più crescente, è costretta a interrogarsi sul rapporto tra il singolo e la comunità di appartenenza, sul mutuo riconoscimento e la condivisione di un determinato patrimonio simbolico-culturale, sulla varietà di ruoli che ciascuno può svolgere rispetto alla posizione dominante.
La terza prospettiva, infine, pensa alla formazione dell’identità come a un processo orientato sulla base di significati costruiti soggettivamente e che si compie all’interno di relazioni significative.
Sommando e confrontando le diverse prospettive, possiamo concludere che l’identità si formerebbe grazie alle possibili combinazioni tra la dimensione del Noi e quella dell’Io. Appare chiaro come tale concetto sia strettamente collegato a quello di complessità, soprattutto nelle società post-moderne, caratterizzate da una globalizzazione che non è solo spostamento di merci ma soprattutto di persone “diverse”. Ogni giorni queste persone s’incontrano, si scontrano, dialogano, confliggono, ri-costruendo ogni volta il proprio Io/Me. Nelle società occidentali contemporanee l'identità allora si pone sia come problema sia come compito: nata dalla crisi dei sistemi di appartenenza e d'inclusione essa diviene qualcosa che è necessario costruire tra opzioni alternative al fine di rispondere alla domanda: "chi sono io?". L'identità diventa un compito ancora non realizzato. Gli individui, persi i loro riferimenti, gli ancoraggi sociali tipici del modello dello Stato-Nazione, cercano un "noi" in cui entrare e di cui fare parte ed è sulla spinta di questa esigenza che si forma oggi una nuova gerarchia globale. Alcuni, i più fortunati, possono comporre e decomporre le loro identità a piacimento attingendo dalle immense offerte del pianeta mentre altri, che devono subire imposizioni e condizionamenti, non possono decidere le proprie preferenze e a volte è negato loro addirittura il diritto di
rivendicare un'identità distinta.13
2.1 La costruzione dell'identità nell'interazione sociale
La sociologia moderna (da Durkeim, Weber, Simmel) nel fondare una teoria dell'ordine sociale si è interrogata spesso sul dualismo individuo-società, dualismo che nel tempo poi diversi autori, tra cui gli interazionisti simbolici, hanno cercato di risolvere e di "mediare" ricorrendo al concetto appunto d’identità. Per questi studiosi diviene sempre più rilevante comprendere come sia possibile per gli individui costruire meccanismi di riconoscimento, forme di appartenenza di gruppo o di comunità a seguito dell'avvio e dello sviluppo di una prolungata differenziazione societaria che rompe definitivamente l'idea di un ordine sociale immutabile e prestabilito. Tale nuovo dinamismo, come si è avuto modo di specificare, va a incidere non solo sul sistema (moltiplicazione dei ruoli sociali) ma anche sugli individui e sulle loro scelte: appare sempre più complicato trovare una strategia chiara nell’agire, basata su un orientamento ben definito di fronte a "mondi" spesso in conflitto. Su quest’aspetto problematico, l'aumento della complessità sociale a livello di sistema (analisi macro) e quello a livello di scelta dell'attore sociale (analisi micro) s’interrogano diversi autori. George Simmel ad esempio pone il problema nei termini di "doppia contingenza" (esistere per sè e per l'altro) mentre Talcott Parsons crede in un'azione orientata normativamente e influenzata da una sovrastruttura che ha il compito di rimuovere i conflitti (modello integrazionista). Tra i sociologi più contemporanei possiamo invece ricordare Ulrick Beck per il quale essere moderni indica l’attitudine a vivere in un contesto societario con una forte “spinta sociale all’individualizzazione”.
Al contrario l'interazionismo simbolico ha avuto il merito di sollevare un nuovo
interesse dentro la sociologia per i processi di formazione dell'identità individuale e collettiva nel corso dell'interazione. E' così che i processi sociali interazionali diventano ambiti specifici di ricerca, sia teorica sia empirica. Gli interazionisti sostengono che il processo di costruzione dell’identità da parte dell'attore non può essere che sociale; questa, infatti, si trasforma e assume forme molteplici all'interno dei quotidiani contesti d’interazione. Si tratta di una formazione, trasformazione e manipolazione continua.
E' in questo riconoscimento della complessità, dell'instabilità che risiede il contributo più interessante, in chiave contemporanea, che questo filone teorico fornisce alla lettura del dualismo indiviudo-società. La multiculturalità, o pluralismo culturale, è la condizione che caratterizza la nostra società: una molteplicità di culture che coesistono all'interno di una comune collettività nazionale e che continuano ad avere un ampio sviluppo a seguito dei processi migratori e della globalizzazione. Diviene perciò sempre più importante interrogarsi sul rapporto tra il singolo e la collettività di appartenenza, sul riconoscimento e la condivisione di un determinato patrimonio simbolico-culturale, sulla varietà di ruoli che ciascuno può svolgere rispetto alla posizione sociale dominante. Acquista particolare rilevanza il paradigma della comunicazione, indispensabile per comprendere il cammino intrapreso da discipline come la fenomenologia e l'interazionismo simbolico. La comunicazione diviene una nuova e fondamentale dimensione attraverso la quale conoscere i processi sociali, ponendo al centro dell'interesse conoscitivo la capacità di negoziare, di mediare, dell'individuo all'interno di ambiti relazionali ad alta variabilità culturale.
George Herbert Mead, con la sua teoria del Sé nei processi socio-psicologici ha apportato un grande contributo all’evoluzione delle teorie sociologiche sull’Identità.
Partendo dalla definizione di Tajfel, secondo cui “l’identità sociale è quella parte dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale (o più gruppi), unita al valore e al significato emotivo attribuito a tale appartenenza”14, Mead estende queste argomentazioni elaborando un modello esplicativo dello sviluppo umano. Il Sé, cioè l'unità della persona, è la sintesi tra l'Io, concetto che sottende la dimensione coscienziale individuale, e il Me che rappresenta invece l'interiorizzazione delle aspettative degli altri: è così che di fronte a persone diverse vengono sviluppati tanti "me".
