Dipartimento di economia e management
Corso di laurea magistrale in
Banca, Finanza aziendale e mercati finanziari
TESI DI LAUREA:
DIVERSIFICAZIONE E RISCHIO SISTEMICO NEI BUSINESS BANCARI
RELATORE
Professor Fulvio Corsi
LAUREANDO
Abstract:
Quello che andrò a fare in questo elaborato sarà una ricerca e un approfondimento su del materiale, appartenente ad un filone accademico consistente, il quale sembra prevalentemente spingere in direzione dell'esistenza di una correlazione positiva e significativa fra il reddito non-da-interessi delle singole banche e il rischio sistemico di tutto il comparto; nonostante ci siano delle dissonanze nei risultati della ricerca empirica, la mia esperienza mi ha condotto verso un corpus ampio di articoli e ricerche coerenti con questa affermazione, i quali oltretutto forniscono una semplice interpretazione logica generale, avvalorata anche da altri contributi più teoretici, di almeno una parte del funzionamento di questo meccanismo ancora poco conosciuto.
Indice
Introduzione1 Non interest income e rischio sistemico: quale relazione?
1.1 Un punto di partenza 1.2 Altri contributi collegati
1.3 Una chiave di lettura complessiva
2 Sistema finanziario europeo, tipologie di banche e trend di settore
2.1 Tassi, business model e storia recente
2.2 Tassi negativi e business model: evidenze empiriche 2.3 Fattori di stress, per banche tradizionali e non
3 Ricerca empirica
3.1 Ricerca e scelta dei dati 3.2 Regressione
3.3 Distribuzione delle variabili
3.4 Andamento delle variabili nel periodo considerato 3.5 Analisi dei risultati della regressione
4 Conclusione
5 Appendice
6 Bibliografia
Introduzione
Il tema su cui ho deciso di focalizzarmi per la mia tesi magistrale si riassume in una domanda: esiste una qualche correlazione fra la componente non-da-interessi dei ricavi delle banche e la rischiosità complessiva del sistema finanziario?
O in altri termini: una quota maggiore di Non Interest Income nelle banche contribuisce ad aumentare il Rischio Sistemico totale del comparto?
Dare una risposta chiara e univoca a questo tipo di domande avrebbe delle implicazioni notevoli a livello sia micro che macro-prudenziale.
Prima di tutto perchè dopo la crisi del 2007/8 il rischio sistemico è al centro del dibattito sia accademico che regolamentare, e quindi c'è grande attenzione alle sue potenziali determinanti.
Secondo, perchè sembrerebbe, dalla mia esperienza accademica, che il trend verso la diversificazione operativa (quindi verso maggiori quote di redditi non da interessi nel bilancio) sia già in corso da diversi anni nel settore bancario (italiano e non solo) e quindi sarebbe interessante capire esattamente dove ci può portare questa strada, visto che l'abbiamo già imboccata da tempo.
Purtroppo, mentre esiste un forte interesse nell'argomento e quindi una mole notevole di materiale a cui attingere, quello che non abbiamo oggi è un concordanza nei risultati delle ricerche.
Quello che andrò a fare in questo elaborato sarà una ricerca e un approfondimento sul materiale accademico esistente, il quale sembra prevalentemente spingere in direzione di una correlazione positiva e significativa fra il reddito non-da-interessi delle banche e il rischio sistemico del comparto.
Nonostante ci siano delle dissonanze nei risultati della ricerca empirica, la mia esperienza mi ha condotto verso un corpus ampio di articoli e ricerche coerenti con questa affermazione, i quali oltretutto si prestano ad una semplice interpretazione logica, avvalorata da altri contributi teoretici, di almeno una parte del funzionamento di questo meccanismo.
Questa ipotesi di partenza si è rivelata altresì feconda da un punto di vista di ricerca personale ed approfondimento della scienza economica, nonostante lasci evidentemente un'idea di incompletezza delle conoscenze attuali allo scopo di spiegare totalmente il rapporto che intercorre tra Non Interest Income e Rischio Sistemico. Il lavoro procede come segue: nella prima parte vado a riassumere i risultati delle mie ricerche sul tema della relazione fra Non Interest Income e Rischio Sistemico, riportando il materiale reperito, insieme al percorso concettuale della ricerca; nella seconda parte andrò invece ad approfondire il tema del Non Interest Income, cercando di vedere i trend in corso e le determinanti che si trovano dietro all'interesse per questa componente reddituale, per poter ipotizzare poi quale sia il ruolo attuale e quello futuro attribuibile al Non Interest Income dentro l’operatività delle banche; nella terza parte riporterò i risultati di una mia breve ricerca econometrica, nella quale proverò a ritrovare degli elementi presentati nelle prime due sezioni; nell'ultima parte cercherò di concludere tirando le somme delle sezioni precedenti, osservandole congiuntamente e introducendo anche fattori non prettamente economico/finanziari che possono influenzare la nostra visione di questa relazione.
Capitolo 1:
Non interest income e rischio sistemico:quale relazione?
Per cominciare ad approfondire questa relazione mi pare logico partire dalle definizioni: cosa intendo qui quando parlo di Non Interest Income e Rischio Sistemico?
Il Non Interest Income (da qui in poi NII) è definito generalmente come l'insieme dei redditi che una banca ricava da attività quali trading, advisory fees, securizations, brokerage commissions, investment banking, venture capital, capital gains su derivati non di copertura e fiduciary income.
È un paniere di attività molto variegato, ma il fattore comune si può dire che sia la non-tradizionalità o la non-dipendenza dall'andamento dei tassi d'interesse: questa classe di attività emerge infatti in negativo, differenziandosi profondamente dalle attività tradizionali del business bancario (lending e raccolta depositi) le quali dipendono dai tassi attivi e passivi esercitati dalla banca.
Fra le altre differenze è facile notare che la banca in queste attività si trova a competere sui mercati con altri intermediari quali mutual funds, hedge funds, investment banks, compagnie assicurative e operatori di private equity: soggetti diversi fra loro, sottoposti a regimi regolamentari differenti e con bagagli di competenze specifiche molto diversi. Strettamente collegato col NII è il concetto di diversificazione operativa/reddituale: ogni banca autorizzata ha la possibilità di impegnarsi in tutta una serie di attività di intermediazione finanziaria senza bisogno di ulteriori autorizzazioni, a livello europeo questa possibilità di scelta è riconosciuta dalla legge in un'ottica di de-specializzazione degli intermediari finanziari che ha preso piede sin dai primissimi passi dell'Unione europea.
Le attività che vanno a comporre la voce di ricavi del NII sono solo alcune di quelle in cui le banche possono impegnarsi qualora ne vedano una possibilità di guadagno. La banca quindi sceglie autonomamente quali attività intraprendere fra quelle a sua
ambientale, normativo, competitivo, ma anche interni: vantaggi competitivi, competenze specifiche e obiettivi individuali.
Per quanto riguarda invece il Rischio Sistemico (da qui in poi RS) si intende il rischio di una serie di default bancari concatenati o simultanei che vanno a minare la stabilità stessa di tutto il sistema finanziario, quindi non la semplice somma dei rischi di default dei singoli membri del sistema, ma un concetto più vicino alla capacità della banca singola di contagiare altri intermediari creando un effetto domino e a quella del sistema bancario di mettere in crisi anche banche sane quando questo si trova in una situazione complessiva di difficoltà.
Concettualmente mi ricollego alla tipologia di eventi sistemici che si sono susseguiti dal 2007 in poi, con default, contagi, credit crunch, crolli della fiducia e salvataggi bancari.
Si può dire che prima della crisi dei mutui Subprime non c'è stato grande interesse per l'aspetto sistemico del rischio e dopo la crisi invece questo interesse è esploso.
La definizione che ho dato resta vaga appunto per cercare di ricomprendere le diverse definizioni che ho incontrato nel tempo, le quali si traducono anche in una molteplicità di indicatori sintetici di rischio sistemico, utilizzati dai diversi ricercatori che negli anni si sono occupati di RS.