Secondo Mead il sé non esiste alla nascita poiché per il suo emergere sono necessarie due condizioni: la capacità di produrre e rispondere a simboli e la capacità di assumere gli atteggiamenti degli altri. La capacità di sviluppare ulteriormente un sé dipende dall’acquisizione del significato proprio dei contenuti e dall’organizzazione della famiglia, dei gruppi e della comunità come di un tutto: la comprensione degli elementi materiali e di valore che costituiscono la realtà nel mondo e nelle relazioni fra gli oggetti. Per lo sviluppo quindi del "sé sociale" occorre saper incorporare "l'altro" e ciò avviene grazie ai processi comunicativi che rendono la mente capace di interpretare i significati condivisi. Quindi, per capire il perché un individuo si comporti in una data maniera occorre partire dall'ambiente sociale in cui è inserito e in cui mette in atto le sue interazioni sociali. Ed è proprio questo il punto di partenza del lavoro di ricerca elaborato.
2.2 Popoli in cammino, la difficile distinzione tra migranti economici e rifugiati. “Nel mondo del XXI° secolo è ormai comune l’idea che le grandi migrazioni non siano un motore primario della società, ma piuttosto una componente anarchica del cambiamento sociale, la tessera deformata di un mosaico che non trova la sua appropriata collocazione, un rumore di fondo che disturba …il regolare ronzio della vita sociale”.15 Oggi che il nostro paese si trova costretto a fronteggiare il più grande esodo della storia, ondate di migranti che ogni giorno arrivano sulle coste della nostra penisola in fuga dalla guerra e dalla miseria dei loro paesi, ci siamo dimenticati la “nostra” grande storia di emigrazione.
Spostarsi da un territorio a un altro è una prerogativa dell’essere umano, è parte integrante del suo capitale al fine di migliorare le proprie condizioni di vita e che ha permesso la sua sopravvivenza.
Dal 1875 al 1975 venticinque milioni d’italiani sono partiti alla ricerca di “fortuna” in paesi lontani (la rincorsa del sogno americano) e un’altra immensa schiera ha lasciato le campagne e le montagne per cercare una vita migliore in altre regioni o città italiane (migrazioni interne).
“Molti giovani nemmeno lo sanno, ma anche molti anziani forse hanno dimenticato che l'Italia è stata una terra di grande emigrazione. Dopo la prima guerra mondiale intere famiglie s’imbarcarono per terre assai lontane, l'America, l'Australia, stipati nelle stive dei grandi transatlantici, uno sull'altro con le loro povere cose, le loro valigie di fibra legate con lo spago, carichi di sacchi e di bambini piangenti. E, arrivati in America, lo sguardo rivolto alla Statua della Libertà, Long Island ma, allo stesso tempo gli occhi sospettosi della polizia che ispezionava le loro povere cose. Finalmente potevano scendere nella Terra Promessa ma lì cosa trovavano: un
Paese sconosciuto, un posto ignoto in cui si parlava una lingua incomprensibile, in cui c'erano abitudini sconosciute, dove speravano di trovare condizioni di vita migliori che la loro terra, LA TERRA AMARA, non gli permetteva di vivere” (liberamente tratto dal libro di Margherita Hack “L’anima della Terra Vista dalle stelle).
In quale modo eravamo descritti e apostrofati dai nativi americani? Com’erano accolti?
Macarrone, black dago, ding, green horns, mafia-mann, napoletano, polentone, wop, sono solo alcuni dei molti nomignoli offensivi che sono stati usati nei nostri confronti in giro per il mondo. Nei primi anni del novecento sono stati proprio i nostri nonni, padri, zii, a lasciare le campagne povere del nord e del sud Italia per inseguire il sogno Americano nella speranza di trovare un lavoro per migliorare la propria vita e quella dei propri figli. Oltrepassavano l’oceano in cabine di terza classe stipati come bestie tra i fetori, le malattie e i tanti “sogni”.
Sono i “sogni” che ti danno la forza di continuare anche quando tutti t’insultano, ti deridono, ti sputano addosso. Le immagini intorno agli italiani ruotavano intorno a Mafia, Pizza, Spaghetti e Mandolino creando degli stereotipi e delle etichette che ancora oggi ci portiamo addosso.
«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini sono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano
a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali». (Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati.)16
I luoghi comuni, i preconcetti, i pregiudizi, sono la culla dei razzismi di tutti i tempi, dell’intolleranza etnica, razziale e culturale. Non possiamo dimenticarci degli italiani linciati, ammazzati, impiccati o incarcerati solo perché emigranti; dei bambini italiani venduti e sfruttati nelle vetrerie francesi fino alla morte o delle centinaia di donne italiane che si prostituivano per le strade del Cairo, al fine di non ripetere gli stessi errori con persone che oggi stanno vivendo lo stesso dramma. In questi ultimi anni ci troviamo spesso a confrontarci con “loro”, gli extracomunitari, e pensiamo di essere stati diversi, “migliori”. Alziamo un muro che ci separa creando “nuovi” stereotipi che ci conducono verso la xenofobia e aumentano in maniera esponenziale la paura, e di conseguenza il distacco dall’”altro”. In un’epoca post-moderna il “sistema di coordinate” che hanno orientato la nostra condotta sono andate in crisi, facendo emergere un nuovo tipo di società caratterizzata da nuove opportunità e rischi.17 L’uomo di oggi si trova nel mezzo di uno sviluppo sociale in cui l’attesa dell’inaspettato, del rischio possibile, domina sempre più la scena della sua vita, si tratti di rischi a livello individuale o collettivo. Ma i rischi creano anche opportunità. La soluzione dipende dal nostro atteggiamento e dai mezzi che sapremo inventare per superarla.
16 L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Gian Antonio Stella, Rizzoli 2003. 17 La società del rischio, U. Beck, Carocci editore, Roma, 2000.
“Solo sollevando i veli che coprono l’area della vita del gruppo che si vuole studiare si possono comprendere la condotta umana.”18 Ed è proprio questo che intende realizzare questa piccola ricerca al fine di smontare i luoghi comuni sia di chi è per l’accoglienza a tutti i costi, inseguendo idee utopistiche, sia di chi si trincera dietro i muri della paura.
3. Politiche migratorie e definizioni.
Alla luce degli eventi migratori dalla seconda Guerra mondiale ai nostri giorni risulta alquanto difficile dare una definizione univoca e globale di chi siano “gli immigrati”. Per cercare di tracciare un quadro chiarificatore dei fenomeni migratori occorre considerare due aspetti fondamentali: le cause che spingono le persone a migrare e le caratteristiche socio-demografiche, culturali e psicologiche di chi emigra.
A seguito di ciò ogni paese risponde in maniera differente.
La politica migratoria, intesa nel senso più̀ ampio, si riferisce non solo alla gestione di movimenti migratori in atto, ma anche alla loro prevenzione; non solo alle migrazioni esclusivamente economiche, ma anche a quelle di natura forzata.
Per via di queste diverse componenti intrinsecamente interconnesse le politiche dell’immigrazione non possono essere separate dalle politiche dell’integrazione.
In quest’ottica, per politica migratoria s’intende quindi l’insieme di norme che regolano l’ingresso degli stranieri e i loro diritti e doveri all’interno della comunità nazionale. Componenti di una politica migratoria sono le politiche di regolazione dei flussi, ovvero le politiche di frontiera ed eventualmente di regolarizzazione della popolazione straniera già̀ presente, ma anche le condizioni d’accesso alla cittadinanza, le politiche d’integrazione o d’assimilazione degli immigrati e le politiche sociali rivolte a essi.
L’Italia fino alla fine degli anni Novanta ha provveduto più che altro a emanare sanatorie per la regolarizzazione d’immigrati irregolari presenti da anni sul territorio senza preoccuparsi di creare una legislazione che trattasse tutti gli aspetti del
fenomeno. Poi, finalmente, nel 1998 ha dato vita al Testo Unico 286 (Legge Turco-Napolitano, modificato dalla legge 189/2002) che disciplina l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato, regolamenta il lavoro, nonché i diritti e i doveri dello straniero in ambito sanitario, scolastico, assistenziale e alloggiativo. Per la prima volta l’Italia ha cercato di dare una risposta organica al fenomeno interconnettendo i due diversi aspetti.
Ma chi sono questi uomini, donne e bambini che scelgono di lasciare la loro terra per cercare protezione e sicurezza nella “fortezza Europa”? Chi sono questi interi popoli che si mettono in cammino alla disperata ricerca di un futuro migliore per se stessi e per le loro famiglie? Chi è il Migrante? E cosa significa migrare?
Il termine MIGRANTE è solitamente utilizzato per descrivere qualcuno che decide liberamente di trasferirsi in un'altra regione o Paese, spesso per ottenere condizioni materiali o sociali migliori e aumentare le proprie prospettive e quelle della propria famiglia.
Da un punto di vista puramente formale, si usa distinguere tra migrazione forzata (come nel caso di chi fugge da persecuzioni o da guerre, violazioni di diritti umani e catastrofi naturali) e migrazione volontaria (come nel caso dei migranti economici che lasciano il proprio paese alla ricerca di maggiori opportunità lavorative) anche se sulla volontarietà o meno della migrazione economica il dibattito internazionale è ancora aperto.
Esistono quindi diverse forme di migrazione, tra cui le principali sono:
o La MIGRAZIONE IRREGOLARE che descrive chi non possiede lo status giuridico richiesto o i documenti di viaggio necessari a entrare in un paese o a stabilirvisi, ad esempio entrando in un Paese senza un passaporto o un
documento di viaggio valido, o non avendo i requisiti amministrativi necessari a entrare in un Paese o a lasciarlo.
o La MIGRAZIONE ECONOMICA che spesso è intercambiabile con la migrazione di manodopera e si riferisce a coloro che lasciano il proprio paese “volontariamente” in cerca di migliori condizioni economiche.
L’ingresso in Italia per motivi di lavoro subordinato non stagionale, stagionale e per lavoro autonomo avviene esclusivamente nell’ambito delle quote d’ingresso stabilite con scadenza annuale o triennale dal cosiddetto “decreto flussi”. Quest’ultimo è emanato dal Presidente del Consiglio dei ministri per programmare annualmente, entro il 30 novembre dell'anno precedente a quello di riferimento, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio italiano (legge 40/1998).
o Il RIFUGIATO, ovvero “colui che, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, si trovi fuori dal proprio Paese e non possa o non voglia, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese…..” (Convenzione di Ginevra ’51).
o IL RICHIEDENTE ASILO, colui che è “in attesa” di risposta della Commissione Territoriale, organo competente per il rilascio dello status di rifugiato.
Purtroppo la maggioranza delle quote dei decreti flussi (quasi il 70%) sono destinate agli immigrati già in Italia, ma con permessi di soggiorno di altro tipo. Di conseguenza gli ingressi veri e propri dall'estero sono molto meno. Al momento, sulla base dei decreti flussi emanati ultimamente si è provveduto a regolarizzare buona parte degli immigrati irregolari presenti sul territorio da diversi anni.
Dal nuovo millennio l’Italia ha scelto di seguire un orientamento più restrittivo, modificando il Testo Unico con la Legge Bossi-Fini (189/2002) che introduce il reato di clandestinità (art.11) per coloro che entrano nel territorio italiano senza regolare permesso di soggiorno e istituendo i CIE (Centri d’identificazione ed Espulsione in cui l’immigrato irregolare viene “detenuto” per un massimo di mesi). Il permesso di soggiorno è concesso solo a chi ha un contratto di lavoro di durata biennale per i contratti a tempo indeterminato, annuale negli altri casi. Con la perdita del lavoro scade anche il permesso e quindi scatta il rientro in patria. Per le persone senza permesso di soggiorno ma con documento d’identità scatta l’espulsione per via amministrativa, con la decisione del prefetto della Provincia dove vengono trovati. Le forze pubbliche dovrebbero adoperarsi per “accompagnarlo immediatamente alla frontiera” ma in realtà rilasciano solo un foglio di via. Chi invece entra in Italia senza documenti e non fa domanda di asilo è condotto nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) per sessanta giorni per le pratiche d’identificazione: se non si risale all’identità, è ordinata l’espulsione in tre giorni. A seguito delle sanzioni dell’Unione Europea il 2 aprile 2013 la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge che permette di adottare misure alternative al carcere, di fatto abrogando il reato.