Anche all'interno del filone di ricerca sulla relazione NII/RS sono stati utilizzati diversi indicatori, quali per esempio il Conditioned Value at Risk (Adrian and Brunnermeier, 2016), il Systemic Expected Shortfall (Acharya, Pedersen, Philippon and Richardson 2010), il Marginal Expected Shortfall (Acharya, Pedersen, Philippon and Richardson 2017), il Tail Risk Beta (Wagner, 2009) e l'Expected Tail Risk (Knaup and Wagner 2010) tutti allo scopo specifico di misurare il rischio totale a livello di sistema.
Passo ora ad introdurre alcuni contributi accademici rilevanti e i risultati delle mie ricerche, portate avanti sempre cercando di capire se sia possibile affermare che il NII
1.1 - Un punto di partenza
L'inizio delle mie ricerche su questo particolare argomento è partito dall'incontro con il lavoro di Brunnermeier, Dong e Palia (2012) e successivamente con la versione definitiva del 2019 dello stesso ( di cui la prima è risultata essere una versione preliminare esposta ad una conferenza).
In questo lavoro le definizioni sono pressochè le stesse esposte in precedenza.
Per studiare come il NII influisca sul livello del RS, Brunnermeier, Dong e Palia ( di qui in poi BDP) si servono nello specifico di due indicatori sintetici di rischio sistemico: il Delta Conditioned VaR (ΔCoVaR) e il Marginal Expected Shortfall (MES).
Il primo è definito come la variazione del livello del VaR del sistema sotto la condizione che ci sia una banca in condizione di stress, rispetto al livello del VaR del sistema sotto condizione che la banca si trovi nel suo stato mediano: indica quindi le esternalità che la singola banca genera su tutto il sistema.
Il MES invece è definito come il rendimento delle azioni di una banca quando il mercato si trova nel 5% peggiore della sua performance annua: si focalizza quindi su quanto la singola banca sia esposta ad una potenziale crisi sistemica.
Unendo queste due misure otteniamo un profilo del RS a tutto tondo, sia dal punto di vista del canale di influenza che va dal sistema alla singola banca ( MES ) che da quello che va dalla banca a tutto il sistema( ΔcoVaR ).
Quello che BDP procedono a fare è analizzare tramite regressioni l'effetto della variabile [(NII/asset)] in relazione alle variabili dipendenti ΔCoVaR e MES, confrontandola con tutta una serie di variabili di controllo fra cui Liquidity Ratio, Interest Income/asset, financial leverage ecc. ecc.
Il focus principale è ovviamente l'impatto del NII ratio sul RS e l'analisi procede scomponendo sia il RS che il NII in diverse componenti per controllarle singolarmente, esaminando poi anche l'impatto delle dimensioni della banca sul contributo al RS.
Alla fine il risultato fondamentale esposto in questo articolo è che riscontra una correlazione positiva fra NII e RS; citando direttamente l'articolo, alcuni dei risultati dell'analisi sono:
1. Systemic risk is higher for banks with a higher ratio of non-interest income to
assets.
2. After decomposing systemic risk into three components—a bank’s tail risk
(alpha), exposure to fundamental macroeconomic and finance factors (beta), and interconnectedness (gamma)— we find that non-interest income significantly increases alpha. […] Finally, we find that non-interest income is positively related to a bank’s gamma.
3. After splitting non-interest income into two components, trading income and
other non-interest income, we find both components are positively related to total systemic risk. This result suggests a similar relationship for both trading income and other non-interest income.
4. Examining the impact of non-interest income on large, midsize, and small banks,
we find that gamma is higher for both large and midsize banks, but not for small banks. Alpha is higher for both large and small banks, whereas beta is higher only for midsize banks.
Questo articolo e questi risultati sono stati la base di partenza delle mie ricerche sull'argomento, successivamente ho incontrato una quantità notevole di riscontri positivi riguardo ai risultati ottenuti da BDP, che vado ora ad illustrare brevemente.
1.2 - Altri contributi collegati
BDP citano direttamente alcuni articoli coerenti coi loro risultati, risulta fra questi particolarmente interessante quello di De Jonghe(2010) che ottiene risultati simili sulla correlazione positiva fra NII e RS per le banche europee, quasi in contemporanea con la prima stesura del lavoro di BDP ( 2012) utilizzando però un indicatore di rischio sistemico differente (Tail Risk Beta).
Un altro articolo citato è quello di Moore e Zhou (2013) in cui si sostiene che, sebbene sia la dimensione della banca la prima determinante della sua rilevanza sistemica, oltre un certo limite dimensionale (30 miliardi USD di asset ) la determinante principale diventa la diversificazione, sia sul lato dell'attivo che sul lato del passivo.
Oltre a quelli citati altri paper a supporto di questi risultati sono Acharya and Steffen (2012), Knaup and Wagner (2010) e Lee, Chen and Zheng (2019)
Il primo replica i risultati di Brunnermeier, Dong e Palia al livello di banche europee, usando come indicatore il MES.
Il secondo ottiene risultati simili, però costruendo un indicatore di rischio forward looking detto Expected Tail Risk, che quindi indica il l'esposizione, percepita dal mercato, di una banca ad un evento sistemico negativo.
Lee, Chen e Zheng (da qui in poi LCZ) invece compiono un ulteriore passo in avanti nell'analisi della relazione NII/RS, focalizzandosi sull'effetto della asset correlation fra banche come fattore fondamentale del nexus fra diversificazione della banca e RS. LCZ procedono quindi ad una analisi empirica al fine di testare due ipotesi:
1) Alti livelli di diversificazione reddituale innalzano il rischio sistemico del settore bancario
2) Ridurre la correlazione fra gli asset e i portafogli delle banche riduce il rischio sistemico (o la probabilità di crisi finanziarie)
I risultati dell'analisi di LCZ portano ad una conferma di entrambe le ipotesi, confermando il lavoro di BDP e compiendo anche un passo oltre nella comprensione della relazione NII/RS.
Sia BDP che LCZ infatti, nell'esporre le loro ipotesi, citano due paper coerenti: Wagner (2010) e Tasca et al. (2014), questi due risultano essere lavori non puramente empirici che ci forniscono dei modelli teorici per spiegare il funzionamento dell'effetto del NII sul RS.
Questi ultimi due paper ci aiutano ad avere una visione di insieme, e suggeriscono una spiegazione della correlazione fra NII/RS basata sull'asset correlation come fattore principale.
Nel primo abbiamo un'analisi dei costi nascosti della diversificazione, che, tenendo conto della differenza fra i costi dei default individuali e costi derivanti da un evento sistemico, spiega come quote maggiori di NII per tutte le banche si traducano in una eccessiva somiglianza in portfolio fra le stesse, di modo che il sistema risulta non essere veramente diversificato: se tutte le unità che lo compongono sono completamente diversificate, trovandosi gli intermediari in un mondo con limitate attività disponibili e possibilità di investimento, allora il sistema risulta essere instabile.
Il secondo lavoro sostiene anch'esso che gli “overlaps” o “ripetizioni” nei portafogli delle banche aumentino la correlazione fra le probabilità di default dei singoli intermediari, aumentando così il rischio sistemico.
In entrambi i casi abbiamo quindi modelli che forniscono ipotesi per spiegare come una maggiore diversificazione, rappresentata da quote maggiori di redditi Non-Interest rispetto alle attività bancarie tradizionali, si possa tradurre in un maggior rischio sistemico, ovvero un innalzamento delle probabilità di incorrere in una crisi che coinvolga buona parte il comparto bancario nello stesso momento.
Infine, un ulteriore contributo in questo senso viene proprio da professor Corsi, qui nella veste di relatore, che nella sua attività di ricerca ha collaborato alla costruzione di un modello simile ai due precedentemente riportati (Corsi, Marmi and Lillo, 2016).
Infatti, anche questo lavoro, si pone come obbiettivo di indagare l’effetto che un aumento del livello ottimale di diversificazione della singola istituzione finanziaria (quindi partendo da variazioni a livello micro-prudenziale) può avere a livello macro sul rischio sistemico complessivo del settore finanziario.
Concludo quindi il paragrafo riportando alcune delle conclusioni presentate dal lavoro suddetto, da cui si evince chiaramente la continuità con quanto detto in precedenza:
(i) a reduction of diversification costs, by increasing the level of diversification and, hence, relaxing the VaR constraint, allows the financial institutions to increase the optimal leverage;
(ii) it also increases the degree of overlap, and thereby correlation, between the portfolios of financial institutions;
(iii) even in absence of feedback effects, higher degree of diversification increases both the probability of default of single institutions (in case of large systematic shocks) and the correlations among them, thus exposing the economy to a higher level of systemic risk;
1.3 - Una chiave di lettura complessiva
Se mettiamo insieme i risultati empirici di BDP e simili (ovvero accettiamo l'esistenza di una correlazione positiva del NII con il RS) con le modellizzazioni di Wagner (2010), Tasca et al. (2014) e Corsi et al. (2016) otteniamo un quadro di insieme simile al paradosso del risparmio di Keynes: in cui un aumento generale dei risparmi dei cittadini di uno stato sottrae reddito ai consumi, riducendo la domanda aggregata, quindi il PIL nazionale e conseguentemente il reddito personale (ergo più risparmio porta a meno risparmio).
Allo stesso modo le banche, propense ad una crescente diversificazione reddituale, al fine di ridurre il proprio rischio di default e stabilizzare la performance, in realtà finisco
per rendere il settore bancario troppo omogeneo e non-diversificato, aumentando il rischio di crisi sistemiche gravi.
Se infatti andiamo a vedere, le banche, diversificando sempre di più, finiscono per essere troppo simili fra loro: condividono l'impegno in determinati settori, detengono asset class uguali o anche solo simili ( soggette quindi a correlazioni implicite) e questo fa si che uno shock si trasmetta meccanicamente ad un numero ampio di banche, creando una crisi di immediata portata sistemica, senza bisogno neanche di un generico effetto contagio.
Questo tipo di crisi che ho ipotizzato non è molto dissimile da quello che è accaduto coi mutui subprime nel 2007: la platea di investitori interessati al rapporto rendimento/rischio dei prodotti finanziari collegati al mercato immobiliare era molto più ampia di quella dei soggetti tradizionalmente impegnati nel mercato dei mutui, questo ha fatto si che la domanda di questi strumenti fosse molto alta e che, al momento dello scoppio della bolla, le difficoltà connesse al detenere derivati su mutui fossero diffuse a tutto il sistema finanziario.
Si può anche dire che il settore bancario italiano si presta a fornire un altro esempio: dato che molte banche italiane detengono titoli di stato italiani, quando ci sono delle tensioni sul debito pubblico, le difficoltà si trasmettono automaticamente a qualsiasi intermediario che ne detenga una quota importante, e questo non esclude poi che le difficoltà del comparto bancario si trasmettano al tutto il sistema finanziario e all'economia reale (è il caso di contrazioni dell'offerta di prestiti in caso di deterioramento dell'attivo della banca) creando così una crisi sistemica forte e pervasiva.
Risulta quindi che la diversificazione nelle banche presenta vantaggi evidenti (riduzione probabilità di default) e costi nascosti (aumento probabilità e ampiezza di crisi sistemiche, costi per la collettività connessi allo scenario di crisi ecc.) ragion per cui arriviamo ad una situazione paradossale, in cui un livello alto di diversificazione risulta essere ottimale per le singole banche, ma gravemente sub-ottimale per il sistema
Quest'analisi vuole quindi in conclusione problematizzare l'approccio delle banche e dei regolatori alla diversificazione; nella sezione successiva andrò ad analizzare appunto l'approccio alla diversificazione diffuso attualmente nel settore bancario a livello europeo e non solo, al fine di avere un quadro globale del trend in corso.
Capitolo 2:
Sistema finanziario europeo, tipologie di banche e trend di settore
Nella sezione precedente mi sono concentrato sulla relazione intercorrente fra NII e RS, adesso invece, andrò ad analizzare più approfonditamente il NII: in particolare, partendo dall'assunto del sempre maggiore ruolo della diversificazione reddituale e operativa ( e quindi del NII) nel business bancario, a partire dagli anni 80 fino ad oggi, cercherò di evidenziare alcuni fattori determinanti dietro questo trend.
L'orizzonte principale in cui mi muoverò sarà, per ovvie ragioni, quello europeo, anche se molti dei fattori qui presi in considerazione possono essere considerati validi anche per altri contesti e settori bancari.
2.1 - Tassi, business model e storia recente
Il primo fattore che mi interessa approfondire è il contributo che, in un contesto come quello europeo, i tassi esercitati dalle banche centrali possono offrire alle scelte operative e strategiche delle banche.
Storicamente le banche italiane hanno visto i tassi d'interesse scendere continuamente già dagli inizi dell'integrazione europea e si sono adeguate sotto vari profili, ma attualmente, se andiamo a vedere i tassi esercitati dalla BCE, ci troviamo addirittura in territorio negativo ormai da anni.
L'ingresso della BCE in territorio negativo risale circa al 2014 e da allora, una crescita debole dell'Eurozona e livelli d'inflazione bassi (tendenti pericolosamente a deflazione) hanno contribuito ad ulteriori abbassamenti dei tassi di riferimento quali stimoli per l'economia europea.
presidente della BCE andrà a segnare un punto di discontinuità con la politica dei tassi negativi del predecessore Mario Draghi e la fine del Quantitative Easing, meno che mai ora che lo shock da Covid-19 è arrivato in Europa e dipana il suo potenziale distruttivo per l'economia.
Ad oggi la situazione dei tassi in Europa appare così: il tasso di deposito e finanziamento overnight sono in territorio negativo dal 2014/5, i tassi Euribor sono negativi a partire dal 2014 e il tasso per le operazioni di rifinanziamento è allo 0% dal 2016.
Ci troviamo quindi in una evidente situazione di politica monetaria espansiva della BCE: come già detto i motivi principali sono la crescita debole e la bassa inflazione, mentre gli obiettivi di questa politica sono quelli di fornire liquidità alle banche al fine di favorire l'erogazione di prestiti all'economia reale e mutui ai privati; purtroppo la situazione non è così semplice e lineare, sembra infatti che questo tipo di politica monetaria da parte della BCE non riesca a ridare impulso all'economia dei paesi europei, scontando sì, una fase storica di grande incertezza, ma anche una inadeguatezza di fondo della politica monetaria tradizionale a raggiungere lo scopo che si prefigge.
I tassi negativi risultano infatti una novità per l'arsenale delle banche centrali, ragion per cui è uno strumento di politica monetaria ancora poco studiato nei suoi effetti e nelle sue eventuali peculiarità rispetto alle manovre standard su tassi positivi.
I tassi bassi, ma soprattutto quelli negativi, influiscono direttamente sui comportamenti delle banche, le quali ,in quanto soggetti privati, hanno ampi margini di scelta sulle attività da intraprendere in questo contesto di liquidità a buon mercato fornita dalla BCE.
Già con l'avvento dell'Unione Europea, le banche italiane hanno dovuto adattarsi a diversi cambiamenti nel settore, quali per esempio: la riduzione degli interessi corrisposti dai titoli di stato, l'abbattimento delle barriere all'entrata del mercato finanziario nazionale, l'aumento della concorrenza internazionale, la de-specializzazione produttiva nel settore e le liberalizzazioni , il passaggio da essere
price-setter a price-taker (i tassi sono ora imposti dal mercato), senza contare i fattori di innovazioni tecnologiche (internet su tutti) e quelli di innovazione finanziaria. Come dicevo, già questi fattori hanno inficiato fortemente l'attrattività e la redditività dell'intermediazione creditizia tradizionale ( lending e raccolta tramite depositi) restringendo sempre di più il margine d'interesse delle banche.
A questo punto le banche italiane hanno dovuto intraprendere un percorso di riorganizzazione, al fine di recuperare la redditività persa a causa dei tassi generalmente bassi: hanno quindi cercato modi sostenibili per aumentare quello che qui viene chiamato NII.