Col blocco dei flussi regolari e delle sanatorie per regolarizzare gli irregolari già presenti sul territorio la quasi totalità dei migranti economici si è trasformata in “richiedenti asilo”. Ciò significa che tutti coloro che letteralmente “sbarcano” a Lampedusa fanno richiesta di asilo in Italia col conseguente aumento delle strutture di accoglienza, l’allungamento delle tempistiche delle Commissioni Territoriali, dei costi, sia in termini economico-finanziari sia di risorse umane, che l’Italia e l’UE devono sostenere e delle tensioni sociali. Per molti dei migranti arrivati, l’Italia non era la loro destinazione ultima. Sono stati costretti a scegliere l’Italia a causa della
guerra e della conseguente instabilità politica in Libia (la maggior parte di costoro aveva scelto di emigrare in Libia, considerata la terra verde dell’Africa, la quale sotto il regime di Gheddafi ha dato lavoro a migliaia di persone sia africane sia asiatiche) o a doverci “restare” per via della normativa Dublino (secondo cui le impronte digitali devono essere prese nel primo paese di approdo e le conseguenti domande d’asilo). A causa di quest’ultima i richiedenti asilo sono obbligati a restare in Italia per tutta la durata del procedimento legale e una volta ottenuti i documenti per tutta la durata del permesso (5 anni per la protezione internazionale e sussidiaria e 2 anni per la protezione umanitaria, la quale addirittura è una protezione nazionale non riconosciuta negli altri paesi).
La situazione attuale, caratterizzata da una costante emergenza sbarchi (quasi ogni giorno arrivano dalle 500 alle 1000 persone e molte di queste muoiono in mare) a seguito dei cambi di governo nei Paesi sulle coste del Mediterraneo (cosiddette Primavere Arabe), l’instabilità politica (la guerra in Siria e la nascita dello Stato Islamico, ISIS) e le precarie condizioni socio-economiche di gran parte dei paesi dell’Africa e dell’Asia hanno posto l’Italia e l’Europa intera di fronte ad una crisi umanitaria e a un esodo senza precedenti che l’hanno costretta a discutere sulle possibili modiche della normativa Dublino e delle diverse strategie per fronteggiare il fenomeno e rispondere non più in maniera emergenziale ma strutturata. E’ necessario elaborare una nuova strategia per l’Accoglienza e l’Integrazione di migliaia di persone. Forze globali spingono le migrazioni. I conflitti d’interesse si accrescono. E così cresce la necessità di comprensione e di collaborazione globale verso quella parte non piccola di comunità che, in cammino, intende varcare i confini nazionali. 19
3.1 Modelli d’inclusione
Ogni società, comunità o gruppo sociale ha sempre cercato di fornire risposte adeguate ai quesiti, alle sfide e alle problematiche che sorgono al momento in cui si viene a contato con l’Altro. Generalmente la presa di coscienza di questa realtà porta a formulare modelli e strategie etno-centrati, di assolutizzazione dei propri valori, di difesa, di salvaguardia della cultura e dell’identità del gruppo di appartenenza, a cui corrisponde l’attivazione di un meccanismo di negazione dell’altro basato sul concetto di diversità. La parola “barbaro” nel suo significato di estraneità a una cultura dominante, può essere un esempio d’indicatore storico di come è sempre avvenuto l’incontro con il diverso. Essa deriva dal latino “barbarus”, che a sua volta deriva dal greco “bàrbaros”, che significa straniero nel senso di balbettante, incapace di farsi capire.
Per i Greci, infatti, i barbari erano coloro che parlavano una lingua incomprensibile. Mentre per i Romani erano gli appartenenti a una civiltà inferiore. Il termine barbaro non è usato solo nell’Occidente: era utilizzato dagli storici cinesi per descrivere le popolazioni confinanti, così come il nome “berbero” indica gruppi di popolazioni nomadi dell’Africa Sahariana, nemici dei popoli sedentari.
In questo complesso rapporto tra identità e alterità si possono identificare chiaramente le comuni intenzioni di distinguersi dai vicini, di affermare la propria superiorità e originalità. Ogni popolo, a suo modo, compie una manifestazione di etnocentrismo.
Qualsiasi identità, come già spiegato nei capitoli precedenti, non si costituisce attraverso dinamiche isolate all’interno di un gruppo, bensì attraverso interazioni contrastive e processi complessi, frutto anche di squilibri di potere e rapporti di forza.
Fabietti a questo proposito individua le diverse possibilità d’incontro tra identità culturali e alterità:
1. Negazione dell’alterità, quando essa non solo non viene riconosciuta ma soppressa;
2. Riconoscimento e accettazione dell’alterità, quando essa viene riconosciuta e ammessa ma rimane una dimensione ininfluente per la realizzazione dell’identità; 3. Alterità interna all’identità, quando essa è riconosciuta come dimensione
costituente l’identità in un continuo processo di negoziazione con il sé e con l’altro. Dalle diverse risposte istituzionali e dallo studio delle politiche sociali si possono evincere alcuni modelli teorici fondamentali in uso: segregazionista, assimilazionista, integrazionista, interculturale e antirazzista. Essi sono i punti cardine di una linea che parte dalla “ghettizzazione”, passa per la “conversione” alla cultura dominate e arriva alla coesistenza o “integrazione interattiva”.
Essi non rappresentano dei punti d’arrivo ma nel loro intreccio di elementi positivi e negativi fanno emergere la necessità di superare modelli chiusi e assoluti.
Non esiste quindi un modello perfetto: occorre analizzare la realtà e, in una prospettiva problematizzante, adattare un modello che le sia adeguato, nella consapevolezza che la strada verso l’Intercultura e l’incontro può essere lunga e fatta di fasi complesse.