Questo può avvenire nei modi più disparati: la riduzione dei costi è molto diffusa in tutto il settore, spesso connessa all'implementazione di nuove tecnologie (home banking, ATM, riduzione sportelli ecc. ecc.).
Molte banche hanno puntato invece su di un profondo rafforzamento della raccolta dati sui clienti, allo scopo di una migliore profilazione, segmentazione e fidelizzazione della clientela, questa raccolta dati rende più semplice il perseguimento della costumer satisfaction e la costruzione di prodotti mirati per cluster omogenei di clientela; contestualmente molte banche si sono orientate verso la redditività da commissioni e provvigioni sui servizi connessi a prodotti tradizionali (fee-focused approach) in un ottica di innovazione complessiva dei prodotti e della logica produttiva sottostante (da product-oriented a costumer-oriented).
Altre banche hanno invece ampliato il paniere delle attività intraprese verso intermediazione mobiliare o assicurativa (il caso Deutsche Bank nella prima area è emblematico della vocazione verso una banca universale, seppur a posteriori risultata fallimentare) o ridefinito e riorganizzato alcune aree strategiche d'affari come il Private e il Corporate Banking, le quali risultano potenzialmente redditizie e storicamente poco valorizzate in settori bancari tradizionali come quello italiano, il quale si è prevalentemente concentrato sull'area Retail dell'intermediazione creditizia, sia sul lato dell'attivo che su quello del passivo.
In tutto questo quindi si può notare una forte tendenza delle banche commerciali tradizionali alla diversificazione, sancita a livello europeo dall'adozione del modello di Banca Universale (o mista) come riferimento: ovvero una banca impegnata ad erogare una molteplicità di prodotti e servizi a cavallo fra intermediazione creditizia, mobiliare e assicurativa.
Procediamo ora ad approfondire l'argomento tramite una serie di contributi accademici che si sono occupati appunto in modo particolare dell'influenza dei tassi negativi sui comportamenti assunti dalle banche e le loro scelte di posizionamento del business model.
2.2 - Tassi negativi e business models: evidenze empiriche
Di questo ambito di ricerca si è occupato tempo addietro anche lo stesso professor Brunnermeier (Brunnermeier & Koby, 2016), questo paper è utile per stabilire una continuità con la sezione precedente della tesi.
In questo lavoro Brunnemeier e Koby ci forniscono anche degli ulteriori esempi di banche centrali che, nel 2016, esercitavano tassi negativi sul mercato: Bank of Japan, la Swiss National Bank, la Swedish Riksbank e la Danmarks Nationalbank.
Il centro d'interesse di questo lavoro è il “reversal interest rate” ovvero un livello teorico del tasso d'interesse, al disotto del quale una politica monetaria espansiva si inverte in una restrittiva attraverso una riduzione del credito da parte delle banche. A differenza del Brunnermeier e del Koby, che analizzano i fattori che determinano questo ideale punto di svolta per la politica monetaria di una banca centrale ( dicendo esplicitamente che si può trovare sia sopra che sotto il livello 0 a seconda delle situazioni), io ho preferito concentrarmi sugli effetti peculiari dei tassi d'interesse negativi e dei loro effetti sulle banche.
Il motivo è che i tassi d'interesse negativi sono quasi una novità nell'ambito della pratica monetaria, per secoli la teoria economica non ha preso in considerazione la loro
possibilità (anche Keynes, parlando della trappola della liquidità, considerava lo 0 come il limite inferiore dei tassi d'interesse che una banca centrale può esercitare) e quindi si tratta di un caso affascinante oltre che ristretto, rispetto ad una trattazione generale degli effetti dei tassi come quella di Brunnermeier e Koby.
Quello che sono andato a fare nelle mie ricerche è stato quindi un restringimento di campo: andando a guardare principalmente l'effetto dei soli tassi negativi sulle banche, per comprendere come reagiscono queste in un contesto dinamico come quello attuale; mi sono in particolare focalizzato sulle scelte strategiche di diversificazione operativa e sul destino probabile del business model bancario tradizionale.
Molti degli elementi di analisi che ho incontrato nella letteratura coincidono praticamente con i fattori considerati da Brunnemeier e Koby: l'estinguersi a lungo andare dei vantaggi di rifinanziamento a tassi inferiori per le banche, i meccanismi di trasmissione dei tassi dalle banche centrali a depositi e prestiti, il collegamento fra le variazioni del net worth della banca e l'espansione del credito e la riduzione del beneficio marginale dell'espansione dei depositi connessa alla riduzione dei tassi; d'altro canto ho preferito invece discostarmi dal lavoro di Brunnermeier e Koby evitando di ampliare le ricerche al fine di considerare anche l'effetto del Quantitative Easing sulle banche europee insieme a quello dei tassi.
Si noti comunque che alcuni fattori determinanti il cosiddetto “reversal interest rate” individuati da Brunnermeier e Koby dipendono dalla struttura del mercato, mentre altri dipendono dalla situazione della singola banca (esposizione a rischio di tasso, dotazione di capitale, delinquency rates su mutui ecc.) ragion per cui questa “inversione” della politica monetaria può essere sperimentata in tempi di diversi da singole regioni e settori.
Quello che andrò a fare sarà, nel contesto europeo e italiano, cercare di capire ed esporre quali possono essere gli effetti dei tassi negativi in politica monetaria e quindi quali tipologie di banche (o tipologie di business model) subiscono maggiormente questi effetti e come possono reagire.
Ho preferito ricercare ed approfondire il materiale più recente possibile al riguardo e il filone di ricerca sugli effetti dei tassi negativi sui business model bancari è risultato comunque ben fecondo ed interessante.
Sebbene sia generalmente accettata l'idea che un ambiente a tassi bassi persistenti sia alla lunga dannoso per le banche, l'interesse per le gli effetti peculiari dei tassi negativi è risultato minore nell'ambito di ricerca accademica,.
I vari lavori che ho approfondito in questo ambito (Heider et al. (2019), Nucera et al. (2017), Lucas et al. (2019)) condividono tutti un ragionamento di base: la asimmetricità della trasmissione degli effetti dei tassi negativi.
Con asimmetria i intende che una riduzione dei tassi in territorio negativo agisce sui tassi di mercato, riducendoli normalmente come una qualsiasi riduzione in territorio positivo dei tassi, ma non ha effetti su una particolare categoria di tassi molto importanti per le banche: i tassi dei depositi della clientela.
Le banche sono praticamente costrette a mantenere i tassi dei loro depositi passivi sopra lo zero, questo perchè qualora i depositi raggiungessero rendimenti negativi, non presenterebbero nessun vantaggio rispetto alla detenzione di contante da parte della clientela (questo vale soprattutto per clientela Retail, a volte le banche praticano tassi negativi alla clientela formata da imprese non finanziarie, le quali sentono meno l'attrazione del contante come mezzo di pagamento e riserva di valore) e quindi questa andrebbe immediatamente a ritirare i proprio fondi detenuti presso la banca, generando una corsa agli sportelli decisamente dannosa per la banca.
Ci troviamo quindi in una situazione in cui le banche tengono i tassi dei depositi più alti del livello generale del mercato, sul quale i tassi sono influenzati normalmente dalla politica monetaria della banca centrale, al fine di evitare la perdita dei fondi depositati dalla clientela.
Questo mismatch fra tassi di mercato e tassi sui depositi si ripercuote direttamente sul costo del funding della banca, legato alla tipologia di passivo prevalente del bilancio bancario; da qui possiamo quindi distinguere fra banche che hanno una quota depositi nel funding mix alta (High-Deposit Banks) e quelle che si appoggiano meno ai depositi
per reperire i propri fondi (Low-Deposit Banks) spostandosi quindi verso un funding all'ingrosso sul mercato interbancario o tramite emissioni obbligazionarie.
Risulta evidente che la prima categoria risulterà più colpita della seconda dagli svantaggi dei tassi negativi e quindi sarà più portata a reagire: vedremo successivamente in che modo.
Il primo effetto che si osserva empiricamente, viene preso direttamente da Brunnermeier e Koby, ed è l'effetto della riduzione del net worth della banca causato dai tassi negativi.
Gli effetti di una riduzione dei tassi si dividono generalmente in due: all’inizio, l’effetto della riduzione dei tassi ha un effetto positivo, aumentando di fatto il valore di parte dell’attivo della banca, in un secondo momento però, questo effetto si esaurisce e rimane solo una perdita di redditività della banca dovuta al livello inferiore dei tassi. Il primo effetto viene definito anche come “stealth recapitalization” perchè una riduzione dei tassi da parte della banca centrale, aumentando il valore degli attivi ( quelli a tasso fisso e a più lunga scadenza) della banca e quindi il suo capitale proprio. Ora, è facile capire che questi capital gains possono più che compensare la contestuale riduzione del margine d'interesse, questo almeno finchè la banca possiede attività di questo tipo, ma a lungo andare, l'affermarsi dell'effetto dell'orientamento dei tassi bassi sull'attivo estinguerà l'effetto.
Una banca con un funding mix incentrato su depositi incontrerà però dei problemi sul net worth prima, ovvero al presentarsi di tassi negativi: i depositi non possono scendere mai sotto zero e avranno quindi un costo più alto del reperire i fondi sul mercato (in cui la spinta verso il basso continua ad essere efficace) e avranno quindi una perdita sul margine d'interesse maggiore, a causa di un maggiore mismatch fra tassi passivi e attivi (i rendimenti delle attività prive di rischio vengono spinte in basso dalla politica monetaria dei tassi bassi).
A lungo andare quindi, quando l'effetto “stealth capitalization” si riduce per poi sparire, quello che rimane alle banche è una riduzione forte e persistente del margine d'interesse,
la cui magnitudine è sicuramente maggiore qualora la banca si finanzi tramite depositi (soprattutto retail, meno in caso siano depositi presso clientela corporate).
Questo tipo di problematica è ripreso anche in Heider et al. (2019): un lavoro empirico focalizzato sugli effetti dei tassi negativi sull'offerta di credito da parte delle banche. Anche qui abbiamo un focus sulla riluttanza delle banche a portare in territorio negativo i tassi sui depositi e il risultato dell'analisi è che le banche high-deposit così facendo vanno incontro a un costo del funding più alto e una riduzione del net worth rispetto a quelle low-deposit.
La conseguenza di questo stato di cose è che si riscontra a livello empirico che le banche high- deposit, avendo beneficiato meno delle riduzioni dei tassi da quando sono avvenute in territorio negativo, hanno espanso meno il lending delle competitor low-deposit e si sono focalizzati su prestiti rischiosi in un'ottica di “search for yield” , la quale presenta sia lati positivi (espansione credito presso imprese sane che normalmente non vi avrebbero accesso), ma anche negativi ( la banca assume comunque più rischi del dovuto a livello di lending e l'espansione del credito viene “strozzata”da un costo del funding scollato dai rendimenti risk-free ).
Se procediamo adesso ad una interpretazione del significato dell'etichetta di banca high-deposit è evidente che troviamo semplicemente la banca tradizionale, la quale si finanzia tramite depositi al dettaglio ed investe in prestiti e mutui, mentre le cosiddette banche low-deposit possono essere identificate con le banche universali, spesso di grandi dimensioni, le quali si finanziano sul mercato tramite emissioni di obbligazioni, aumenti di capitale, prestiti interbancari, finanziamenti della banca centrale di riferimento ed hanno anche composizioni degli attivi molto complesse e diversificate (trading, private equity, derivati non di copertura ecc. ecc.).
Se le prime si appoggiano molto al margine d'interesse per la propria redditività, le seconde ottengono quote maggiori dei propri profitti dal NII.
Un'altra problematicità osservata in questa ricerca è che la riduzione del net worth, la quale avviene nel caso di una banca high-deposit, aumenta il problema dei conflitti
d'agenzia nella banca fra creditori, manager ed azionisti: in un contesto di fondi esterni a basso costo sul mercato, la banca si trova a “giocare al tavolo” con fondi prevalentemente di terzi, e dato che il net worth si assottiglia, la quota di valore in gioco per gli azionisti si riduce.
Questo può portare azionisti e manager a spingere per una gestione più azzardata (ci sono meno incentivi a screening e monitoring dei prestiti) visto che i costi di un eventuale fallimento andrebbero prevalentemente in capo ai creditori, mentre i benefici dei risultati positivi andrebbero prevalentemente agli azionisti e ai manager (tramite bonus, opzioni ecc..ecc.).
Esiste quindi un duplice problema quando ci addentriamo nel territorio dei tassi negativi:
1) Il primo è nell'ambito della politica monetaria: lo stimolo monetario espansivo
risulta più debole per le banche high-deposit, le quali storicamente sono le più importanti per fornire credito all'economia reale, soprattutto alle PMI
2) Il secondo invece è di ordine sistemico, dato che le banche high-deposit, che
sono da intendersi come banche più tradizionali, sono generalmente considerate soggetti stabili con effetti benefici sulla stabilità complessiva del mercato. A ben vedere però, giunti a tassi negativi, queste subiscono una pressione maggiore delle altre banche sulla loro profittabilità e quindi sono spinte a recuperare, svincolandosi dal business bancario tradizionale, diversificando le proprie attività ed assumendo un atteggiamento più risk taking a livello di lending. Tutte operazioni che non contribuiscono positivamente alla stabilità del sistema.
Ci troviamo quindi in una situazione in cui il business model bancario tradizionale risulta difficilmente sostenibile nel medio/lungo periodo, a causa di una situazione (tassi BCE negativi) che è persistente e di cui non si vede la fine
Un'altra conferma di questi risultati viene da Lucas et al. (2019): un lavoro in cui viene sviluppato un modello che permette di dividere i dati delle banche in classi omogenee, in base ai differenti business model e alle dimensioni della banca.
Questo modello permette di isolare le banche con certi tipo di operatività e valutare l'effetto dei tassi negativi sulle singole classi al fine di capire quali siano colpite di più quando i tassi negativi modificano la curva dei rendimenti.
I cluster in cui le banche vengono divise sono 6:
(A) large universal banks, including globally systemically important banks (B) international diversified lenders
(C) fee-based banks
(D) domestic diversified lenders (E) domestic retail lenders (F) small international banks
Questa distinzione ci da una piccola panoramica sui business model assunti dalle banche europee in base alle necessità e alle loro caratteristiche, interne come esterne. Il risultato finale dell'osservazione dei dati aggregati, citando direttamente il l’articolo, è così riassumibile:
“We find that, as long-term interest rates decrease, banks on average (across all business models) grow larger, hold more assets in trading portfolios to offset declines in loan demand, hold more sizeable derivative books, and, in some cases, increase leverage and decrease funding through customer deposits . Each of these effects— increased size, leverage, complexity, and a less stable funding base—are intuitive, but also potentially problematic from a financial stability perspective”
Da qui si notano già i segni del fatto che le banche si stanno allontanando dal business model tradizionale; i tassi negativi aumentano l'offerta del credito in modo limitato, per
i fattori visti prima, e forniscono perlopiù liquidità a buon mercato per le attività che la banca può intraprendere per aumentare la propria quota di NII, i propri profitti e sostenere il prezzo delle azioni, diventando contestualmente anche più grande ( il che presenta anche dei vantaggi in termini di possibilità di bail-out in caso di crisi).
Le banche fanno sempre meno affidamento sul margine d'interesse e sempre più sul NII, e l'impressione ricavabil da questi dati è che l'ambiente a tassi negativi eserciti una pressione ulteriore rispetto al normale sulle banche tradizionali, che si traduce in uno shift verso altri tipi di business model (banca universale, bancassurance, fee-focused, funding wholesale ecc. ecc.) i quali, per i motivi visti nella sezione precedente, sono da considerarsi potenzialmente rischiosi per la stabilità di tutto il sistema bancario e finanziario.