Dal punto di vista storico invece, la letteratura ha individuato, seppur con diverse sfumature tre principali modelli d’inclusione: temporaneo, assimilativo e pluralista. Il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea, esemplificato dal caso tedesco e rintracciabile in gran parte delle riforme europee del dopoguerra. Qui l’immigrazione è stata vista come un fenomeno contingente, di lavoratori che erano chiamati poiché necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non dovevano mettere radici. Il permesso di soggiorno era collegato al
permesso di lavoro e il licenziamento comportava automaticamente l’espulsione. Un modello di questo genere risponde a una concezione funzionalista dell’immigrazione strettamente subordinata alla convenienza del paese ricevente e di conseguenza non è ammesso o comunque è ostacolato il ricongiungimento familiare. Tipica di questo modello è una concezione chiusa, che attribuisce la cittadinanza solo in base allo ius sanguinis, ossia della discendenza sanguigna dei cittadini dello stesso paese.
Il secondo modello è definito assimilativo ed ha come riferimenti il modello americano e francese. In questo caso l’orientamento delle politiche è verso una rapida omologazione anche culturale dei nuovi arrivati. E’ un modello che punta all’integrazione degli individui, intesi come sprovvisti di radici e autonomi rispetto a comunità di provenienza e retaggi tradizionali. I migranti, per fare parte a pieno titolo della nazione devono rendersi indistinguibili dalla maggioranza della popolazione e le istituzioni devono accompagnarli in questo processo trattandoli secondo il principio di eguaglianza. La naturalizzazione è relativamente facile e non richiede tempi lunghissimi. Le seconde generazioni accedono alla cittadinanza automaticamente in base al principio dello ius soli: chi nasce sul territorio del paese ne acquista automaticamente la cittadinanza.
Il terzo modello è quello pluralista in cui convergono esperienze storiche, matrici culturali e orientamenti politici diversi. Può essere distinto in due varianti: quella liberale del laissez-faire, tipica degli USA in cui le differenze culturali sono tollerate ma non favorite da un impegno diretto dello Stato; e quella delle politiche multiculturali esplicite, che “implicano la volontà del gruppo di maggioranza di accettare le differenze culturali modificando di conseguenza comportamenti sociali
e strutture istituzionali”.20 Gli esempi più significativi sono quelli del Canada, dell’Olanda e della Svezia. Castles e Miller a tal proposito parlano di cittadinanza multiculturale: la nazione non solo è definita come comunità politica aperta a nuovi membri ma si accetta la differenziazione culturale e la formazione di comunità etniche all’interno di regole democratiche.
Vediamo ora, dove si colloca il caso italiano.
L’ingresso relativamente recente nel novero dei paesi d’immigrazione e la recente presa di coscienza dell’importanza e dell’irreversibilità di questo processo hanno portato gli studiosi a parlare di “modello implicito d’inclusione” degli immigrati, a lungo ignorati dalle politiche ufficiali o soggetti a misure parziali ed emergenziali.21 Più che di un modello progettato e costruito esplicitamente dalle istituzioni politiche si tratta di un modello che si è formato in maniera “opaca e non intenzionale”22 con alcuni caratteri peculiari:
• un arrivo e un insediamento spontaneistico; • una scarsa regolazione istituzionale;
• un’influenza rilevante degli attori locali (amministrazioni locali, associazioni, cooperative, organizzazioni di volontariato, sindacati, istituzioni ecclesiastiche) nelle iniziative di accoglienza rispetto a una debole regia delle istituzioni pubbliche nazionali;
• una ricezione contrastata da parte della società ospitante con aperture motivate da ragioni umanitarie e fenomeni di chiusura e di rigetto;
• un inserimento nel lavoro contraddistinto in larga misura dall’informalità e dalla precarietà;
20 Sociologia delle migrazioni, M.Ambrosini, Il MUlino, 2005 21 Ibidem
• un’evoluzione rapida verso il consolidamento e l’insediamento stabile attraverso i ricongiungimenti familiari e il fenomeno delle seconde e terze generazioni;
• un diffuso attivismo di reti spontanee di mutuo aiuto tra connazionali.
In questo contesto molto particolare e disomogeneo la legge Turco-Napolitano ha cercato di dare organicità alle politiche migratorie contemperando parità giuridica e rispetto delle differenze culturali senza ledere i diritti individuali.
E’ all’interno di questa cornice politica e sociale che si situa la posizione dei richiedenti asilo e rifugiati, che andremo ad esaminare più nel dettaglio, soprattutto a livello legislativo nel capitolo che segue.
4. La legislazione in materia: internazionale, europea e nazionale.
La normativa internazionale ed europea in materia di “rifugiati” si riferisce soprattutto a Convenzioni, Protocolli, Regolamenti e Direttive che i paesi dovrebbero poi ratificare e trasformare in leggi nazionali.
Prima fra tutte è “La Convenzione di Ginevra” o “Convenzione relativa allo status di rifugiato” del 1951, la quale stabilisce che si deve considerare “rifugiato politico chiunque, per causa e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dal suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.” L’Italia la firma e vi aderisce solo nel 1954 e per di più con un vincolo di “limitazione geografica” che durerà sino al 1990 e che consentirà, solo agli stranieri di provenienza europea, di presentare domanda d’asilo in Italia. Inizialmente infatti l’ambito di protezione era circoscritto alle persone in fuga dalla seconda guerra mondiale, per la maggior parte europei. Ed è proprio in quel periodo che s’inizia ad utilizzare il termine “rifugiato” come “categoria sociale”.
E’ in Europa che emergono quelle tecniche chiave per la gestione di spostamenti in massa prima standardizzati, poi globalizzati. Ciò non significa che prima della Seconda Guerra Mondiale non esistessero i “profughi” ma che prima di allora non esisteva il rifugiato come categoria sociale e problema legale.23
Nello stesso anno nasce l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) inizialmente conosciuta con il nome di Comitato Intergovernativo Provvisorio per il Movimento dei Migranti dall'Europa (PICMME), di cui l’Italia fu un paese fondatore. Nata con il mandato di aiutare i governi europei nell'identificazione di paesi di reinsediamento per circa 11 milioni di persone che erano state sradicate dalla loro patria a causa della guerra, l'Organizzazione si occupò, nel corso degli anni '50, del trasporto di quasi un milione di migranti.