La molla che spinge questo meccanismo, o la sua forza propulsiva, è la pressione sulla profittabilità delle banche tradizionali: da un lato penalizzate dall'azione della BCE (vedremo poi come questa agisca anche a livello di vigilanza in questo senso) dall'altro sottoposte alle pressioni del mercato per il raggiungimento di livelli di profittabilità e stabilità accettabili.
Un mercato, come osservato da Nucera, Lucas, Schaumburg e Schwaab (2017) in ottica forward looking, che percepisce le banche più tradizionali, piccole e meno diversificate a livello operativo come più rischiose delle altre.
Oltre ai tassi negativi, dalle ricerche emergono anche altri fattori che, insieme alla
politica monetaria della BCE, comprimono il margine d'interesse,
contemporaneamente ad altri, che invece contribuiscono a rendere l'economia europea troppo debole per sopportare un'inversione della politica monetaria e un rialzo nei tassi da parte della BCE.
2.3 – Altri fattori di stress per banche tradizionali e non
Sempre rimanendo all'interno dell'unione europea, si possono notare tutta una serie di fattori che esercitano una forte pressione su tutto il comparto bancario.
Prima di tutto basta ricordare il periodo 2011/2012 e la crisi dei debiti sovrani che ha colpito l'Europa poco dopo la già dura crisi scatenata dai mutui Subprime.
Le tensioni sui titoli di stato hanno penalizzato fortemente gli istituti bancari, i quali risultavano in alcuni casi molto esposti su questi titoli, che erano inizialmente considerati privi di rischio a fini di bilancio e che nel periodo suddetto diventarono bersaglio di speculazioni e oscillazioni forti sui mercati, questo ha portato a una perdita sia di valore che di fiducia per le banche detentrici, come per esempio quelle italiane. La ripresa economica dell'unione non è stata poi certo facilitata dalla guerra commerciale in corso fra USA e Cina: delle economie fortemente basate sull'export come quella italiana o tedesca sono vittime predestinate del ritorno in auge di dazi e barriere doganali.
La stagnazione economica appesantisce quindi tutto il comparto bancario europeo, ma particolarmente gli istituti bancari tradizionali, i quali sono più legati ai risultati dell'economia reale e meno all'andamento dei mercati finanziari.
Il settore dei servizi finanziari si trova inoltre a vivere una fase storica in cui soggetti nuovi si stanno affacciando sul mercato: Facebook ha tentato di sviluppare una sua cryptovaluta (Libra ) come mezzo di pagamento, Apple ha sviluppato Apple Payment per fini simili, Amazon è in partnership con alcune banche d'investimento americane per entrare nel settore, e al momento il più grosso fondo di gestione del risparmio è gestito dal re del commercio online cinese Alibaba.
Questi soggetti sono colossi industriali/commerciali, con core business solidi, ben capitalizzati, con grande liquidità a disposizione, tecnologicamente avanzati, innovativi e con accesso ampio ad informazioni sulla potenziale clientela, sono inoltre soggette a meno restrizioni e controlli non essendo considerate istituzioni finanziarie
in senso stretto e quindi risultano competitor molto pericolosi in certe aree di business tipicamente riservate alle banche, come i sistemi di pagamento e la gestione del risparmio.
Un altro elemento di criticità è il processo di riforma di Basilea III, che riguarda tutto il settore ed ha imposto nuovi vincoli alle banche per quanto riguarda la gestione della liquidità, dell'indebitamento complessivo, dei modelli interni di rating e anche un irrigidimento dei requisiti patrimoniali (fra l'altro, tutto avviene in un contesto in cui gli strumenti risk-free hanno rendimenti quasi nulli).
L'adattamento ai nuovi dettami della regolamentazione bancarie è risultato, ed ancora risulta, un costo notevole per tutte le banche, ma probabilmente, anche qui, in particolare per le banche tradizionali.
Infatti, se alcuni di quelli elencati possono essere considerati fattori esogeni rispetto all'Unione Europea, ovvero perturbazioni esterne al sistema europeo che ne destabilizzano l'economia, ci sono anche dei fattori interni alla UE da considerare, quali la regolamentazione e la vigilanza bancaria a livello comunitario.
Se andiamo a ben vedere infatti, la legislazione europea ha già accettato il modello della banca universale come standard, ed ha quindi preso una posizione forte nei riguardi di come dovrebbero strutturarsi le banche sul suolo europeo.
Questa presa di posizione viene confermata e portata avanti nell'opera di vigilanza bancaria della BCE: infatti l'assetto attuale dello stress testing BCE risulta molto penalizzante per banche con business tradizionali (le cui principali criticità in quest'ottica sono i titoli di stato e le sofferenze a bilancio) mentre lo è molto meno per i soggetti bancari più complessi (esposti di più su leva finanziaria e posizioni su derivati) Da più parti arriva quindi una spinta per l'aggregazione dei soggetti bancari: si paventa spesso nuova ondata di fusioni in settori bancari come quello italiano (ma anche a livello complessivo europeo) molto frammentati, con tante banche di dimensioni ridotte e impegnate nel business retail, le quali risultano poco redditizie, poco
innovative e molto radicate nel territorio, quindi protette in qualche modo dalle spinte concorrenziali del mercato unico europeo dei servizi finanziari.
Si può collocare all'interno di questo filone di pensiero l'offerta di Intesa San Paolo per l'acquisto di Ubi Banca (primo e terzo gruppo bancario italiano), al fine di creare un grande player a livello nazionale e quindi internazionale.
Fra l'altro un ulteriore fattore di stress, che sicuramente si farà sentire in futuro, è l'effetto del Coronavirus sull'economia mondiale e quindi europea e italiana.
Alla fine, è chiaro che la politica monetaria, la vigilanza unica bancaria, i mercati finanziari e lo stato dell'economia reale contribuiscono e creare un clima impossibile per sostenere il business model bancario tradizionale, spingendo quindi nella direzione della diversificazione e del NII.
Un caso a parte è la normativa internazionale del Comitato di Basilea, che da un lato colpisce tutte le banche aumentando i requisiti in fatto di liquidità e dotazione patrimoniale, dall'altro cerca di penalizzare una leva finanziaria eccessiva, l'intermediazione su derivati speculativi e le operazioni OTC, favorendo anche un funding più stabile (individuato nella raccolta al dettaglio, rispetto a quello wholesale). Va anche detto che, data l'importanza data all'interno SREP alla sostenibilità del business model in sede di vigilanza, la strada verso la diversificazione appare ineluttabile.
Capitolo 3:
Ricerca empirica
In questo terzo capitolo andrò personalmente a ricercare evidenze empiriche a supporto delle ipotesi precedentemente illustrate riguardo ai trend in corso all’interno del settore bancario.
Riporto qui le diverse fasi del processo di ricerca e i risultati ottenuti
3.1 - Ricerca e scelta dei dati
Per cominciare sono partito alla ricerca di dati su cui poter lavorare, subito si è presentato un problema di difficoltà del reperimento di dati e di relativa scarsità di dati riguardanti le istituzioni bancarie nei vari database.
Per reperire i dati relativi alle banche ho fatto svariate ricerche all’interno di diversi database disponibili, per poi approdare alla banca dati Orbis, la quale fortunatamente rientra fra i database a cui l’Università di Pisa offre accesso gratuito agli studenti.
La peculiarità di Orbis, rispetto alle altre banche dati che l’ateneo fornisce
gratuitamente per la consultazione e il download di dati, è che è l’unico che dispone di serie rilevanti di dati economico/finanziari di istituzioni bancarie, alcuni di questi possono essere considerati come variabili esemplificative delle varie sfumature dei business model bancari e quindi una buona base da poter cui partire.
Il limite principale che ho riscontrato all’interno di Orbis è stata l’incompletezza dei set di dati per variabile (spesso il dato era assente per banche piccole ) che inficiava il numero di osservazioni disponibili.
A questo punto ho iniziato a esplorare le funzionalità di ricerca di Orbis e a scremare le variabili effettivamente disponibili e di maggior interesse.