Solamente col Protocollo sullo Status dei Rifugiati del 1967 sono state estese le tutele a tutte le persone che versano in tali condizioni di persecuzione. Ciò è avvenuto grazie alla rapida decolonizzazione delle colonie in Africa e in Asia che ha portato alla nascita dei “Paesi in Via di Sviluppo”, il cosiddetto“Terzo Mondo”.
Tuttora la Convezione di Ginevra rappresenta il cardine normativo ed il punto di riferimento per tutti coloro che assistono, tutelano e lavorano a vario titolo coi rifugiati e richiedenti asilo, in modo particolare l’UNHCR (Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati) che ha il mandato internazionale per la loro tutela.
Accanto a questa vi è la “Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo” adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 e ratificata dall’Italia nel 1955. Per la prima volta nella storia dell’umanità è stato prodotto un documento che riguarda tutte le persone del mondo senza distinzioni, in cui viene scritto che esistono diritti di cui ogni essere umano deve poter godere per la sola ragione di essere al mondo. Di pari importanza poi vi sono le Convenzioni sui “Diritti dell’Infanzia”, “Contro la Tortura ed altre Pene o Trattamenti crudeli disumani e degradanti,” “sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale” e la “Dichiarazione sull’Eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione fondate sulla religione o sul credo”. Tutte hanno l’obiettivo di garantire il rispetto
delle libertà fondamentali dell’uomo e spingono tutti gli Stati del mondo ad adottare misure efficaci per eliminare qualsiasi forma di discriminazione e tortura, anche se tuttoggi solo alcuni Stati le hanno ratificate.
Finora sono state citate solo Convenzioni scritte da paesi occidentali, come se nel resto del mondo, il “Terzo Mondo”, non ci fossero capi di stato e organizzazioni omologhe che lottano per gli stessi diritti. Un esempio è la “Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli” adottata a Nairobi nel 1981 dall'OUA (Organizzzazione Unità Africana) ed entrata in vigore nel 1986 dopo essere stata ratifica da 53 paesi dell’Unione Africana. I diritti umani riconosciuti dalla Carta africana sono civili, politici, economici e sociali, e per la prima volta nella storia sono riconosciuti i diritti dei popoli (il diritto all'uguaglianza di tutti i popoli, il diritto all'autodeterminazione, il diritto di proprietà delle proprie risorse naturali, il diritto allo sviluppo, il diritto ad un ambiente sano). E’ inoltre il primo strumento di diritto internazionale legalmente vincolante a collegare espressamente diritti e doveri. La Carta africana sancisce infatti, i doveri dell'individuo verso la famiglia, la società e la comunità internazionale, il dovere di non discriminare, di mantenere i genitori in caso di bisogno, di lavorare al meglio delle proprie capacità e competenze, di preservare e rafforzare i valori positivi della cultura africana. Questo cambio di prospettiva ci fa capire che gli “altri” non sono poi così distanti da noi, che lottano per gli stessi diritti, forse solo concepiti in maniera diversa. Noi non siamo migliori, siamo solo “diversi” per alcuni aspetti e molto “simili” per altri ma per comprendere veramente chi ci sta di fronte o chi vive dall’altra parte del mondo dobbiamo provare ad “indossare i suoi panni” almeno per una volta e condividere gli stessi “significati”.
Sul piano europeo le fonti legislative principali sono: la “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali “; la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, la Direttiva 2011/51/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2011 “Modifiche alla direttiva 2003/209/CE del Consiglio per estenderne l'ambito di applicazione ai beneficiari di protezione internazionale” e la Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 Aprile 2004 “Norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”. Tra queste, la prima a riconoscere il diritto d’asilo all’articolo 18 è la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Le Direttive disciplinano le normative in materia di accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri e di attribuzione dello status di rifugiato. La Direttiva 2003/209/CE è di fondamentale importanza per quanto concerne l’accoglienza poichè negli art.10-15 si fa espresso riferimento, nell’ordine, alla scolarizzazione e istruzionie dei minori, al lavoro, alla formazione professionale, alle condizioni materiali di accoglienza e all’assistenza sanitaria. Di particolare interesse è tutto il capitolo IV°, relativo alle “azioni volte a migliorare l’efficienza del sistema di accoglienza”, soprattutto per quello che riguarda l’obbligo di: comunicare periodicamente alla Commissione i dati relativi al numero di persone in accoglienza (art.22); assicurare misure idonee di orientamento, sorveglianza e controllo della qualità delle condizioni di accoglienza; adottare tutte le misure adeguate affinchè le autorità competenti che attuano questa direttiva ricevano la formazione necessaria e gli Stati stanzino le risorse necessarie. Infine, la Direttiva 2004/83/CE disciplinado l’attribuzione dello status di rifugiato, sancisce che “spetta al richiedente asilo presentare tutta la documentazione necessaria per dimostrare le persecuzioni avvenute ed il fondato rischio per il futuro” (art.4). Tali atti di persecuzione devono
essere sufficientemente gravi, per natura o frequenza, da rappresentatre una grave violazione dei diritti umani fondamentali, come recita l’articolo 9. Inoltre gli Stati membri possono stabilire che il richiedente non necessiti di protezione se in una parte del territorio del paese di origine non abbia fondati motivi di essere perseguitato (art.8).