In alcuni casi ho dovuto anche procedere a creare nuove variabili, costruendo rapporti fra variabili scaricate direttamente da Orbis: questo al fine di riportare tutte le mie variabili dipendenti in forma di percentuale, così da migliorare la loro confrontabilità, la significatività del lavoro ed eliminare l’effetto della size della banca, che per
variabili in termini assoluti e non relativi crea problemi sistematicamente al lavoro. Vale la pena sottolineare che mi sono confrontato fin dall’inizio col problema
dell’effetto della size della banca all’interno delle variabili esposte in termini assoluti (monetari) : qualsiasi variabile di questo genere cresce con le dimensioni della banca e questo effetto oscura gli altri.
La soluzione è stata ricondurre tutte le variabili a percentuali, di modo da eliminare il problema alla radice.
Grazie ai mezzi a mia disposizione è stato facile restringerela ricerca alle banche dell’area euro, attive, di dimensioni medio/grandi, in un periodo che va dal 2011 al 2019.
Ho provveduto inoltre ad eliminare dal campione i dati relativi alle banche centrale. Il campione di partenza era quindi formato da poco di più di 3000 banche.
3.2 – Regressione
Dopo aver ristretto le ricerche ho iniziato a selezionare diversi set di variabili interessanti in relazione a quanto detto nell’arco delle prime parti della tesi sui
business model bancari, questi set sono le basi da cui sono partito per costruire le mie regressioni lineari multiple.
In questa fase ho proceduto per tentativi: modificando variabili dipendenti,
indipendenti, set di dati ecc. ecc. allo scopo di trovare una regressione quanto più espressiva e significativa.
Il risultato finale è stata la regressione che andrò a esporre e a quel punto, avendo una regressione di base attraverso cui osservare la situazione, l’orizzonte temporale è stato ampliato: la stessa regressione è stata effettuata su più anni, dal 2011 al 2019
Variabile dipendente:
• Profit margin (%) = Profit Before Tax/ Operating Revenue
è il margine di profitto di una banca espresso in percentuale, quello che andrò a testare sarà l’effetto delle mie variabili indipendenti sui margini di profitto generati da una banca.
L’assunto di base è che la profittabilità sia il focus principale della banca e un buon proxy della performance generale.
Variabili indipendenti:
• Net Loans / Total assets (%): la percentuale di prestiti all’interno del totale degli attivi della banca, questa variabile ci serve per capire come la componente core (quindi legata al business bancario tradizionale di intermediazione creditizia) dell’attivo influisca sulla performance della banca.
• Derivatives (assets) / Total assets (%): questa variabile indica invece la percentuale di strumenti derivati (solo attivi) sul totale. Fa da contraltare alla prima variabile, sebbene ci aspettiamo che entrambe abbiano effetti positivi sui profitti, un’osservazione congiunta ci permetterà apprezzare come diverse componenti dell’attivo (una tradizionale, una innovativa) contribuiscono alla generazione di profitti.
• Net Interest Margin (%) = Net Interest Revenue / ( Total assets – Fixed Assets – Non Earning Assets)
è il margine d’interesse: la componente reddituale principale di una banca
tradizionale, posta in relazione con gli assets totali, depurati delle asset class non connesse a tassi di interesse.
Vedremo se può essere considerato stabile in questo frangente storico o se
necessita comunque di una maggiore diversificazione reddituale a protezione della banca.
• Non Perf. Loans / Gross Loans (%): la percentuale di NPL sul totale dei crediti erogati dalla banca.
Qui ci aspettiamo una correlazione negativa coi profitti, ma possiamo ancora cercare di approfondire la questo rapporto.
Inoltre, questo ci permette di isolare l’effetto negativo degli NPL dal resto delle valutazioni che faremo.
• Interbank Ratio (%) = Loans and Advances to Banks / Deposits from Banks la percentuale di interbancario all’interno dell’attivo e del passivo di una banca ci offre un punto di vista diverso, ma complementare, all’osservazione del mercato
3.3 - Distribuzione delle variabili
Per cominciare riporto qui le distribuzioni delle 6 variabili utilizzate, in particolare riporto i grafici relativi all’anno 2019, in quanto non si riscontrano differenze sostanziali nelle distribuzioni sui diversi anni.
Inoltre prima di procedere i dati sono stati “depurati” dei valori estremi e sono state poste in evidenza nei grafici i valori di media e mediana.
1) Profit margin (%)
3) Derivatives / Total Assets (%)
4) Net Interest Margin (%)
6) Interbank Ratio (%)
3.4 - Andamento delle variabili nel periodo considerato
Al fine di rendere più semplice l’analisi si riporta sotto anche l’andamento della media e della mediana all’interno del campione di ogni singola variabile, mantenendo l’ordine di presentazione precedente.
Grafico A2
Grafico A3
Grafico A5
Grafico A6
Se i primi gruppi di grafici ci mostrano perlopiù la distribuzione (compatta o meno) delle variabili, questa seconda classe di grafici racchiude già alcune informazioni interessanti.
In particolare, si nota l’impatto della crisi del 2011/2012 sulle banche europee: si osserva infatti dal grafico un contestuale periodo di riduzione dei profitti, di aumento degli NPL sul totale dei crediti erogati e una riduzione della percentuale di prestiti all’interno dell’attivo.
3.5 - Analisi dei risultati della regressione
Per iniziare l’analisi sono partito dai p-values delle diverse variabili indipendenti utilizzate, valutandoli di anno in anno, alla ricerca di variabili particolarmente significative per un livello di confidenza del 95%.
Plottando i p-values per i diversi anni si nota che tutte sono generalmente sotto il livello limite del 5% e quindi statisticamente significative.
Riporto qui anche i valori di R^2 nei diversi anni, per mostrare l’adeguatezza della regressione
Grafico B0
A questo punto è utile procedere plottando anche i coefficienti delle diverse variabili sui vari anni di osservazione, per poter così tirare le somme e fornire
un’interpretazione dei numeri.
Grafico B2
Grafico B3
Grafico B5
La prima cosa che si nota osservando i grafici è la differenza fra il coefficiente di regressione della prima e della seconda variabile (Net Loans / Total Assets (%) e Derivatives / Total Assets (%)): l’effetto positivo della percentuale degli strumenti derivati detenuti in portafoglio appare nettamente maggiore rispetto a quello della percentuale di prestiti all’interno dello stesso. Questo risulta ancora più interessante se posto in relazione al grafico A2, in cui si nota un trend di riduzione della
percentuale di asset derivati, abbinato al grafico B2, in cui si intravede un trend di crescita del peso dei derivati rispetto alla profittabilità della banca.
Possiamo quindi dire che il peso specifico degli asset derivati aumenta anche quando la loro percentuale sul totale degli attivi diminuisce.
Se invece osserviamo singolarmente il grafico B1 relativo a Net Loans/ Total Assests (%) risulta ben visibile che nel periodo caratterizzato dalla cosiddetta Crisi dei Debiti Sovrani (2011/2012) le banche europee abbiano sofferto una perdita di profittabilità dell’area crediti, con un coefficiente di regressione che si porta quasi a 0 nel 2012, per poi riassestarsi successivamente su livelli più alti (ma comunque minori di quelli connessi agli strumenti derivati).
Completa l’informazione sul mercato del credito il grafico B4, in cui si nota una (abbastanza ovvia) correlazione negativa fra la percentuale di NPL sul totale dei prestiti erogati e il margine di profitto.
Osservando più attentamente si nota che la percentuale di NPL tende a crescere a seguito del periodo 2011/2012, ristabilizzarsi brevemente negli anni successivi e crollare nel periodo 2017/2018.
Qui va sottolineato che appare molto probabile che il 2020 porterà il grafico verso il basso rispetto al 2019: una situazione come quella attuale connessa al Covid-19 non po' non aggravare la situazione NPL: come detto infatti in precedenza nella tesi, il mercato del credito lega le banche più tradizionali all’economia reale e quindi
percentuale di NPL sul totale, inoltre si pone anche il problema di una riduzione dei redditi privati connessi alle suddette attività, che vanno a creare difficoltà ai privati nel pagamento delle rate dei mutui e dei finanziamenti.