Dopo la morte di circa 1.300 persone annegate durante la traversata dalla Libia all’Italia negli ultimi mesi, i leader europei si sono incontrati in numerose riunioni d’emergenza per elaborare un piano comune d’azione che dovrebbe prevedere un sistema di quote per ciascun paese membro, la distruzione delle imbarcazioni in Libia, la realizzazione di corridoi umanitari e la possibilità di fare domanda d’asilo nel paese di transito (es.Libia, Algeria) e quindi istituire centri di accoglienza in loco con personale adeguatamente formato. Ovviamente non vi è stato nessun accordo soprattutto per quello che riguarda le “quote” per via dell’opposizione di molti paesi, tra cui la Gran Bretagna e l’Ungheria. Al momento si parla solo di aumentare i finanziamenti a Triton e Frontex per la “difesa” delle frontiere e l’annientamento della rete dei trafficanti. Ma il problema rimane e, vista la destabilizzazione di gran parte dei paesi Africani e del Medio Orientali le persone continueranno ad arrivare, per cui è doveroso ripensare ad un sistema di accoglienza differente. Purtroppo l’unico modo di entrare in Europa oggi è di richiedere la protezione internazionale, per cui tutti i migranti economici si trasformano in “richiedenti asilo”, di conseguenza, i corridoi umanitari e le struttre di accoglienza in loco non risolverebbero il problema. Come fare allora a scindere le due tipologie? E soprattutto chi ha il diritto di scegliere chi può migrare e chi no?
4.1 La situazione italiana e la Protezione Internazionale
L’Italia si situa al sesto posto nella classifica dell’”accoglienza europea” con 65 mila immigrati. Secondo l’ISTAT gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2013 erano 4.387.721, 334 mila in più rispetto all'anno precedente (+8,2%). Il Rapporto sulle Migrazioni 2013 elaborato dalla Fondazione ISMU e presentato a Milano il 10 dicembre dello stesso anno stima che la popolazione straniera ammonti a 4 milioni e 900 mila comprensiva di stranieri irregolari, che ammontano a 294 mila unità.
Queste immigrazioni stanno cambiando in profondità la società italiana.
Come gli altri paesi euromediterranei, nell’arco di vent’anni l’Italia si è trasfromata da paese di emigranti in meta d’ingenti flussi migratori. Questa trasfromazione è avvenuta in maniera quasi inconsapevole ed ha colto di sorpresa le istituzioni pubbliche, gli attori politici e la società nel suo complesso: un’impreparazione che ha pesato sulla ricezione dell’immigrazione.24
Sulla scia delle Convenzioni Internazionali e delle Direttive Europee l’Italia ha costruito un suo sistema legislativo in materia d’immigrazione e di richiedenti asilo.
Dagli anni Cinquanta sino agli anni Ottanta l’Italia si percepisce e viene percepita dai potenziali richiedenti asilo più che altro come un Paese di transito. Dunque la maggioranza dei richiedenti asilo che arrivano in Italia, sia europei che extraeuropei, vi rimangono solo il tempo necessario per aspettare il resettlement (reisendiamento, cioè accompagnamento all’autonomia) e quindi il trasferimento verso la loro meta finale, presso Paesi come: gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e la Nuova Zelanda. Tra il 1945 e il 1952 in Italia si
registrano circa 120.000 rifugiati in transito verso altre mete.25
Nel1957 la responsabilità per i richiedenti asilo e le persone in transito passa dalla diretta competenza delle Nazioni Unite al Ministero degli Interni, che istituisce una sola Commissione per l’analisi delle domande d’asilo, la Commissione Paritetica di Eleggibilità (Cpe) con sede a Roma e composta da funzionari del Ministero degli Affari Esteri e delle Nazioni Unite.
E’ solo negli anni Novanta che, finalmente, sia la società che la politica prendono atto che l’Italia non è più soltanto una terra di emigrazione e transito ma è diventata anche una terra di immigrazione e asilo. Nel 1990 infatti con la Legge Martelli viene tolta la “limitazione geografica”, per effetto della quale tutte le persone sia europee che extraeuropee possono ora fare domanda d’asilo. Dall’idea dell’accoglienza nei campi, si passa a quella del riconoscere direttamente una quota in denaro alle persone per il loro mantenimento, a cura della Prefetture. Nello stesso anno l’Italia firma la Convenzione di Dublino e la Convenzione di Schengen (sulla libertà di movimento delle persone), che però entrerà in vigore solo nel 1998 .
Nel 2003, quando verrà rinnovata, prenderà il nome di Regolamento di Dublino II la quale mira a “determinare con rapidità e certezza lo Stato membro competente per una domanda di asilo e prevede il trasferimento di un richiedente asilo in tale Stato membro. Di solito, lo Stato membro competente all’esame della domanda d’asilo, e poi anche quello in cui il titolare di protezione internazionale dovrà risiedere dopo il riconoscimento, sarà lo Stato in cui il richiedente asilo ha messo piede perla prima volta nell’Unione Europea”.
Fino al 2008 la Commissione competente poteva riconoscere solo lo status di rifugiato, lasciando escluse tutte le persone che scappano o si trovano fuori dal
loro Paese nel momento in cui avviene un grande sommovimento politico o sociale, sia esso un golpe o la caduta di un regime, la dissoluzione di uno Stato o la guerra civile.
Grazie ad una normativa europea e al suo recepimento in Italia diventa possibile riconoscere la “protezione sussidiaria” rivolta proprio a questa tipologia di migranti.
Nello stesso anno diventa altresì possibile presentare domanda di asilo non più soltanto alla frontiera, nel momento in cui la si oltrepassa, ma anche successivamente presso le diverse Questure competenti.
A seguito delle emergenze umanitarie nel corso deglia anni novanta (persone in fuga dalla ex Jugoslavia, Albania, Somalia, etc..) lo Stato italiano ha altresì utilizzato un’altra forma di protezione nazionale, chiamata a volte “umanitaria” e altre volte “temporanea” che continua tuttora a convivere con le altre due tipologie, sussidiaria e internazionale.