Per quanto riguarda il grafico B5, inerente all’ Interbank Ratio(%) , possiamo
osservare che il coefficiente di regressione risulta correlato positivamente col margine di profitto, e questo effetto è costante su tutto il periodo.
Essendo il ratio sostanzialmente formato dal rapporto fra attivi interbancari e passivi interbancari, possiamo sostenere che un maggiore impegno dell’attivo sul fronte interbancario ha effetti positivi sui profitti della banca.
Il problema qui sorge in base alle implicazione sistemiche dei prestiti interbancari: abbiamo quindi una cartina tornasole della interconnessione del comparto bancario. Un rapporto di questo genere implica che la banca si espone da un lato al rischio di una fuga di depositi da parte di altre banche creditrici (sul lato del passivo /
denominatore) e dall’altro si espone al rischio di default di un secondo gruppo di banche debitrici (lato attivo / numeratore).
Il fatto che questo ratio abbia correlazione positiva coi profitti, lascia supporre che l’interconnessione sia valutata positivamente dalle banche, in un ottica di
diversificazione di attivo e passivo.
Infine, il grafico B3 ci mostra che il margine d’interesse ha ancora un alto livello di correlazione coi profitti della banca, si nota però che questo coefficiente fluttua in modo abbastanza violento nel periodo considerato.
Queste fluttuazioni fanno intuire che una strategia di diversificazione è fondamentale per permettere alla banca di sopportare momenti di congiuntura negativa per il
mercato del credito.
In conclusione: i risultati della ricerca empirica confermano quanto detto in precedenza riguardo ad alcuni dei trend in corso nel settore bancario.
Si denota qui una maggiore ricerca di diversificazione, generalmente a discapito del business tradizionale della banca, basato su erogazione di prestiti e raccolta al
dettaglio tramite depositi.
Nelle sezioni precedenti si è già proceduto ad una ricerca all’interno della più recente letteratura specialistica, la quale ci permettesse di esprimere un giudizio
sull’adeguatezza di questi “mosse” da parte delle banche, una adeguatezza valutata alla luce del rinnovato interesse globale per la gestione del rischio sistemico.
Capitolo 4:
Conclusione
Prima di concludere è bene tirare le somme di questo lavoro da me portato avanti. Nella prima parte ho riportato alcuni risultati ottenuti dalla ricerca scientifica che ci spingono ad accettare come punto di partenza l'esistenza di una correlazione positiva fra Non Interest Income e rischio sistemico: in pratica, man mano che le banche ottengono i propri ricavi da attività diverse da quelle tradizionali (le quali sono legate fortemente ai tassi d'interesse) la stabilità del settore bancario e del sistema finanziario, di cui il primo è una componente centrale, viene inficiata.
Si può quindi considerare il business bancario tradizionale come qualcosa di più sicuro delle altre attività che una banca può intraprendere, però questo vale solo se guardiamo la situazione dal punto di vista sistemico: a livello di singola banca esiste un evidente vantaggio di riduzione delle probabilità di default e stabilizzazione dovuto ad una maggiore diversificazione delle fonti reddituali.
Sebbene non ci sia unanimità nel riconoscere questa relazione come significativa e positiva, penso di aver trovato materiale sufficiente per considerare questa come una credibile ipotesi di lavoro.
Il passo successivo nell'esposizione è stato quello di accertare l'importanza e la centralità del NII e del suo doppio: la diversificazione operativa.
Perchè, se le attività tradizionali della banca risultano più sicure delle altre a livello sistemico i dati mostrano che la quota di NII rispetto al margine d'interesse continua a crescere?
Ho proceduto quindi cercando elementi che potessero non solo spiegare questo trend, ma anche rafforzarne la validità.
irrimediabilmente verso la diversificazione operativa e il disimpegno dalle attività bancarie tradizionali.
Sebbene la politica monetaria della BCE sia il principale, non se ne possono certo ignorare altri, quali lo stato di debolezza e instabilità dell'economia europea e internazionale, gli effetti delle nuove norme bancarie di UE e Comitato di Basilea, il nuovo quadro della vigilanza unica BCE e lo stato della concorrenza attuale e potenziale nel settore dei servizi finanziari.
Tutti questi fattori possono essere considerati come forze diverse (anche se interconnesse e interdipendenti) che spingono tutte in un unico punto, questo punto è la banca, e la direzione verso cui la spingono è la diversificazione operativo/reddituale. Un altro modo di vedere la situazione è che questi stessi fattori esercitano una pressione congiunta sul margine d'interesse, comprimendo sempre di più la redditività e la sostenibilità dell'intermediazione creditizia.
Questa pressione è quindi asimmetrica: colpisce solo un ambito della vita della banca e lascia aperte altre strade per recuperare la redditività persa, quali ad esempio l’intermediazione mobiliare e assicurativa.
A ben vedere quindi la spinta verso la diversificazione è determinata dalle pressioni esercitate dell'ambiente operativo/regolamentare delle banche, insieme alla pressione che il mercato e gli investitori esercitano sulle banche, al fine che sostengano il prezzo delle azioni attraverso performance significative.
Siamo quindi probabilmente di fronte ad una situazione in cui la banca tradizionale è prossima all'estinzione, in favore del modello di banca universale mista, con al massimo la speranza di poter essere inglobata e assorbita all'interno di questa.
Se però la diversificazione presenta evidenti vantaggi in termini di riduzione delle probabilità di default della singola banca e di profittabilità, meno evidente (quasi nascosto) risulta il costo che questo comporta a livello sistemico, dato che nessun livello di diversificazione può mai impedire un evento sistemico e che, in base alle mie ricerche, è probabile che livelli complessivamente alti della stessa prestino il fianco proprio a questo tipo di eventi negativi.
A livello psicologico l'effetto gregge è molto forte nei mercati finanziari, e se tutti decidono di diversificare molto, il sistema non può risultare diversificato nel complesso: risulta solo maggiormente omogeneo e interconnesso, quindi molto esposto a eventi negativi che riguardano contemporaneamente più intermediari; e questo solo a livello meccanico, l'effetto contagio può arrivare anche dopo a colpire il sistema.
In un mondo con limitate possibilità d'investimento c'è un evidente problema di asset correlation fra i portafogli delle banche e la diversificazione operativa porta le banche a invadere gli spazi dei competitor per entrare in aree d'affari nuove; sommando questi fattori al parziale disimpegno dall'intermediazione creditizia in corso, otteniamo un'immagine di un sistema formato da banche decisamente troppo simili per essere considerato stabile.
Questo ci porta anche ad un'altra questione, nell'ambito del moral hazard: volente o nolente una banca ottiene ovvi benefici dalla garanzia di un salvataggio in caso di crisi grave e questa dipende dalle caratteristiche della banca, le quali determinano la sua rilevanza sistemica.
Si dà quindi generalmente per scontato che esista un incentivo occulto per le banche a diventare “too big to fail”, ma, come sostengono Moore e Zhou (2013), ne potrebbe esistere anche uno a diventare “too non-traditional to fail”: infatti oltre alle dimensioni della banca dovremmo considerare come determinante per la sua rilevanza sistemica anche la sua non-tradizionalità, intesa come appoggio crescente alla raccolta all’ingrosso sul lato del passivo e a fonti reddituali non-interest-related quali commissioni e simili.
Al contrario, le banche che operano in modo tradizionale, con alti livelli di Tier 1 Ratio ( e qui Basilea III cerca di favorire la raccolta al dettaglio tramite depositi) e centrate sul business dell’erogazione di prestiti hanno meno rilevanza sistemica e hanno quindi probabilità inferiori di essere oggetto di piani di salvataggio pubblici in caso di crisi. Il quadro non è molto incoraggiante: tutto il sistema finanziario spinge in una direzione ben precisa e questa non appare ottimale a livello macro-prudenziale, politiche come il