Dal 2005 le Commissioni sono diventate sette (hanno sede nelle città di Roma, Milano, Gorizia, Foggia, Crotone, Siracusa e Trapani), prendendo il nome di Commissioni Territoriali. Dal 2008 sono state aumentate a 10 ed il D.l n.119/14 le ha elevate a 20 prevedendo la possibilità di arrivare fino a 30 vista l’igente numero di domande da esaminare. Esse sono composte da 4 membri: uno di carriera prefettizia, uno di carriera interna alla Questura, un rappresentante di Enti locali o Associazioni di tutela e un rappresentante dell’UnhCr. Nel corso del 2013, le istanze complessivamente esaminate dalle Commissioni territoriali in Italia sono state 23.634. A 8.642 persone, ovvero il 36,6% dei richiedenti, è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale; in particolare, lo status di rifugiato è stato riconosciuto a 3.078 stranieri (13%) e la protezione sussidiaria è stata accordata a 5.564 stranieri (il 24%). Sommando a questi,
coloro a cui è stato rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari (5.750, pari al 24%), l’esito positivo delle domande in termini di riconoscimento di una qualche forma di protezione è stato del 61%. Gli irreperibili (2.410, pari al 10%), se sommati a coloro a cui non è stata riconosciuta alcuna forma di protezione (6.765 pari al 29%, la percentuale più elevata) rappresentano oltre il 38,8% del totale delle istanze presentate.26 La maggior parte di queste persone cercano di varcare i confine italiani per raggiungere parenti o amici nel nord Europa, gli altri restano sul territorio come irregolari.
I primi dieci paesi di origine degli stranieri di cui le Commissioni territoriali hanno esaminato le domande di asilo nel 2013, fanno tutti parte di due continenti: Africa e Asia. Nell’ordine sono: Nigeria (3.036), Pakistan (2.455), Afghanistan (1.764), Mali (1.683), Somalia (1.647), Eritrea (1.522) e Tunisia (1.072).
a. Il sistema di accoglienza in Italia
Da Paese di emigranti a paese d’asilo: dai boat people vietnamiti agli sbarchi di Lampedusa, passando per la crisi albanese e kossovara, la guerra nei Balcani e in Somalia.
L’esperienza dei Boat People.
In ambito migratorio gli anni Settanta si sono contraddistinti per essere stati un importante periodo di transizione, durante il quale l’Europa si è dovuta confrontare con diversi e sempre più complessi aspetti della mobilità umana. Si è trattato di una fase storica, peraltro coincidente con la crisi petrolifera mondiale, nella quale si è assistito in Europa al sovvertimento degli schemi migratori classici.
Da questo momento in poi i paesi dell’Europa meridionale sono divenuti un polo di attrazione “obbligato” sia per i paesi della sponda Sud del Mediterraneo che per quelli dell’Est. Negli stessi anni, l’Europa è stata chiamata a confrontarsi anche con una mobilità diversa da quella legata alla ricerca di un lavoro. Fattori geopolitici, riconducibili in particolar modo a guerre e conflitti etnici, sono stati alla base di vicende internazionali molto rilevanti. La prima fra queste è stata la grave situazione che colpì il Vietnam all’indomani della cessazione del conflitto con gli Stati Uniti.
Nel ‘76 nacque la Repubblica socialista del Vietnam e, immediatamente dopo, iniziò la guerra fra Vietnam del Nord e Cambogia. Comunismo e guerra determinarono una crisi senza precedenti il cui esito fu, tra gli altri, una fuga massiccia e incontrollata di centinaia di migliaia di persone. La comunità internazionale, dopo un primo momento di smarrimento, si attivò per garantire
accoglienza e tutela a chi quotidianamente s’imbarcava per fuggire dal conflitto e dalle persecuzioni. L’Italia si sperimentò, per la prima volta, nella prima vera attività di accoglienza di profughi e richiedenti asilo. La vicenda dei boat people che giunsero in Italia a seguito di un’operazione di search and rescue del Governo italiano nel mar indocinese meridionale può essere considerata la prima operazione di salvataggio in mare condotta dalle autorità militari italiane. A seguito di ciò il Governo italiano istituì un tavolo tecnico di cui facevano parte, oltre al Ministero degli Esteri, Ministero dell’Interno e Ministero della Sanità, anche organizzazioni di volontariato e organismi ecclesiastici come la Caritas Italiana. Ormai sono trascorsi oltre 40 anni e la maggior parte di quei profughi oggi sono cittadini italiani. Questa esperienza traghettò l’Italia verso una nuova dimensione, sino ad allora sconosciuta. L’accoglienza e la tutela dei richiedenti della protezione internazionale da quel momento in poi diventerà un elemento qualificante delle politiche migratorie del nostro Paese nonostante l’assenza di qualsiasi riferimento normativo, fatta eccezione per l’art.10 della Costituzione il secondo cui “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici”.
La crisi Albanese.
A partire dal 7 marzo 1991 gli albanesi sono entrati a pieno titolo sulla scena nazionale ed internazionale con quello che fu denominato ‘l’esodo biblico’. In tutte le case italiane, attraverso centinaia di ore di trasmissioni televisive, quelle immagini s’imposero all’attenzione generale. Come d’incanto emerse la condizione di un popolo avvolto per mezzo secolo in un involucro impenetrabile. Nei tre porti di Brindisi, Bari ed Otranto arrivarono 25.708 albanesi su quelle che presto furono definite “carrette del mare” . Secondo i dati forniti dal Ministero del Lavoro, al 31 dicembre 1991, gli albanesi occupati erano pari a circa 11.000, mentre alla stessa data le persone di cittadinanza albanese iscritte alle liste di collocamento risultavano 5.700.
La guerra nei Balcani
Dopo la morte di Tito, nel 1979 la Repubblica Federale di Jougoslavia, composta da 6 Repubbliche si è disgregata sotto la spinta di movimenti fortemente nazionalistici.
Nel 1992, a seguito della dichiarazione di indipendenza della Bosnia, scoppiò una guerra durata fino al 1995 ed i cui costi umani sono stati altissimi. Si stima che la guerra nella ex Jugoslavia sia arrivata a provocare oltre duecentomila morti e più di tre milioni e settecentomila rifugiati. L’Italia, per la prossimità geografica con questo territorio, rappresentava una delle principali vie di fuga per la popolazione in cerca di un riparo, sia via terra attraverso la Slovenia e Trieste che via mare attraverso l’Adriatico. Si stima che sono state circa 80.000 le persone passate dalla ex Jugoslavia all’Italia. Per questo, a partire dal novembre del 1991, il Governo italiano ha deciso di riconoscere a chi transita nel nostro Paese in fuga dal conflitto un permesso umanitario, che inizialmente